Snowden, il rapporto di minoranza

24 Aprile 2015

C’è una sfida alla base di Citizenfour. Non solo di natura produttiva, come è facile immaginare, ma una vera e propria sfida di tipo narrativo, che dalla narrazione si estende al senso stesso dell’intera operazione. Perché costruire – e conseguentemente lanciare – un film realizzato in presa diretta su fatti che si compiono nell’istante stesso in cui sono raccontati, con la consapevolezza, però, che quegli stessi fatti al momento della distribuzione saranno già storia vecchia o quantomeno risaputa, è un problema tutt’altro che trascurabile. Eppure il documentario di Laura Poitras che racconta la folgorante ascesa alla notorietà di Edward Snowden punta a ottenere qualcosa d’altro rispetto al sensazionalismo o all’effetto scoop.

 

 

Girato in presa diretta – e su richiesta di Snowden stesso – il documentario illustra la vicenda dell’informatico statunitense a partire dal momento in cui egli decide (con lucida scientificità) di rendere nota la bieca condotta del governo americano in materia di trattamento dei dati personali dei privati cittadini, oltre che di rivelare i controversi controlli che la National Security Agency opera sia sugli utenti della rete senza tener conto della loro privacy, sia si Paesi amici degli Usa in tutto il mondo.

 

Lo Snowden dipinto nel film, tuttavia, emerge più come un paradigma del presente che come un paladino che combatte contro gli organismi di controllo. Il lavoro della regista è impostato sulla messa a fuoco di una personalità che incarna il prototipo dell’uomo comune (anche se tutta la storia di Snowden è tutt’altro che comune) e del rapporto di quest’ultimo con gli apparati tecnologici, con le evoluzioni del web e con il mutare degli eventi legati alla geopolitica mondiale.

 

A un certo punto di Citizen Four, Snowden, appena riemerso dal lenzuolo sotto al quale si è nascosto con il portatile per digitare alcune password e parole segrete, esclama quanto fosse bello il tempo in cui navigare nel world wide web fosse non solo una possibilità di interscambio culturale globale, ma anche e soprattutto un’attestazione e un esercizio della libertà individuale traslato su scala universale. Un’annotazione che mette in risalto quanto, nell’evoluzione informatica, pochi anni rappresentino vere e proprie ere geologiche. Ed è appunto per questo che Snowden parla allo spettatore non solo attraverso ciò che dice, pensa e rivela, ma anche e soprattutto per quello che incarna e per il ruolo che riveste. Il ruolo non tanto di un simbolo ma piuttosto, per l’appunto, di simulacro del presente. Una figura profetica che ci dice del mutare rapidissimo dei tempi, delle priorità e dei comportamenti legati al mondo della rete e che rende esplicito quanto la globalizzazione, che per lungo tempo ha occupato pensieri e azioni di governi e cittadini si sia trasformata, evoluta e rimodellata a tal punto in nome della sicurezza da essere penetrata nella quotidianità di tutti senza che chi ha sempre cercato di combatterla, e continua a farlo, se ne sia del tutto reso conto.

 

Perché come Snowden dalla sua camera d’albergo hongkonghese testimonia, non è più un problema di local e global, di grande e di piccolo o di vicino e lontano, e nemmeno una questione di pubblico e privato, margine su cui è stato tracciato il confine etico dei rapporti fra individuo e società negli ultimi tre decenni. No, il problema che sta alla base del generarsi del guinzaglio della sorveglianza di cui egli è testimone e profeta, non si misura con le distanze, ma con il tempo. Il quando più che il dove. Quello che fa la differenza è la possibilità di sapere sempre in tempo reale dove e come le cose succedono, in modo da anteporre la prevenzione alla cura. Vedere e sapere significa poter ricostruire e intercettare. La guerra si combatte sulle informazioni, su quello che si conosce e che ognuno di noi accetta di condividere e diffondere, rendendosi inconsapevolmente complice e lubrificante dell’ingranaggio della macchina. Gli apparati di controllo agiscono sul dettaglio, sul particolare, sul piccolo e l’infinitamente piccolo. La minima traccia che un mondo come quello informatico, disseminato di impronte, rivela, accerta e riferisce. E allora la sfida sta nell’andare a scovare e a mappare anche il microscopico.

 

 

Come ci mostra il folgorante incipit del recente Blackhat di Michael Mann, è nei microsistemi tecnologici che si nasconde il vizio, il virus, l’elemento corrotto e dissimile, capace di causare la catastrofe. È ai codici binari nelle celle dei microprocessori dei computer, e alle informazioni che veicolano, che si aggrappano le sorti del mondo. Come tanta letteratura e cinematografia recente ha detto, non basta un cellulare per svaligiare una banca: è nello spazio infinito che separa lo 0 dall’1 che può smarrirsi ogni pretesa di governare il reale, di mapparlo e di gestirlo.

 

E allora lo stesso Snowden in quest’ottica non è certamente il male assoluto, come postula un governo Usa incapace di entrare nel merito di una questione che lo ha reso nudo agli occhi del mondo, preferendo accanirsi a guardare il dito. E non è nemmeno il Salvatore o il Messia che ci restituisce la libertà di dubitare e che ci risveglia dal torpore della nostra inconsapevolezza regalandoci il dono del dubbio, come la propaganda targata WikiLeaks intende farci credere. Assumendo, come mostrato nel film, la difesa di Snowden e lavorando perché la sua figura diventi sempre più sovrapponibile con quella di Assange. No, Snowden è di fatto quel rapporto di minoranza, quell’eccezione, quella successione viziata che nella catena informatica genera il cedimento di un sistema. È come l’interruzione di una fila di dati. E somiglia, in questo senso, all’immagine che apre il film: quella lunga serie di neon accesi sullo sfondo nero di un tunnel che la videocamera inquadra da un’auto in corsa. Sembrano luci che si accendono e si spengono senza soluzione di continuità fino a che l’uscita dalla galleria sancisce l’avvento della luce del giorno. Come se all’improvviso il mondo reale e quello virtuale, separati da un netto confine visivo, cozzassero l’uno contro l’altro e non fossero quindi così compenetrati come effettivamente sono.

 

E del resto l’inizio di Citizenfour ci ricorda l’inizio di un altro film che il pericolo del controllo lo raccontava solo come un’orribile e distopica eventualità: Alphaville (1965) di Jean-Luc Godard, tratto da 1984 di Orwell. Nell’incipit del film di Godard una luce, immersa in un sfondo nero, si accende e si spegne a ripetizione fino a che una voce fuori campo recita: «Può capitare che la realtà sia troppo complessa per la trasmissione orale. La leggenda la tramanda sotto una forma che le permette di circolare per il mondo intero». Una frase che da sola restituisce il senso anche del film della Poitras. La quale in fondo non fa che raccontare, attraverso un eccesso di realtà che, baudrillardianamente, è l’essenza stessa del Grande Fratello, quello che giornali, televisioni e media di tutto il mondo hanno già reso leggenda. E che nel suo ammantarsi di mistero, nel il finale del film, diventa un costrutto privo di corporeità che del reale lascia solo il ricordo, l’ipotesi, l’eventualità.

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