Felice Cimatti / Cose. Per una filosofia del reale
Se il mondo – come diceva Heidegger – mondeggia, la lingua linguaggia? Il nuovo libro del filosofo Felice Cimatti, Cose. Per una filosofia del reale (Bollati Boringhieri, 2018), affronta un tema caldo del pensiero contemporaneo: è possibile far parlare le cose in nome di un realismo che vorrebbe superare i limiti del postmodernismo? E la domanda sembra senza speranza se si presuppone, come Cimatti, che il linguaggio sia il marchio dell’uomo mentre le “cose sono mute”.
Per affrontare questo interrogativo, Cimatti ripercorre un sentiero che da Heidegger giunge a Lacan passando per le recenti ontologie orientate all’oggetto. Nelle sue pagine si passa con disinvoltura dall’intreccio mortale tra essere ed ente ai tanti viventi e non viventi che si fanno carico di problemi metafisici quando non metà-fisici: dalla scatola di sardine di Lacan all’aringa di Heidegger, dall’albero di Cezanne alla lumaca di Ponge, dall’ape di Heidegger alla rana schiacciata di Mathias, dall’atomo di Carbonio di Levi alla vita da cani dei cinici, dal castagno di Artaud al pesce di Robbe-Grillet. Le cose saranno mute, ma sono spesso più illuminanti di tanti filosofi.
Anche se il libro non è riassumibile in una serie di tesi atomiche, è possibile definire alcuni punti chiave che l’autore dipinge usando una tavolozza di concetti sostanzialmente kantiani: il linguaggio riveste un ruolo non dissimile dalle idee trascendentali. Uomo e reale sono entità distinte in un rapporto difficile se non impossibile. L’uomo cerca di catturare il mondo con varie strategie, soprattutto con il linguaggio, ma questo è uno sforzo invariabilmente destinato all’insuccesso visto che il mondo, a differenza dell’abisso, non risponde, è proprio muto!
Un bersaglio condivisibile è l’ontologia orientata all’oggetto nella declinazione offerta dai sostenitori del realismo speculativo – Bryant, Harman, Brassier e altri – che vorrebbero recuperare la cosa noumenica un attimo prima che il linguaggio ne faccia scempio. Si tratta di un realismo più ingenuo che speculativo, a dire il vero; paradossalmente basato sul conflitto tra le cose e un livello soggettivo che noi potremmo, come il rivestimento dell’arancia, sbucciare per rivelare ciò che si nasconde. Qui non si può che essere d’accordo con le obiezioni di Cimatti: queste ontologie sono veramente ingenue. Presuppongono, senza accorgersene, l’esistenza di quel soggetto che vorrebbero sottrarre al mondo per restare con il fantomatico oggetto oggettivo! L’oggetto assoluto, senza il linguaggio, è come la velocità senza un sistema di riferimento: non è una realtà irraggiungibile, ma un errore concettuale. Poco male, è un bersaglio fin troppo facile che viene colpito e affondato nelle prime pagine.
Il bersaglio vero è il rapporto tra uomo e mondo che, come nella vicenda di Tristano e Isotta, viene da Cimatti eternamente rimandato, condannato a non consumarsi mai completamente. È un po’ come quando si cercano di guardare le stelle di notte, se si guardano direttamente perdono di brillantezza perché la fovea è povera di bastoncelli, se si guardano di lato perdono di definizione perché la periferia della retina è a bassa risoluzione. Per quanto ci si sforzi, non c’è modo di guardare una stella con soddisfazione! Secondo questa prospettiva, senza il linguaggio non si può conoscere nulla, con il linguaggio si è prigionieri delle parole e dei ritagli che la lingua, come le formine dei biscotti, fa con la pasta informe del mondo.
Secondo l’autore, le cose non parlano e l’uomo sì. L’uomo ha il linguaggio (forse è il linguaggio) e quindi non è riducibile alle cose, che invece esistono proprio in quanto, grazie a quella macchina “cosificatrice” che è la lingua, sono strappate dal reale, indistinto e inumano. L’uomo vivrebbe così in un mondo ritagliato dalle parole che sono al tempo stesso la cifra e la condanna dell’umano. È difficile non intravedere in queste parole, un antropocentrismo irriducibile che vede nel linguaggio l’analogo delle forme della conoscenza di Kant, uno strumento a doppio taglio che separa quello che vorrebbe unire. Secondo questa visione, il linguaggio trasforma il mondo in oggetti come re Mida che trasformava in oro – pregiato ma indigesto – tutto quello che toccava.
