Complessità della fotografia. Una conversazione

Questa conversazione raccoglie materiali discussi prima oralmente e poi elaborati via mail, tra l’aprile e il maggio del 2012. Lo stimolo iniziale è stato quello di evitare per quanto possibile il metodo dell’intervista concordata – dove chi fa le domande in qualche modo già presuppone le possibili risposte, e chi risponde non può che confermare o smentire le premesse iniziali. L’ipotesi di fondo era di proporre un approccio dialogico alla comprensione della fotografia contemporanea, attraverso temi rilanciati e sviluppati man mano che la logica delle domande e delle risposte, talvolta anche in forma retroattiva, si andava precisando. Al centro di tutto, l’idea di una correlazione sempre più stretta tra modelli teorici e usi pratici della fotografia.

 


 

GDF – Riprendo alcuni temi della nostra recente conversazione romana perché mi sembrano urgenti e vorrei approfondirli con te dandogli una forma più definita. Come sai, tutto nasce dal libro che ho di recente concluso, dove dedico alcune pagine al tuo lavoro sull’Armenia. Il tema da cui vorrei partire riguarda in realtà un aspetto collaterale del tuo modo di procedere, ovvero il fatto che esso si è sviluppato, dal tuo punto di vista, come una forma di esperienza e di conoscenza sia pratica (banalizzando: il fatto di viaggiare alla ricerca di determinati luoghi ed edifici) che teorica (il fatto di pensare questa operazione nei termini di un’iconografia e non dell’esercizio di un certo modo di vedere, e di dare al tutto una chiave metalinguistica). Nel mio scritto sottolineo il fatto che “un simile approccio può risolversi solo entro una concezione paradossale della storia, dato che tutti i piani temporali chiamati in causa dalle fotografie – ognuna delle quali adotta uno stile visivo peculiare e fortemente connotato in senso cronologico, in qualche modo desunto dal contesto in cui le architetture sono situate – finiscono per coincidere nella sintesi ideale di un’unica matrice architettonica. Essa stabilisce di conseguenza una sorta di costante iconografica che mette in cortocircuito sia le fotografie realizzate ad hoc sia le immagini found footage inserite nel progetto”. Sta di fatto che, come già rilevavo, credo che si debba considerare “questo intreccio ormai generalizzato tra la teoria e il versante operativo della fotografia” il nodo cruciale da chiarire in qualsiasi discorso sui rapporti tra fotografia e contemporaneità, perché altrimenti il rischio è quello di ricadere in affermazioni generiche e talvolta apocalittiche (del tipo “la fotografia è morta”) che di fatto non fanno che riproporre un vecchio vizio della teoria fotografica: quello di pretendere di definire cos’è la fotografia in sé e per sé, al di là dei suoi concreti significati (storici, culturali, politici ecc.), il che è in fondo un modo per appropriarsene senza sporcarsi le mani e senza dover mai pagare il conto. Dunque vorrei iniziare con una affermazione semplicissima, ovvia, banale: le fotografie (e in senso lato, le immagini) non sono tutte uguali. Questa idea di una post-storica “democrazia delle immagini” fatta di finzioni e simulacri e citazioni di citazioni nasce, mi sembra, da un circolo vizioso della teoria, da una sorta di cattiva coscienza che porta a leggere tutte le immagini in termini di ripetizione, piuttosto che alcune di esse in termini di differenza. E vengo (finalmente) alla domanda: cosa distingue per te una buona fotografia?

