Ansia, depressione, psicofarmaci
Come si fa a guarire dall’ansia e dalla depressione? Cosa deve fare una persona che attraversa un periodo difficile, caratterizzato da ansie, fobie, attacchi di panico, oppure da tristezza profonda senza che ne sia chiaro il motivo? I medici prescrivono farmaci – ansiolitici, antidepressivi, o entrambi – ma sono davvero la risposta migliore? Certo, i farmaci antidepressivi spesso risultano efficaci, però è curioso questo fatto: se in uno studio controllato in “doppio cieco” vengono paragonati con un placebo, la differenza risulta minima, quasi inesistente.
Occorre a questo punto spiegare, per coloro che non sono del mestiere, in cosa consiste uno studio controllato in doppio cieco (double-blind). Si somministra il farmaco a un campione di pazienti scelti in modo casuale, cioè randomizzato (random), e a un altro campione di pazienti, anch’essi scelti in modo randomizzato, si somministra un placebo, cioè una pillola identica al farmaco come forma, peso, colore e sapore, ma inerte. Però né i pazienti né i medici sanno quale è il farmaco e quale è il placebo (se lo sa il medico e non il paziente si parla di “singolo cieco”, single-blind), lo sanno solo i ricercatori, i quali contrassegnano le pillole con una sigla; è stato dimostrato infatti che se il paziente sa che assume un farmaco spesso scatta l’“effetto placebo”, cioè migliora grazie a fenomeni suggestivi, ad esempio per una aspettativa di guarigione (ed è bene che non lo sappia neppure il medico perché può influenzarlo, e anche questo è stato dimostrato empiricamente).
L’effetto placebo è così potente che alcuni lo hanno addirittura definito il “farmaco” più efficace che esista in psichiatria – il che, a ben vedere, la dice lunga su cosa sia la psichiatria, una disciplina “non tecnologica” in cui la relazione interpersonale gioca un ruolo fondamentale (Michael Balint diceva infatti che “lo psichiatra somministra se stesso come farmaco”: Medico, paziente e malattia. Prefazione di Pier Francesco Galli. Milano: Feltrinelli, 1961; Roma: Fioriti, 2014). Al termine della sperimentazione si studia la differenza tra i due gruppi utilizzando una scala di valutazione standardizzata, la stessa che è stata usata all’inizio dello studio, per misurare le differenze pre-post.
Sono questi quelli che vengono chiamati RCT (Randomized Controlled Trials), gli “studi randomizzati controllati”, un metodo rigoroso che viene definito, non a caso, il gold standard della ricerca scientifica, cioè il metodo da prendere come punto di riferimento per tutti i ricercatori. È grazie agli RCT che la medicina ha potuto fare passi avanti enormi, ad esempio individuando farmaci che hanno salvato la vita a intere popolazioni.
Ebbene, come si diceva, dagli RCT è emerso che la differenza tra antidepressivo e placebo è davvero minima, clinicamente non significativa (uno dei primi che lo dimostrarono fu Irving Kirsch negli anni 1990, che riassunse le sue ricerche nel libro del 2009 I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito. Milano: Tecniche Nuove, 2012). Ne consegue che la stragrande maggioranza dei pazienti – soprattutto quelli affetti da una depressione non grave – migliorano per l’effetto dell’incontro col medico, grazie a quella che potremmo chiamare una “psicoterapia implicita” (la psicoterapia, infatti, potrebbe anche essere definita come la scomposizione dell’effetto placebo per capirne il meccanismo, massimizzarlo e stabilizzarlo). Se i pazienti depressi migliorano sostanzialmente grazie al rapporto col medico, allora perché non offrire loro una psicoterapia? Sarebbe anche un bel guadagno per le casse dello Stato, dato che gli antidepressivi sono rimborsabili.
Il problema è che ci perderebbero le case farmaceutiche, che hanno una influenza enorme nel condizionare la cultura del settore (finanziano i congressi, le riviste scientifiche, e tramite i rappresentanti farmaceutici offrono una loro capillare e per niente imparziale “educazione continua in medicina”). Ma anche molti pazienti richiedono i farmaci perché vogliono risposte rapide e semplici (la cultura del quick fix, come si suol dire), e pure gli psichiatri amano i farmaci perché li rassicurano, danno un senso al loro lavoro in un campo così difficile.
Riguardo alla poca efficacia degli antidepressivi dell’ultima generazione, gli inibitori della ricaptazione della serotonina (gli SSRI, Selective Serotonin Reuptake Inhibitors), che sono i più diffusi (come il famoso Prozac, che da una grossa campagna pubblicitaria fu definito “la pillola delle felicità”), va fatta una importante osservazione, che costituisce un altro paradosso. Essi si basano sull’ipotesi che alla base della depressione vi sia una carenza di un neurotrasmettitore nel cervello, la serotonina, ma è stato dimostrato da più ricerche (una delle quali pubblicata proprio quest’anno sulla rivista Molecular Psychiatry) che non vi è alcuna correlazione tra livelli di serotonina e depressione, cioè non è vero che i pazienti depressi abbiano un basso livello di serotonina (mentre invece è stata ampiamente dimostrata un’alta correlazione tra eventi di vita dolorosi e depressione).
