Veronelli sovversivo istigatore

20 Gennaio 2015

“Non sono un maestro, sono un notaro”. Era questa una sua affermazione ricorrente, anche se qualcuno gli faceva notare che i notari hanno necessità di ordine e di archiviazione, di metodo, e proprio dal metodo e dalla puntigliosa precisione deriva la loro autorevolezza. Rideva, continuando a disseminare la sua stracolma scrivania di bigliettini in cui annotava tutto in “anarchico disordine”. Eppure fu “il maestro di noi tutti”, splendida definizione di Ave Ninchi che con lui condivise il successo televisivo alla fine degli anni '60. Quel successo che lo portò alla notorietà, alla popolarità che oggi si vuole rinnovare, nel decennale della sua morte, con una mostra per farlo conoscere alle nuove generazioni, che di lui sanno a mala pena il nome. Una mostra per far capire in che cosa consistesse la sua grandezza e unicità.

 

Difficile capire perché fu diverso da tutti gli altri che si occuparono di vino. Azzardo. Perché non si occupò mai di solo vino. La sua prima rivista sull’argomento per cui è noto fu «Il gastronomo»; ne fu editore e direttore. Tale rivista nacque insieme ad altre pubblicazioni periodiche di cui fu editore: il quadrimestrale «Il Pensiero», diretto da Giovanni Emanuele Barié, di cui divenne, giovanissimo, assistente all'università Statale di Milano, e «Problemi del socialismo», collana diretta da Lelio Basso, che lui volle accanto a sé dopo l'emarginazione di quest'ultimo dal gruppo dirigente socialista.

Sì! Fu innanzitutto un filosofo che si innamorò della terra e del lavoro contadino. Si innamorò dell'arte, della poesia, tanto da pubblicare per Garzanti le “Guide Veronelli all'Italia piacevole”: ancor oggi insuperato modello di guida turistica non istituzionale.

Era solito citare da Lewis Carrol il brano in cui Alice parla della mappa e Mein Herr spiega che quella che alla fine hanno ritenuto più utile, dopo aver tentato varie scale, è la mappa 1:1, usando “il paese stesso come mappa”.

 

Io lo conobbi nel 1979 e con lui collaborai come autore al “Viaggio sentimentale nell’Italia dei vini”, trasmissione televisiva per la nascente terza rete della Rai. Quel viaggio per l'Italia che durò otto mesi di riprese disegnò per la prima volta la mappa del vino italiano che nemmeno la legge sulla denominazione di origine controllata del 1963 era riuscita a fissare.

Fu un modo di presentare la terra, per lui centro di ogni possibilità e ogni definizione di valore. “La terra, la terra, la terra, la terra, all'infinito la terra”, fu la sua sintesi.

Camminare la terra. Percorrere le vigne. “Camminare la terra è esprimere il nostro vivere in continuo movimento. Talvolta occorre fermarsi per riposare o per pensare e per gioire o per piangere, e alla fine ricominciare a camminare. Fermarsi anche per ricordare e rivivere la strada percorsa”.

E subito il pensiero va al concreto problema di impossessarsi della terra, di permettere ad essa di esprimersi. “Difficile. Molto difficile far capire a questi ragazzi ritornati idealisti – e ai vecchi che hanno sulla pelle le stigmate – essere il ritorno reale, geografico, alla Terra, l’unica possibile via sovversiva. Lo stato – anche e più ancora quello globale – in cui progettano di farci vivere è il male. E non lo vuoi sovvertire? Rovescialo e avrai il bene. La grande arma delle multinazionali è stata quella di impossessarsi della terra attraverso i sistemi della sua coltivazione. Hanno fatto diventare tutto loro commodities: il grano, la soia, le banane, il cotone, il cacao, le uve. Parola d’ordine: produrre di più.

Come convincere i miei giovani a non usare violenza? Nella violenza – e con la violenza – ci battono e strabattono”.

 

Fu capopopolo, sovversivo istigatore, guidò proteste e manifestazioni contro la legge, “è iniquo ubbidire a leggi inique”. Fu condannato per interruzione di servizio pubblico per aver protestato occupando i binari della stazione di Asti con i suoi contadini. Usò la popolarità sua e di altri: con Ornella Muti manifestò per il diritto allo zuccheraggio che la legge italiana non prevede. Combatté fino al momento della sua morte per le Denominazioni comunali, il chilometro zero, il prezzo sorgente sulla bottiglia. Combatté per la libertà di pensiero tanto che, come editore, fu condannato e processato per pornografia per aver pubblicato il libello del marchese De Sade "Storie storielle e raccontini"; libro che fu l’ultimo nella storia italiana condannato al rogo.

Nel cortile della Questura di Varese la sentenza venne eseguita, all'alba, come il rito comanda. Era il 1961.