 

CG – Direi che questa distinzione che fai tra un approccio, per così dire, iconografico da un lato e l’esercizio di un certo modo di vedere dall’altro costituisce proprio uno degli aspetti centrali su cui ho riflettuto di più nel mio lavoro degli ultimi anni. Si tratta infatti credo di un punto fondamentale da approfondire per fare chiarezza su tutta una serie di equivoci che si sono creati da quando la fotografia è presente in modo massiccio nell’arte contemporanea e che negli ultimi tempi per questioni anche di dialogo tra generazioni che offrono approcci diversi si sono fatti più evidenti. Per venire alla tua domanda penso che per me una buona fotografia oggi (o forse sarebbe più corretto dire una fotografia che mi suscita interesse) è quella che sa offrirmi più di un piano di lettura ponendomi delle domande che vanno al di fuori di essa. Con questo ovviamente non mi riferisco affatto ad una fotografia di cosiddetto impegno sociale, che quanto più è dichiarato tanto più oggi risulta invece impotente per il suo comunicare molto spesso con un linguaggio obsoleto.

 

Claudio Gobbi, Kecharis, Armenia, XI secolo

 

GDF – Voglio tornare sul tema dei diversi approcci generazionali, ma ora insisto su questa idea di un linguaggio obsoleto e impotente sul piano della comunicazione. Fatte le dovute eccezioni, non ti sembra che oggi stiamo assistendo a una sorta di banalizzazione generalizzata dei linguaggi visivi che, per paradosso, nasce proprio dal fatto di uniformare – spesso grazie a un uso molto disinvolto del pensiero critico – tutte le immagini? Ma forse preferisci rispondere parlando del tuo lavoro, e allora la domanda (multipla) è: come si sedimenta nella tua testa il senso e il valore di una fotografia? quanto ci metti a capire che funziona? in virtù di che logiche e ragionamenti la colleghi ad altre immagini?

 

CG – In effetti il mio approccio alle immagini negli ultimi anni è piuttosto cambiato. È rimasta invariata l’idea di un’analisi che investa sempre il territorio europeo, inteso in senso ampio, culturale, ma nell’affrontare un progetto c’è stato senz’altro un passaggio dalla singola immagine, da un esercizio della visione, come si diceva, tipico di una fotografia che si confronta quotidianamente con la ricerca del reale, a un tutto. Un insieme che parte sempre da una preliminare e lunga ricerca sul web e che cerca poi delle verifiche nelle relazioni tra la singola immagine e un corpus che questa deve andare a costituire. In questo senso l’idea di una regola prefissata è del tutto abbandonata a favore di quello che poi sarà il lavoro finale e il suo esplicarsi in un progetto da esporre. Attualmente procedo con un approccio collezionistico, “accumulativo” e di progressiva inclusione/esclusione, per creare un sistema di relazioni tra immagini che siano al tempo stesso rappresentazione (di un determinato soggetto) e negazione di uno sguardo e un punto di vista unico. L’accettare o l’escludere quindi un’immagine è legato al suo fornire o meno un senso al di fuori di essa, questo tenuto conto comunque di quelli che sono i suoi possibili valori e significati in senso geografico, cronologico, estetico.

 

GDF – Provo a scavare un po’ nella tua risposta sottoponendoti due (fulminanti) riflessioni dai Passages di Walter Benjamin; mi dirai se e come tutto ciò ha a che fare col tuo lavoro sulla memoria culturale. “Ciò che nel collezionismo è decisivo – scrive Benjamin –, è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto opposto dell’utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza. Cos’è poi questa “completezza”? Un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione. E per il vero collezionista ogni singola cosa giunge a divenire un’enciclopedia di tutte le scienze dell’epoca, del paesaggio, dell’industria, del proprietario da cui proviene” (Il collezionista, H 1a, 2). “Il collezionista, per il quale le cose si arricchiscono attraverso la sua conoscenza della loro origine e della loro durata nel corso della storia, si procura con esse un rapporto […] che ormai non può che apparire arcaico” (Ivi, H 4, 4). In particolare il primo passo suggerisce una domanda che non mi sembra estranea al tuo modo di procedere: quando una ricerca fotografica può dirsi compiuta?