Questo mostra che ancora non conosciamo esattamente la genesi neurobiologica della depressione, alla faccia della propaganda delle case farmaceutiche che “spacciano” gli antidepressivi come la terapia più indicata per questo disturbo. Per interessanti riflessioni su questo e altri problemi, merita di essere letto l’interessante e tanto discusso saggio – tradotto sul n. 2/2012 della rivista Psicoterapia e Scienze Umane – della Prof.ssa Angell, della Harvard University, che traccia un quadro impietoso dello stato attuale della psichiatria, pesantemente condizionata dalla case farmaceutiche (e non si può dire che la Prof.ssa Angell sia l’ultima venuta, avendo diretto la più importante rivista medica del mondo, il New England Journal of Medicine).
Fin qui abbiamo parlato della depressione e dei farmaci antidepressivi.
Che dire dei disturbi d’ansia? I farmaci contro l’ansia, detti ansiolitici (cioè le benzodiazepine), sono invece molto efficaci, e agiscono subito, nel giro di mezz’ora o un’ora se presi per bocca (in via endovenosa l’effetto è immediato), mentre gli antidepressivi avrebbero il loro effetto solo dopo una o due settimane (ed è interessare qui vedere quanti pazienti dicono di star meglio subito dopo averli assunti, ulteriore prova del potente effetto placebo).
Diversamente dagli antidepressivi, gli ansiolitici quindi sono molto efficaci, però presentano dei problemi: inducono dipendenza e assuefazione. Ciò significa che, se vengono presi quotidianamente, dopo un po’ per avere gli stessi effetti può essere necessario aumentarne la dose, e creano dipendenza nel senso che non è facile interromperli rapidamente, altrimenti il paziente prova un aumento di ansia e malessere.
Andrebbero assunti quindi per un breve periodo, ad esempio una settimana, per superare un momento difficile (e questo è scritto anche in quello che viene chiamato, in un modo quanto mai significativo, “bugiardino”). Inutile dire che tantissimi pazienti li assumono per più tempo, anche per tutta la vita, senza che abbiano un vero effetto terapeutico a causa della assuefazione (cioè i pazienti tornano allo stato psicologico precedente, con la differenza che se li interrompono bruscamente ricompare l’ansia, e in misura ben maggiore). Non vi è quindi un vero guadagno nel lungo periodo, ma vi è certamente un guadagno per le case farmaceutiche che speculano sul fatto che tanti pazienti li prendano per tutta la vita.
Va detto che per gli antidepressivi vi è un fenomeno simile, anche se in misura molto minore: sia quando si inizia la assunzione sia quando la si interrompe il paziente può avvertire per qualche giorno un piccolo disagio, alcuni fastidi (ad esempio sensazioni strane alla vista), e questi sintomi sono causati dal fatto che l’equilibrio neurotrasmettitoriale nel cervello deve riaggiustarsi ai nuovi livelli di serotonina (e, come argomentano molti ricercatori, il cervello dopo alcune settimane si autoregola e torna all’equilibrio precedente, annullando quindi l’eventuale effetto iniziale, e questo spiegherebbe il fatto che dopo un po’ gli antidepressivi hanno meno effetto).
Ma quello che è importante è il disagio che il paziente prova quando li interrompe, perché il cervello deve riadattarsi di nuovo: subito questo disagio viene interpretato dal paziente con l’idea che l’antidepressivo gli faceva bene, per cui ne riprende l’assunzione, a beneficio non suo ma delle case farmaceutiche, che queste cose le sanno ma si guardano bene dal farle dire ai loro rappresentanti farmaceutici. Queste e altre cose sono spiegate molto bene, tra gli altri, Robert Whitaker nel suo bellissimo libro Indagine su un’epidemia. Lo straordinario incremento delle disabilità psichiatriche nell’epoca della diffusione degli psicofarmaci (Roma: Fioriti, 2013 – esiste anche un video su YouTube).
Del resto già negli anni 1990 il professor Giovanni Andrea Fava, dell’Università di Bologna, aveva sostenuto che i farmaci antidepressivi e ansiolitici possono indurre cronicità e maggiori ricadute (Do antidepressant and antianxiety drugs increase chronicity in affective disorders? Psychotherapy and Psychosomatics, 1994, 61: 125-131; Suscettibilità alle ricadute e cronicità nei disturbi affettivi. Siamo sicuri che i farmaci antidepressivi ed ansiolitici abbiano solo un effetto protettivo? Rivista Sperimentale di Freniatria, 1995, 119, 2: 203-209).
Questo è quindi lo stato attuale della terapia dei disturbi d’ansia e depressivi, quelli che vengono chiamati “disturbi mentali comuni” (ben diversi ad esempio dalla schizofrenia o dal disturbo bipolare, per i quali vi sono farmaci a volte molto efficaci). Cosa si può fare per migliorare la situazione? Va segnalata a questo proposito una importante iniziativa.
