Venticinque anni dopo / Lasciate ogni speranza, o voi che rientrate in Twin Peaks

7 Giugno 2017

Venticinque anni dopo, torna Twin Peaks, di David Lynch regista e Mark Frost sceneggiatore; sì può vedere su Sky Atlantic, in Italia, in contemporanea all’emissione Usa della casa di produzione Showtime. La serie tv andò in onda nel 1990 e nel 1991, in due stagioni che sconvolsero la visione mediatica, dimostrando che la televisione poteva raccontare, con la qualità, profondità e artisticità del cinema un film lungo decine e decine di ore; nel 1992 uscì nelle sale Fire Walk With Me, in cui Lynch fece un altro dei suoi coraggiosi salti mortali: portare al cinema il prequel di una serie tv appena finita. 1992-2017: venticinque anni dopo ciò che Laura Palmer aveva vaticinato a Dale Cooper nella Loggia Nera si materializza: «ci rivedremo tra 25 anni». La potenza di David Lynch si fonda su questa espansione della sua psiche creativa, dei suoi incubi sin dentro il nostro inconscio, che riattiva le sue angosce più sprofondate, le aggalla, e ci porta in uno stato di trance sonora e visiva che va ben oltre il cinema, la televisione, la stessa letteratura.

 

Questi 25 anni sono passati nella nostra vita e nel nostro corpo, e sono passati nel corpo degli attori Sheryl Lee e Kyle MacLachlan: nessun botox, nessuno zigomo tirato, o labbra rigonfie; il tempo, con il sapore della morte, ha scavato il loro volto, appesantito le loro gote, svilito il loro fascino dionisiaco (Laura) e apollineo (Dale); anche noi sappiamo che il tempo ci sta scavando, e abbiamo la speranza che questa volta Lynch ci aiuti a capire meglio, a risolvere il caso di efferato omicidio sessuale della liceale Laura Palmer, scivolata nella droga, nel sesso promiscuo e prostituito, nel Vizio e nella Perdizione aborrita da ogni puritanesimo ancorato in qualche strano recesso anche nella nostra coscienza. No. Laura Palmer ora è una splendida milf oltre i quaranta in abito da sera con spacco e tacchi alti che scivola verso il nostro man in black divoratore di torte e caffè e di nuovo gli suggerisce all’orecchio qualcosa di esoterico a noi non dato, e di nuovo lo bacia sulla bocca, per poi eclissarsi dietro una delle tende di velluto rosso.

 

 

L’altra serie tv epocale degli anni Novanta, The X-Files di Chris Carter (1993-2002) con la sua coppia Murder-Scully, è tornata nel 2016 con David Duchovny e Gillian Anderson, anche loro con i volti gonfiati della decomposizione della vita; le due attrici protagoniste delle due serie, che in teoria dovrebbero essere le più inorridite dal passare del tempo e dal viale del tramonto, risplendono nella contemporanea rivalutazione del fascino della quarantenne/cinquantenne sapientemente sensuale e seduttiva, certamente competente nel gioco erotico, più meditativa e riflessiva del maschio coetaneo, nettamente rimbambito dalle esperienze, tuonato invece che fulminante come lei. Il “quindici anni dopo” degli X-Files ondeggiava tra la più imbarazzante e patetica delle cose già viste e le più forzate autoironie dei personaggi ormai scettici e stanchi; The X-Files non doveva tornare. Mentre il ritorno di David Duchovny nei panni del direttore FBI trans Denise Bryson, nella scena con Lynch attore è semplicemente incantevole e perfetto, fuori da ogni tempo.

 

Ciò che profondamente distingue le due operazioni di mercato della narrazione audiovisiva è David Lynch. Questo gigantesco artista, mascherato da un volto apparentemente impenetrabile alle increspature emotive, nella sua senilità allarga e lascia giganteggiare una libertà creativa impressionante, richiamando a sé la sua primitiva vocazione di artista visivo negli Stati Uniti degli anni Settanta raccontato da Jon Nguyen e e Rick Barnes con raffinata arte documentaristica in David Lynch: The Life Art (2016); qui Lynch ci permette di intendere quanto la sua formazione nel Montana di creatore di immagini inquietanti, di lettering spiazzanti, di strati di vernici spalmate a mano e poi impastate, deformate in forme orrende e indecifrabili, sia passato naturalmente dalla ammirazione e protezione del pittore Bushnell Keeler alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia, dove cominciò a realizzare Eraserhead (1977).

 

A 71 anni Lynch nel suo studio sulle Hollywood Hills fuma una sigaretta dopo l’altra, fissa il vuoto pensando, muove le mani inventando incessantemente oggetti informi, creature del suo mondo parallelo a lui stesso indecifrabile; passa poi alla sua recente passione di fabbricatore di sounds, di musiche, suscitatore di una nuova generazione di canzoni sensuali e misteriche che dalla Julee Cruise per cui scrisse Angelo Badalamenti nei Novanta giunge oggi alla carrellata puntuale dei titoli di coda della nuova serie di Twin Peaks con le esibizioni live di Chromatics, Au Revoir Simone e The Cactus Blossoms, sempre nel Bang Bang Bar dove a tarda notte molti personaggi cercano di bere e di avvicinarsi alla notte dimenticando gli incubi del giorno.