 

CG – Ci sono alcuni autori per i quali l’archivio (intendo il proprio) costituisce l’opera stessa. La quantità, la ripetizione, l’accumulo, costituiscono la cifra stessa del loro lavoro, senza i quali tutto acquisterebbe un valore diverso. In fotografia, in passato, come ben sai, questo si è tradotto a volte in vere e proprie “mappature” territoriali, umane, naturali. Pur amando molto alcuni di questi lavori io non seguo questo approccio, non sono un produttore “industriale” di immagini e alcune fotografie che trovo, analizzo, o realizzo io stesso, rimangono semplici oggetti di riflessione per una selezione, o delle connessioni per giungere altrove. Vi è tuttavia sempre, almeno per i progetti che non siano degli assignments, la peculiarità di lavorare su delle serie che rimangono aperte e potenzialmente inesauribili, questo perché l’obiettivo resta sempre la ricerca di una traccia sul territorio che possa essere una domanda di appartenenza a questo. Architettura, interno o paesaggio che sia, mi interessano le immagini che rappresentino un confine culturale o siano in grado di porre domande di localizzazione spazio-temporale.

 

Claudio Gobbi, Arnouville, Francia, XX secolo

 

GDF – Insisto sull’idea secondo cui vi è qualcosa di arcaico in questo approccio collezionistico e accumulatorio. Benjamin scrive ormai quasi un secolo fa, e all’epoca la sua affermazione è immediatamente comprensibile (siamo in pieno Modernismo). Ma oggi? Non trovi sintomatico che questo continuo dialogo col passato sia ormai divenuto uno degli aspetti più significativi della ricerca visiva contemporanea?

 

CG – C’è da dire che questo discorso è ovviamente valido sotto diversi punti di vista, quello dell’artista/fotografo ma anche quello del collezionista di professione, ma qui rischiamo di inoltrarci in una direzione diversa e nebulosa. Mi sembra più che altro interessante notare come tutto ciò sia diventato un territorio privilegiato per coloro (studiosi, critici, curatori) che oggi sono interessati a riflettere sull’uso della fotografia nell’arte e sulle sue mutazioni. Le iniziative in questo senso sembrano infatti ancora inesauribili nonostante il dibattito sia aperto ormai da molti anni. Esagerando, penso che si potrebbe anche dire che il processo fotografico in sé contenga qualcosa di arcaico, in quanto mnemonico per definizione. Pensando ad Armenie ville, da cui siamo partiti, il “prelevamento” di un’immagine che provenga da un archivio storico o che sia frutto di riprese personali non contiene sostanziali differenze ma acquista senso in un sistema di relazioni tra le immagini che è dialogico e trasversale, approcci visivi diversi si mescolano in modo “democratico” all’interno di una costante iconografica. In questo senso viene meno l’idea tradizionale di “autore” e si aprono domande relative alla paternità delle immagini e quindi anche alla loro veridicità.

 

GDF – Quello della “veridicità” (o meno) delle immagini è a mio parere un tema oggi fin troppo abusato. Penso che siamo ormai tutti d’accordo sul fatto che le fotografie mentono almeno allo stesso modo in cui affermano delle verità (una cosa non esclude l’altra), e che dunque occorre innanzitutto intendersi su quelle che sono le funzioni che attribuiamo alla fotografia. Sotto questo aspetto il tuo lavoro è in effetti particolarmente stimolante, perché fa dialogare oggetti visivi nati in contesti e per finalità diverse. Eppure come posso definirti, se non un “autore” (e relativi sinonimi)? Ovvero, con buona pace di Barthes, qualcuno alla cui autorità io faccio riferimento nel decifrare un testo – un insieme più o meno “aperto” ma comunque coerente e sensato – composto non di parole, ma di immagini. Detto in un altro modo, il fatto di non procedere nella direzione di uno stile visivo, o di uno sguardo, ma di metterne in connessione diversi, è pur sempre un’operazione autoriale: per rimanere su un terreno barthesiano, direi che oggi alla classica figura del fotografo che produce oggetti visivi immediatamente riconoscibili (che usa il suo sguardo come una sorta di logo) si sta sostituendo (qui riemerge il tema generazionale) una figura più complessa e meno autoritaria.