Pochi mesi fa è stato pubblicato il documento finale della “Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione”, costituita con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità dopo un convegno organizzato a Padova il 18-19 novembre 2016 da Ezio Sanavio, Professore di Psicologia clinica all’Università di Padova. A quel convegno era stato invitato David Clark, che aveva presentato il programma inglese Improving Access to Psychological Therapies (IAPT), da lui promosso nel 2008 assieme a Richard Layard, docente di Economia alla London School of Economics (LSE), e poi attivato dal governo inglese: il punto di partenza di tale programma era rappresentato dall’accumularsi di prove scientifiche che dimostrano che, nel trattamento dei disturbi mentali comuni (ansia e depressione), la psicoterapia è spesso più efficace dei farmaci (vi è un minor numero di ricadute, i miglioramenti ottenuti sono più duraturi ed aumentano nel tempo, etc.).
Di conseguenza, come è stato calcolato alla London School of Economics, migliorando l’accesso ai trattamenti psicologici nei Servizi di salute mentale è possibile ottenere non solo un maggiore benessere per gli utenti, ma anche un guadagno per le casse dello Stato (minori assenze lavorative, minori costi indiretti delle malattie, etc.). Va detto che lo IAPT fu promosso inizialmente da un governo laburista, e che quando questo governo cadde e subentrò un governo di destra, il programma fu finanziato ancor di più, a riprova del guadagno economico derivato da una maggiore disponibilità di psicoterapia (come sappiamo, spesso l’economia conta più del benessere dei cittadini).
Per molti disturbi psicologici comuni quindi la psicoterapia – come peraltro indicato dalle principali linee-guida internazionali (inglesi, americane, australiane, etc.) prese in rassegna nel documento finale della Consensus Conference – andrebbe considerata come intervento di prima scelta, mentre i medici spesso si limitano a prescrivere farmaci senza suggerire una psicoterapia altrettanto efficace o ancor più efficace. Sarebbe quindi nell’interesse generale migliorare l’accesso alle psicoterapie nei Servizi di salute mentale, assumendo psicoterapeuti (oggi presenti in numero molto limitato) e organizzando per medici e psicologi un’adeguata formazione. Oggi i pazienti che necessitano di un trattamento psicoterapeutico sono costretti a ricorrere al mercato privato, con una discriminazione di censo inaccettabile in tema di salute ed irrispettosa del dettato costituzionale.
Il Documento finale della Consensus Conference, di 117 pagine, è disponibile sul sito Internet dell’Istituto Superiore di Sanità (vi è anche una versione inglese), con una Premessa di Silvio Brusaferro (Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità) e una Presentazione di Silvio Garattini (Presidente dell’Istituto Mario Negri e della Giuria della Consensus Conference). Inutile dire quanto sia importante far conoscere questo documento ai politici, agli amministratori della salute mentale, ai media e in generale a tutta la popolazione. La terapia dei disturbi mentali comuni, cioè dell’ansia e della depressione, ha aspetti che la fanno assomigliare – complici le case farmaceutiche e soprattutto i modelli educativi di molte scuole di specialità in psichiatria italiane che ne fanno da cassa di risonanza – a una vera e propria malpractice di massa.
Paolo Migone (migone@unipr.it) è coordinatore del Comitato editoriale della “Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione”, e dirige la rivista Psicoterapia e Scienze Umane.
Per maggiori informazioni:
Ezio Sanavio, Una Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione. Psicoterapia e Scienze Umane, 2022, 56, 1: 11-20. Dopo questo articolo vi sono la Premessa di Silvio Brusaferro, la Presentazione di Silvio Garattini al Documento finale della Consensus Conference, e due documenti che perseguono obiettivi affini che sono open-access e linkati all’indice del n. 1/2022.
David M. Clark, Il programma inglese Improving Access to Psychological Therapies (IAPT). Psicoterapia e Scienze Umane, 2017, 51, 4: 529-550. Alcune informazioni sul programma inglese IAPT sono nell’editoriale del n. 4/2017.
Research Group for Treatment for Anxiety and Depression (2017). Psychotherapies for anxiety and depression: Benefits and costs. Research in Psychotherapy: Psychopathology, Process and Outcome (RIPPPO), 2017, 20, 2: 131-135.
Richard Layard & David M. Clark, Thrive: How Better Mental Health Care Transforms Lives and Saves Money. Foreword by Daniel Kahneman. Princeton, NJ: Princeton University Press, 2014.
American Psychological Association, Riconoscimentodell’efficacia della psicoterapia. Psicoterapia e ScienzeUmane, 2013, 47, 3: 407-422.
Paolo Migone, Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: efficacia reale. Psicoterapia e Scienze Umane, 2005, 39, 3: 312-322 (vedi una versione del 2009).
Paolo Migone, Problemi della ricerca farmacologica: il caso dello “Studio 329”. Psicoterapia e Scienze Umane, 2015, 49, 4: 589-594.