 

In The Art Life gioca con la figlioletta Lula Boginia, nata dal suo ultimo matrimonio: la bimba si aggira tra i materiali dello studio del suo papà Geppetto settantenne con una grazia incantevole, intelligente, ascolta canzoni di daddy dall’impianto, disegna i suoi primi mostricini con lui.

 

 

 

 

David Lynch ha quindi attraversato il successo cult a Hollywood sino al culmine inarrivabile di Mulholland Drive (2001), tornando nella sua terza o quarta età a espandere e coltivare tutto il suo immenso bagaglio di uomo che vive la sua vita di artista. Torna alla televisione nella suprema indifferenza ai requisiti di audience e narrazione audiovisiva anche di tante eccellenti serie di questi anni. Twin Peaks. The Return ha un montaggio ora psichico ora narrativo, ora onirico ora ironico, ora poliziesco ora esoterico.

Dale Cooper ora è almeno due o tre corpi di Cooper, due o tre anime di Cooper: quella indemoniata da Bob, quella dell’agente FBI deprivato di memoria e intelligenza (stupende le sequenze con Naomi Watts mogliettina furiosa e poi mite che lo riaccoglie nella incredibile farsa di una prima colazione di “happy family” americana, in cui Dale/Dougie deve riapprendere come un autistico a bassissimo QI ogni gesto sotto gli occhi divertiti del figlio che pensa egli motteggi e reciti).

 

 

Lynch ritorna nel personaggio del vicedirettore FBI ad alto deficit uditivo, che filtra il suo rapporto con il reale attraverso amplificazioni grottesche del suo parlato, come se quel mondo che lui sa solo apparente rappresentazione di ben altri orribili mondi egli lo frequentasse con scetticismo e tenacia di detective.

Come sempre, il sesso come portale dell’esoterico: la sua cantante preferita Chrysta Bell interpreta una intelligente e raffinata e altezzosa agente FBI che il vecchio vicedirettore si guarda bene dal portarsi a letto, in nome di una moralità «all’antica»: Tamara Preston (Chrysta Bell) parla suadente e si muove come una diva, e in ogni gesto profuma di sesso. Tracey, la fidanzatina curiosa e morbosa dello studente universitario Sam, che per sbarcare il lunario accetta di fare la guardia al misterioso occhio telescopico in un loft di New York (da cui uno dei Cooper esce come un astronauta di un cosmico universo parallelo alcuni secondi dopo che un demone si è ciucciato e spolpato i due, allacciati in una carnosa scopata sul divano) è una «bad girl» che paga dopo pochi istanti la sua attrazione fatale verso il mistero eccitante.

Poiché altro non si deve dire, essendo state mandate in onda sinora quattro parti del Return, e poiché secondo etica di tv series addicted non è consentito spoilerare troppo, concludo con il più recente dei Lynch: quello dei sounds. Negli ultimi anni egli ha cominciato a lavorare a sue produzioni musicali: le sue cantanti ammalianti (da Julee Cruise a Chrysta Bell) cantavano angeliche in un cupo marasma di suoni. In questo Return Lynch appare anche come Sound Designer. Questi episodi vanno ascoltati in cuffia, con volume alto, e in una assoluta concentrazione su ogni frame/pittura; non conta più il plot: ci si immerge in un trip, in uno stream di (copio e incollo alcuni secondi di didascalie dallo script, sequenza del loft con l’occhio steampunk sul cosmo):

 

[electricity crackling] [atmospheric music] [oddly reverberating] [snaps fingers] [atmospheric music] [woman screaming distantly] [Julee Cruise's "Falling" playing] [oddly reverberating] [soft clicking, scratching noise repeats] [soft clicking, scratching noise continues [static crackling softly] [birds calling faintly] [engine rumbling] [box cutter slicing] [metallic clanking] [distant traffic whooshing] [distant horns honking] [atmospheric music] [atmospheric hum] [cameras humming softly] [atmospheric hum continues] [intercom alarm buzzes] [woman over intercom] [computer processing softly] [buzzer sounds distantly] [elevator lift clicks, ascends] [atmospheric hum continues] [elevator lift clicks] [buzzer sounds distantly] [man over intercom] [keypad beeping] [keypad beeps] [lock rattles] [metal door slides open] [keypad beeping]…

 

In questo video pazzesco per precisione di montaggio digitale, la produzione ha allineato il sincrono di due diversi episodi, che permettono di “capire” il surreale che è accaduto nel loft newyorchese:

 

 

Se la mente di Eraserhead cancella, i suoni dell’artista vivente David Lynch cancellano la coscienza, e il senno, e ogni speranza per chi entra nella storia. Psichedelicamente flashando e scioccando i nostri neuroni ci obbliga a intuire che sotto la pellicola (digitale) della realtà che ci pare di vedere e controllare ogni giorno c’è un cosmo parallelo di stupore, e di orrore, di attonita inspiegabilità che probabilmente sta dopo la morte, e che nella nostra breve parabola di abitatori di un corpo è bene rispettare, temere, e non indagare se non nei sogni, o davanti a un televisore.

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