 

Con la TV divenne popolare, ma non rinunciò al suo modo di comportarsi, sia nel vestire camicie a quadri di flanella di sapore contadino e cardigan di Missoni, suo fraterno amico, sia nell'esprimersi rimanendo fedele alla sua maniacale precisione linguistica, per cui necessitò di neologismi, visto che il mondo che stava esplorando era spaventosamente vergine. Parole come nerbo, stoffa larga, zerga beva, diventano patrimonio di chiunque voglia scrivere di vino, ma anche termini generali: problematico compagno, detto del vino, o vino da meditazione, o vino dialettico, usato per un passito in continua evoluzione. Veronelli fu anche un inventore della lingua, come capita ai migliori che devono far capire qualcosa di più di quello che descrivono, come Gianni Brera, di cui fu amico e avversario nelle partite a scopone scientifico, e che amava il barbaresco giovane. Amò il gusto della parola.

 

Ave Ninchi, Luigi Veronelli

 

Di lui Guido Ceronetti ha scritto: “Voglio fare a Veronelli, l’enologo, una sfrenata propaganda... perché tutto nelle sue pagine è squisitamente, anormalmente aristocratico. La scelta, lo stile, le descrizioni, i consigli, le classificazioni, le denominazioni, il prezzo stabilito all’assaggio: tutto è separazione dal volgare, tutto è orgoglioso ritiro. I vini, come la poesia, non si lasciano democratizzare. Ecco perché sono introvabili… Chi sa se mai gusteremo i vini evocati dal flauto incantatore di Veronelli. Tuttavia, il suo invito a cercarli, che si sporge da questo Gotha enologico, è altamente morale”.

Forse questo suo essere elitario spiega come la cultura possa essere popolare e alta contemporaneamente, proprio perché è una cultura materiale, che si fa sia con le parole che con fatti, con i gesti pratici: cultura per cambiare, non solo per conoscere. Coltura e cultura, in fondo, sono parole che sia assomigliano e la coltura prevede di dissodare a fondo la terra.

Amava la scrittura, ma la usò in modo pratico, per cambiare le cose. Nulla in lui si fermava alla compiacenza del suo operato. Interveniva. Fu giudice molto parziale. “Io sto dalla parte dei miei contadini”. Giudicava i vini con criteri suoi, a volte discutibili, “amo il Barbacarlo perché Lino Maga da solo ha difeso il suo nome”, a volte ingenuamente provocatori, “è perfetto perché Adriana è una donna bellissima”, arrivando a delle affermazioni apodittiche “il peggior vino contadino è migliore del migliore vino d'industria”.

 

Mi si permetta di narrare un aneddoto personale. Eravamo a pranzo a casa sua. Si assaggiavano vari vini e ci si scambiavano le varie opinioni. A un certo punto mi capita una bottiglia contenente un vino fortemente difettoso, dal tappo, alla puzzetta di marcescenze in atto. Vedo con stupore che Veronelli continua ad annusare quel vino e non oso interromperlo. Attendo fino a quando esplodo: “Ma non ti rendi conto che è imbevibile?”. Mai avevo osato tanto. E lui di rimando, con calma: “Vedi Nichi, lo so che ha molti difetti, e gravi, ma non ti accorgi di quanto grande avrebbe potuto essere questo vino se il vignaiolo fosse stato capace di farlo?” Telefonò al vignaiolo in questione, si accordò per una visita in Calabria, nella sua vigna, e da quel giorno prese vita il mantonico, forse la più importante riscoperta di un vecchio vitigno storico dell’Italia meridionale. Rimasi impietrito dalla capacità del suo palato e del suo naso di cogliere valori potenziali e non componenti in atto, e di basare su questa visionaria e parziale, individuale, capacità, le sue scelte immediatamente future.

Perché Veronelli è diverso dagli altri che si occupano di vino. Ribadisco, perché lui non si è occupato solo di vino, ha posto il vino dentro ad uno schema di valori molto più ampio e si è fatto capire da tutti, sopratutto dai contadini stessi.

 

Di un antico, ottocentesco, passito di Brachetto, in una giornata bianca di neve in quel di Strevi, scrisse: “Col suo bicchiere ci ho fatto l’amore: colore giallo ambra di intatta e lucida vivacità, fiato dolce in cui l’aroma moscato si allarga ad ogni istante in una quieta, superba, armonica eleganza, carica di straordinarie suggestioni (miele di acacia, albicocca, salvia sclarea, frisia, frutta cotta); bocca turgida, capace – in quella sua totale dolce acquiescenza e nel porgersi con sensuale autorevolezza – anche di mordere. Non ho sentito solo gli angeli passare, non li ho distinti solo: mi sono fatto – il vino è un valore reale che ti regala l'irreale – angelo di Chagall. Il colore giallo ambra, il fiato dolce di miele d’acacia, d’albicocca, di salvia sclarea, di frisia, di frutta, la bocca turgida, i morsi di vita erano piume nel volo.

Bevi amico con la mia stessa ‘intelligenza’ e ti fai angelo di Chagall”.

 

Qui un'intervista di Giulia Graglia, dal documentario Il re del mosto.

 

Luigi Veronelli - camminare la terra.

Mostra su Luigi Veronelli, prodotta dalla Triennale e dal Comitato decennale.

Triennale Milano, 21 gennaio - 22 febbraio 2015

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