È quasi come se l’autore, nonostante il suo amore per gli animali, nutrisse una mancanza di fiducia nei confronti della natura. La natura non conterrebbe il linguaggio a meno che, come in certa arte contemporanea (Ponge), il linguaggio non sospenda di “linguaggiare”, ovvero diventi cosa sostanzialmente non linguistica. Laddove Galileo poneva il suo fossato tra le quantità e le qualità, Cimatti lo pone tra cose che non parlano (e che non possono essere fatte parlare da alcuna metafisica) e l’uomo che, appunto, è una cosa che parla. Ma questa mancanza di fiducia nella natura è una posizione di principio.
Per Heidegger e per Cimatti, “l’uomo è quel vivente che trasforma l’essere in ente”. Ma questa tesi presuppone un dualismo di partenza, un’insanabile e compiaciuto antropocentrismo. Perché pensare che l’esercizio del linguaggio sia espressione di una unicità dell’uomo invece che, più umilmente, concludere che se l’essere si trasforma in ente, ciò sia espressione della struttura della natura? Se l’uomo respira, mangia e si riproduce, sarebbe arrogante supporre che siano suoi tratti speciali. Al contrario è più economico pensare che la natura abbia in sé la capacità di ossidare, metabolizzare e moltiplicare e che l’uomo ne sia solo una felice (?) espressione. E se il linguaggio – e la conseguente trasformazione dell’essere in ente – non fossero altro che lo spontaneo (e non antropomorfo) articolarsi della natura? D’altronde Cimatti stesso lo propone: “mineralizziamo la psiche”.
Risolte alcuni conti in sospeso, il libro affronta un percorso più impervio per riscattare le cose dal loro silenzio, ma muovendosi sempre nell’ambito di alcuni punti di riferimento: il rapporto tra corpo e persona, la separazione tra io e mondo, e l’esistenza di una cosa assoluta. Questi tre punti, che Cimatti condivide con molti dei suoi autori di riferimento, meritano qualche riflessione ulteriore. Spesso, in filosofia, l’inghippo è nelle caselle di partenza, più che nel percorso successivo; circostanza che dovrebbe sempre far diffidare dai maestri e giganti del passato.
Proviamo a giocare con questi assi cartesiani del pensiero filosofico e provare a guardare il mondo alla rovescia: in questo modo, alle volte, si vede qualcosa che altrimenti sarebbe rimasto invisibile! E se, contro ogni senso comune, non fossimo un’animale che parla e vede, ma fossimo piuttosto la cosa che è vista e di cui si parla? Come ricordava Sherlock Holmes, una volta che si sono scartate tutte le ipotesi che non funzionano, ciò che rimane, per quanto strano, deve essere la soluzione.
In questo gioco che propongo di fare, non siamo corpo, siamo mondo, e la natura non esiste in modo assoluto. Proviamo a vedere che succede. Per Cimatti, dire di sé “io” è come dire di sé, “io non sono mondo”. Ma questo è, ancora una volta, un esito del fatto di identificarsi con il nostro corpo, ovvero dell’idea di essere – se si è nel mondo – corpo. Quasi come se non ci fossero dubbi che il nostro punto di entrata nel mondo sia il corpo, e solo da esso noi ci potessimo irradiare nel mondo. Da questa premessa, sempre accettata ma mai dimostrata, ne sono seguiti una serie di misteri inspiegabili che, finora, nemmeno le neuroscienze sono riusciti a dipanare: come può il corpo vedere, se il corpo è cosa? Come può il cervello sentire, se il cervello è cosa fra cose? E la soluzione (non ovvia) richiede di mettere in discussione la premessa e cioè nel prendere in esame la possibilità che il corpo non sia “io”; che sorprendentemente il corpo sia, tra tutte le cose, quella che meno si adatta a essere me.
Quando Cimatti pensa a che cosa è l’uomo, pensa a un animale che parla. Ma in questo modo, essendo l’animale soprattutto un corpo, rimane il mistero della relazione tra corpo, linguaggio e mondo; un enigma che non va accettato come limite, ma piuttosto risolto partendo da premesse diverse. E così riprendiamo il gioco appena proposto: cambiamo le premesse. In fondo, chissà, potremmo non essere corpo, non essere un animale che parla. Forse siamo un’altra cosa: il mondo stesso. Se così fosse, gordianamente, taglieremmo gran parte dei nodi che, con infinita pazienza, Cimatti come una nuova Penelope, a volte dipana e a volte ritesse. Non dovremmo più raggiungere il mondo attraverso il linguaggio, impresa tragicamente votata al fallimento perché saremmo già mondo. Non saremmo una cosa che vede, ma saremmo la cosa che è vista.