 

CG – Forse, più che di veridicità delle immagini, per usare un termine più attuale potremmo parlare di una loro “irrequietezza” o “nervosità” (nervousness), come ha fatto Elad Lassry in una recente conversazione. Un autore che mi sembra particolarmente rappresentativo di un certo scarto generazionale avvenuto in termini di approccio al medium fotografico negli ultimi anni. Penso sia difficile trovare oggi un artista della mia generazione o ancor più della seguente che pur lavorando con la fotografia non faccia uso di altre fonti o di altri mezzi espressivi. Mi chiedo come appaia a te tutto ciò, pensi che si tratti di un fenomeno passeggero, quasi di una moda o piuttosto di qualcosa di irreversibile?

 

Claudio Gobbi, Atene, Grecia, XX secolo

 

GDF – Generalmente tendo a diffidare delle definizioni assolute; mi piace osservare le fotografie, i loro meccanismi produttivi, le idee che vi sono dietro, in un modo estremamente analitico e talvolta scettico; e poi cerco sempre di posizionare le mie riflessioni in una prospettiva storica. Dal mio punto di vista, tutto ciò che accade è, per forza di cose, irreversibile: anche i fenomeni passeggeri. Nel senso che tutto lascia tracce nella storia e produce effetti nel tempo. Ciò detto, è un dato di fatto che la fotografia – e non solo quella che opera nel mondo dell’arte – si sia negli ultimi anni, diciamo così, moltiplicata, “espansa” e arricchita, liberandosi anche di idee e atteggiamenti un po’ rigidi e dogmatici che in passato l’avevano limitata imponendole vincoli molto precisi (la tecnica, il genere, il soggetto, lo stile ecc.). Ma non vorrei trarre delle conclusioni affrettate dall’attuale situazione, che effettivamente si sta evolvendo ma è difficile dire in che direzione. Una cartina di tornasole di questo stato di cose, specie in Italia, è nel rapporto, spesso di totale incomprensione, oppure, all’inverso, di identificazione settaria, direi carbonara, tra chi fa fotografie e chi parla (o scrive) di fotografia. Ai due estremi puoi trovare la delegittimazione unilaterale di certe pratiche (ritenute magari superate o banali ecc.) e la glorificazione agiografica del grande fotografo (in genere, dal canto suo, bonariamente accondiscendente verso i suoi epigoni, purché ne proseguano il cammino a livello di sguardo, temi ecc.). Per rispondere alla tua domanda, credo che si debba considerare un fenomeno definitivo e irreversibile soprattutto questa nuova complessità e ricchezza di piani della fotografia. Cosicché, per fare qualche esempio, ci sono autori che continuano a produrre documenti, a fare ricerche sulla visione e sulla percezione; altri, più interessati ad esempio ai processi della memoria e dell’identità, che lavorano sulle fonti e sugli archivi; altri ancora che costruiscono oggetti e installazioni, che usano i meccanismi della rete, che integrano la fotografia con altri media e forme espressive ecc. Ognuno di questi territori, se isolato e inteso come un “genere” a se stante, ovvero come una tradizione accademica chiusa in se stessa, è destinato a implodere, ad esaurirsi come tutte le mode. Ma (per fortuna) le immagini non sono tutte uguali, e sono quelle più “intelligenti” che a mio avviso determinano gli effetti più duraturi, perché non si fermano ai significati generici delle cose ma ne illuminano gli aspetti più unici e singolari. Sono quelle capaci di connettere – come un sistema nervoso, per riprendere l’espressione di Lassry – fatti o fenomeni lontani e diversi, o di offrire rappresentazioni non stereotipate della realtà. E qui l’intreccio tra pratica e teoria diviene cruciale. (Intreccio che per me, ancor più che nella scrittura, diventa realmente indispensabile nella didattica, dove cerco sempre di collegare chiavi di lettura fortemente teoriche e generali a precise immagini ed esperienze fotografiche). Sotto questo aspetto, al di là delle mode, ciò che è in gioco è soprattutto una possibilità di non farsi irretire dalle logiche più omologanti e spersonalizzanti dei media. Ma questo implica delle scelte, non sei d’accordo?

