Laino Castello / Paesi e città

25 Luglio 2011

Approdare nella vecchia e disabitata Laino Castello, nell’alto Cosentino, al confine con la Lucania, significa approdare su un colle boscoso e remoto dell’antico Mercurion, importantissima e ancora poco conosciuta eparchia monastica al confine tra l’Impero bizantino e quello longobardo. Il Mercurion, tra il V e l’XI secolo dopo Cristo, fu “capitale” del monachismo meridionale, ché qui si rifugiarono, qui costruirono monasteri e biblioteche, qui curarono i malati e confortarono gli indigenti migliaia di monaci italo-greci, provenienti prima dall’Oriente iconoclasta e, in seguito, dalla Sicilia saccheggiata e sterminata dal sareceno Kalil, che nel 940 costrinse alla fuga, tra i tanti, dopo averli addirittura ridotti a mangiare carne umana, i Santi Cristofaro, Macario e Saba, che proprio nel Mercurion trovarono un luogo appartato e sicuro dove compiere in pace la propria unione mistica con Dio, senza trascurare, come sottolineava Giulio Gay nel suo fondamentale libro (da ristampare) L' Italia meridionalee l'Impero Bizantino. Dall'avvento di Basilio I alla resa di Bari ai Normanni 867-1071, l’intervento sulla natura e sul dolore degli uomini, tanto che i monaci furono sommamente amati dalla popolazione indigena. Questa del Mercurion fu terra di Santi (San Fantino il giovane, San Nicodemo da Cirò, San Zaccaria del Mercurion, San Luca di Demenna, San Macario Abatee San Nilo da Rossano), e molte agiografie non trascurarono di raccontare i miracoli che vi avvennero, come quelli di San Saba, che guarì un bambino morso da una vipera, scacciò il demonio dal corpo di un monaco, placò la furia del fiume “Sinno” e fece trovare in una grotta alcuni sacchi di grano nelle ore più dure d’una mortale carestia. Nella disabitata e fantasmatica Laino Castello, dopo secoli di rito latino – tutto cambiò, com’è noto, con l’arrivo dei normanni – la chiesa principale (saccheggiata non più da saraceni “infedeli”, ma da “tombaroli” del mercato nero dell’arte, da banditi di paese) è ancora dedicata a San Teodoro, soldato-martire dell’Armenia (o della Cilicia) che, nel IV secolo dopo Cristo, fu arso vivo per non aver sacrificato agli Dei. Ma di quella lontana “capitale” mistica, a Laino, e in tutta la Valle del Mercure, non c’è più memoria – probabilmente l’ultimo frantume di quel passato è scomparso qualche decennio fa, quando ancora qualcuno andava raccontando che il lago del Mercure fosse sprofondato nelle viscere della terra lo stesso giorno della morte di Cristo sulla croce: giorno di catastrofico terremoto. E non meno peggio degli sterminî di Kalil fu qui la sventura del terremoto – insieme alla fame, alla peste, alla frana e all’alluvione –, ché a furia di scosse e di crolli, a partire dagli anni ’50, “i lainari”, come si chiamano in dialetto, si convinsero a trasferirsi altrove, non solo nella “nuova” e un po’ anonima Laino Castello costruita ex novo a pochi chilometri di distanza, ma soprattutto nelle Americhe, in Svizzera, in Germania, nell’Alta Italia. Da “questione mistica”, perciò, anche il Mercurion, nei secoli, divenne “questione meridionale”. E, dopo lo spauracchio di Kalil, ci fu lo spauracchio del terremoto a tormentare “i lainari”. Penso a una storia tra le nate, a un piccolo nome che ho rintracciato fortunosamente in un libro intitolato Dizionario biografico degli italiani in Centroamerica: Domenicantonio De Franco, che all’età di diciassette anni, nel 1924, emigrò in Nicaragua, dove divenne il principale orefice di Managua. Solo che anche lì – a migliaia di chilometri di distanza dalla sua Laino Castello – un terremoto balordo, nel 1931, lo perseguitò e gli distrusse la sua prestigiosa attività, costringendolo a ripartire da zero. Ma a spopolare Laino Castello non furono soltanto i terremoti degli anni ’80 del XX secolo, ma soprattutto le frane, quei lenti disastri che in gergo tecnico-amministrativo vengono definiti “dissesti idrogeologici” (penso alla stessa sorte di Craco vecchia, in provincia di Matera, abitata ormai solo da qualche pastore rumeno clandestino e, ogni tanto, in specie nottetempo, da satanisti di provincia). Dopo “questione mistica” e “questione meridionale”, il Mercurion si sta trasformando in “questione turistica”, ché anche per Laino Castello – borgo di fantasmi e di vento – la parola d’ordine è “recuperare”, “rilanciare”, “ristrutturare”, affinché il paese possa diventare casa-albergo, nonché sede di attività socio-culturali, e quindi una delle tante stazione della pletorica rotta del piccolo tour culturale di massa. Troppo insostenibile, oggi, la rovina del tempo; inaccettabile il tetto sfondato, la porta divelta, il muro corroso, la trave annerita, la bottiglia impolverata; inconcepibile l’abbandono, il silenzio, il raccoglimento, l’orma della storia; improponibile una toponomastica di fantasmi, un’architettura della caduta, un’urbanizzazione della rovina, un’antiedilizia della distruzione. E infatti, a entrarci oggi, a Laino Castello – dopo aver abusivamente scavalcato una sbarra di ferro, e dopo aver percorso un lungo viale che dà sull’altissimo e maestoso “Ponte Italia” dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria –, significa trovare una parte del paese invasa di pale, picconi, sacchi di cemento, reti di ferro, betoniere, secchi di plastica, mani rosse disegnate che dicono che è “vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”. E quindi Laino Castello, oggi, è preclusa sia ai cittadini – “nessuno mai ci andrà a vivere”, mi ha detto un ragazzo della parte nuova –, sia ai cercatori di fantasmi e ai disperati contemplatori di rovine. L’unico modo per scandagliare in profondità i cunicoli segreti di questo bellissimo paese è arrampicarsi, scendere coste, aggrapparsi a muri malfermi; ma è proprio questa fatica che permette di vedere e capire cosa sempre diventa, nel futuro che ci attende – nel futuro di tutti noi –, le nostre camere da letto, le nostre cucine, le nostre soffitte, i tetti sotto i quali ci sentimmo sicuri, sotto i quali amammo, procreammo, godemmo, piangemmo, ci disperammo per problemi che il tempo avrebbe spazzato via con tutti i suoi patemi. Se davvero riusciranno a “recuperare” Laino Castello, forse non capiterà mai più quel che a me è capitato entrando nel paese: di vedere, cioè, una piccola volpe, sdraiata alla base di un’antica croce, balzare in piedi e scappare impaurita in una fitta boscaglia, ché verrebbero espropriati, con il “recupero”, non solo le volpi, ma i troppi fantasmi del passato, e i tanti animaletti che hanno trovato riparo – proprio come i monaci greci – in questo cumulo riparato e remoto di rovine. E comunque mai più capiterà che a Laino Castello vi vengano coniate le monete (come accadeva nei primi secoli dopo Cristo), o che vi vengano costruiti monasteri come quello di S. Joanes di Cucza (X secolo), di cui furono ritrovati, in contrada Santo Ianni, nel XIX secolo, resti di dipinti, armi e monete, suggellando per sempre una sorta di archeologia del rimpianto e dell’insoddisfazione. La grandezza, purtroppo, è perduta per sempre, e quel che di grande passò da qui non potrà che presentarsi ancora a lungo sotto forma di frammento, rovina, fantasticheria, filologia, storia, fantasma, suggestione, e stupore, come quello che colse l’antropologo calabrese Vito Teti allorquando decise di visitare Laino Castello e ne descrisse sinteticamente ed esattamente la storia e il degrado nel bellissimo libro Il senso dei luoghi: “Mi sembra tutto irreale, mi sento catapultato in un paese calabrese degli anni cinquanta. Non vi fossero le erbe, le piante, che ormai impediscono il passaggio, soprattutto nella zona alta dove si ergono ancora imponenti le mura del castello, si potrebbe pensare al set di un film, a un paese museo, artificio per turisti in cerca di fasulle rovine dell’antichità. Laino Castello, che come Laino Borgo porta il nome del vicino fiume Lao, è situato in cima a un colle al confine tra la Calabria e la Basilicata, in una zona dove esisteva una via di collegamento tra versante ionico e tirrenico. Anche in questo caso parliamo di luoghi popolati che si sono incartati e reimpaginati nel corso del tempo, fin dall’antichità, e di cui nella zona esistono, e ogni giorno se ne trovano di nuovi, reperti di vario genere. L’insediamento originario (V sec. D. C.) sarebbe dovuto agli abitanti di S. Primo e di Lavinium, colonia romana situata sulle foce del fiume Lao, che arretrano a seguito delle invasioni barbariche. Castrum Layni, sul colle S. Teodoro, è segnalato nella seconda metà del VII secolo, costruito dai Longobardi. Il castello viene rinforzato nel XIII secolo dagli Angioini e durante la dominazione spagnola passa sotto il controllo degli Aragonesi, quando diventa città con una serie di privilegi. Il resti del castello, visti da qui, dalle siepi che ostacolano il passaggio, sembrano sfiorare il grande ponte dell’Autostrada del sole, che passa vicina. Si sentono i Tir sfrecciare rumorosi, su quello che è, a tutt’oggi, il più alto viadotto della rete autostradale italiana. Dell’abitato restano integri, pure in mezzo a spine rampicanti e piante selvatiche, numerosi edifici e la chiesa di S. Teodoro. Il campanile si erge ancora con le sue volte e le sue decorazioni. La campana, ancora c’è, non è stata portata via. Gli scempi e le profanazioni sono avvenuti dentro. Penseresti che la chiesa sia stata invasa da un’orda di infedeli e di nemici della cristianità. Sono stati ladri e devastatori del luogo a privarla delle pietre e dei marmi. La chiesa è spoglia, priva delle statue e degli oggetti sacri. Le nicchie sono vuote, le scale divelte, qualche tavola giace sul pavimento. Il coro ligneo è stato asportato, derubato e lo stesso è successo a tanti portali dei palazzi nobili e antichi. La case hanno i tetti ancora in buono stato. Soltanto qua e là appaiono delle larghe ferite, dei crolli di tegole. […].” Così, tra banditismo tombarolo e rimpianto, tra nostalgia di epoche remote e “recuperi” da Pro-loco, finisce il mio camminamento quasi onirico nei vicoli di Laino Castello. Quando arrivai nel paese nuovo, chiesi a una signora con un collare medico dove si trovasse il paese abbandonato. E lei me lo indicò cordialmente. Ora che ci ripenso, però, quel collo immobile, quel non poter guardare né a destra né a sinistra, né voltarsi indietro, mi sembra adesso l’esatta immagine emblematica di una terra che non solo ha perso la mistica antica, e l’antico dolore, ma anche l’oscura memoria dei luoghi (la peste, l’amore, Dio, le fughe notturne dei monaci, la fame nera, l’estasi), il loro “senso”, pure quando diventano misere e stupende rovine corrose dal vento e dalla pioggia.

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