 

CG – Penso che tutto sommato i territori dell’arte siano ancora oggi, più di altri, luoghi dove si respira una certa libertà, tenuto inevitabilmente conto di un certo conformismo e di un rapido filtrare delle idee a livello ormai planetario. In questo senso oggi lavorare con la fotografia significa senz’altro disporre di un ampio raggio di azione e a mio parere implica anche un’indispensabile riflessione su quelli che sono i luoghi di confine di questo medium, su cui mi sembra ci siano ancora tante incomprensioni dovute soprattutto ad una mancanza di approfondimento e scarsa comunicazione con i “territori adiacenti”. Troppi operatori dell’arte ignorano del tutto la storia della fotografia così come chi cresce professionalmente nella fotografia sembra spesso non rivolgere il minimo sguardo all’arte, non considerando che negli ultimi 30-40 anni è proprio qui che la fotografia ha trovato una fonte vitale di rinnovamento. Saper scegliere dove collocare il proprio lavoro presuppone quindi a mio parere una certa lucidità e un desiderio di ricerca e costante confronto con realtà e approcci diversi.

 

Claudio Gobbi, Spitakavor, Armenia, XIII secolo

 

GDF – Vuoi spiegarmi meglio in che senso parli di “confine”? Perché questo termine può indicare allo stesso tempo separazione e contatto, distanza e incontro, e a me sembra che in tutto ciò il ruolo della fotografia (l’uso che se ne fa) sia determinante.

 

CG – Mi riferisco a quelle che sono le modalità espositive della fotografia, la possibilità di non limitarsi ad esempio ad un oggetto bidimensionale e di porlo in relazione anche con altri mezzi espressivi, video, scultura, installazione, per citarne alcuni. Ma anche ai rapporti tra fotografia ed editoria, che in Italia ad esempio rappresentano storicamente una grande risorsa lasciata purtroppo ancora in buona parte inespressa. Ecco, credo che oggi la fotografia offra tutto questo e quindi sia senz’altro più di altri un luogo pieno di possibilità ma anche di dubbi, cosa che ne costituisce il grande fascino soprattutto per le nuove generazioni che vi si avvicinano, ma di questo tu senz’altro più di me hai un’esperienza diretta grazie all’insegnamento.

 

GDF – È vero, la didattica ti offre una sorta di punto di vista privilegiato sui processi storici della fotografia, ti consente (soprattutto se oltre che parlare sai anche ascoltare) di coglierne le diverse tendenze, le accelerazioni e le sacche di “resistenza”, i paradossi e i dilemmi. Il dubbio rappresenta del resto (o dovrebbe farlo) una delle risorse maggiori in assoluto per la teoria fotografica, che negli ultimi anni ha dovuto rivedere molte delle sue posizioni più classiche e storicamente accreditate. Qual è, da fotografo, la tua percezione di un simile mutamento? Ritieni che ci sia più sinergia o più scollamento, sia in Italia che all’estero, tra le attuali tendenze della fotografia e le idee che circolano nell’accademia e nel cosiddetto mondo della “cultura fotografica” (editoria, festival ecc.)?

 

CG – Direi senz’altro più scollamento. Se in Italia una pluralità di approcci può essere considerata una peculiarità ormai storicizzata, credo che anche all’estero assistiamo a situazioni simili, con la differenza di un maggior sostegno da parte delle istituzioni, che sono in grado di trasmettere un’immagine apparentemente più compatta. Personalmente vedo priva di senso oggi la stessa possibilità di parlare della fotografia come un campo a sé stante, così come il crescere di iniziative che cercano di rinchiuderla entro un ambito definito: a meno che queste iniziative non siano guidate da un sincero desiderio di approfondirne i profondi mutamenti in corso, il che significherebbe inevitabilmente la volontà di croiser des mondes (come nella coraggiosa mostra curata da Regis Durand al Jeu de Paume nel 2005).

 

Claudio Gobbi, Changli, Turchia, X secolo

 

GDF – In via generale mi trovi d’accordo, anche se questa necessità o capacità di “incrociare mondi” – che si tratti di documenti, di narrazioni o di altre costruzioni culturali – è sempre stata una prerogativa, magari inconscia, di un medium come la fotografia, che fin dalle sue origini ha messo in connessione diverse pratiche sociali, concezioni estetiche, ideologie ecc. Qui si chiarisce forse meglio la nostra posizione, o per essere più precisi, la mia posizione in relazione alla tua (e viceversa). Dal mio punto di vista, infatti, questa inedita e diffusa percezione della complessità della fotografia – che ovviamente è un fatto positivo per lo sviluppo di una reale cultura fotografica – non dovrebbe implicare il fatto che chiunque possa sentirsi autorizzato ad appropriarsi di un preciso campo di saperi, di tradizioni tecniche e visive, di autori e immagini su cui nel tempo è stata edificata quella cosa che oggi chiamiamo “storia della fotografia”. Sotto questo aspetto la cosiddetta rivoluzione digitale, ancorché mutare radicalmente la fotografia (questione fin troppo dibattuta) ha di fatto creato l’illusione di un mondo nuovo e inesplorato, di un territorio vergine da colonizzare. Gli esiti di ciò, sulla teoria e sulla storiografia, sono stati talvolta molto interessanti e stimolanti, talvolta davvero risibili per la loro arrogante ignoranza di tutto l’universo della fotografia storica. Dal mio punto di vista il problema è dunque diametralmente opposto: chiunque oggi voglia occuparsi di fotografia, in qualunque forma (da curatore, da storico, da teorico ecc.) dovrebbe innanzitutto ampliare lo spettro dei suoi interessi, per non ridurre la fotografia a un semplice segmento delle sue competenze. Questo vale forse in misura minore proprio per un fotografo, che resta fondamentalmente un produttore (nel senso più nobile del termine) di immagini, più che di costruzioni teoriche. Ovvero qualcuno che produce esperienza (significato, conoscenza, piacere ecc.) attraverso le immagini. Anche se forse in fondo questa conversazione dimostra anche il contrario, o se non altro la possibilità del contrario. A questo punto ci terrei a lasciare a te la conclusione.

 

CG – Penso che purtroppo questa comprensione della complessità della fotografia non sia ancora sufficientemente diffusa. Il proliferare di eventi che si propongono come momenti più di intrattenimento che di reale approfondimento o dibattito ne è un chiaro sintomo, così come una certa, altrettanto diffusa, superficialità nella critica. Il che non fa che confermare l’idea che un fotografo, pur se orientato verso il mondo dell’arte, sia semplicemente un produttore di immagini (nel senso meno nobile e più meccanico del termine), alimentando così una sorta di autoreferenzialità da parte di chi percepisce la fotografia come un oggetto più rivolto a illustrare o narrare, che a porre domande e riflessioni complesse e stratificate. Credo che a questo punto sia proprio alla coscienza delle prerogative di cui parli che possiamo riferirci: consapevolezza che può svilupparsi solo attraverso dialoghi interdisciplinari, possibilmente a livello internazionale. Ma ciò costituisce al tempo stesso l’incertezza e il grande fascino di questa fase della fotografia.

 

Claudio Gobbi, Tanahat, Armenia, XIII secolo

 

Claudio Gobbi, Sofia, Bulgaria, XXI secolo

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