Non siamo un corpo che “dice, di sé, di essere un io”. Confondere il corpo con la persona è la fallacia mereologica segnalata dai filosofi americani Bennett e Hacker. Infatti, il corpo non dice nulla. Il corpo emette suoni. L’idea che il corpo parli è assurda come l’idea che lo faccia un telefono cellulare. Il cellulare non parla, emette solamente suoni: è la persona che ha parlato. Ma se la persona – l’io, il noi – non è corpo che cosa è? È la cosa stessa. Sherlock Holmes sarebbe contento…
In natura tutto è manifesto, tutto è dato. La natura non si nasconde. È caratterizzata da una “superficialità senza alcuna corrispondente profondità, senza essenza, senza interiorità, senza segreto”. Pensare che l’uomo sia nascosto nelle pieghe della natura invece che sulla superficie, come un sasso, è sospetto. Perché l’uomo dovrebbe fare eccezione? In Kant, l’uomo non è uno dei personaggi che ballonzolano sullo schermo fenomenico, ma è nascosto dietro la macchina da proiezione. Certo, finora il posto che l’uomo occupa all’interno della natura non si è ancora trovato, ma non perché non vi abbia posto (ovviamente), ma piuttosto perché lo si è cercato dove non è (nel corpo) invece di dove potrebbe essere (la cosa stessa).
Consideriamo un esempio di Lacan, citato da Cimatti: l’arcobaleno. Contrariamente a quanto crede il filosofo francese, l’arcobaleno non è affatto un “puro sembiante” che “nessuno, nemmeno tra i più primitivi, credeva che fosse qualcosa che stava là, dritto e ricurvo”. Sorprendentemente, l’arco colorato è proprio là, dove lo vediamo, fisicamente presente, tanto quanto una mela – come una qualsiasi macchina fotografica può testimoniare. I primitivi avrebbero fatto meglio a dare maggior fiducia in quello che vedevano. Ogni tanto questa mania di far violenza ai sensi è un po’ fuorviante … A differenza di una vera illusione ottica, l’arcobaleno è fotografabile. Ovviamente, è un oggetto relativo (ma non soggettivo). Ha una precisa collocazione fisica che dipende dalla posizione del corpo dell’osservatore – sia esso macchina fotografica, gatto o Homo Sapiens. Spesso si fa confusione, si intuisce che l’arcobaleno dipende da qualcosa e poiché lo vediamo, si tende a dire che dipende da NOI. Ma l’arco colorato non dipende da NOI, bensì dal nostro corpo. Che non è NOI, ma è la condizione perché NOI esistiamo.
L’arcobaleno rivela la natura intrinsecamente relativa delle cose, a prescindere dall’uomo. Il relativo dell’arcobaleno non è il soggettivo di Kant e nemmeno l’ente di Heidegger. L’arcobaleno si stacca dal resto del reale, diventa individuo in atto, senza ricorrere al battesimo linguistico dell’uomo. L’arcobaleno si determina senza l’“arcobaleno”. Cimatti parla spesso della natura in assenza del linguaggio come se fosse un flusso indistinto, un processo whiteheadiano. Ma attribuire al linguaggio questo ruolo ontologico è una forma di antropocentrismo: sancisce una discontinuità che non ha ragione d’essere. Consideriamo invece una ipotesi radicale: quello che chiamiamo linguaggio potrebbe essere solo un dialetto di una lingua più ampia che è il reale.
L’arcobaleno permette di completare il gioco che ci eravamo proposti, ribaltando i presupposti di partenza – io, corpo e cosa – rivelando la natura relativa e non soggettiva del mondo, anzi del reale. Invece di supporre un mondo fatto di oggetti assoluti e quindi non irraggiungibili, possiamo pensare a un mondo fatto di oggetti relativi e quindi intrinsecamente prospettici, ma non relativamente agli uomini, che sono quello che cerchiamo, ma relativamente ai corpi degli uomini, che sono cose tra cose. Questo realismo relativo non si dissolve in un arbitrario soggettivismo, ma si articola in una natura intrinsecamente prospettica. Si può così aggirare il realismo speculativo (ma ingenuo) che era il primo bersaglio di Cimatti e puntare a un nuovo modo di vedere le cose: le cose siamo noi.
Il testo di Cimatti è affascinante. Come in una partita di dama, a ogni capitolo si scontrano due nemici, i bianchi dell’uomo contro i neri del reale. A volte gli avversari prendono nomi diversi: essere contro ente, vivente contro non vivente, parlante contro non parlante, io contro mondo, persona contro cosa. Ma, a differenza della dama, l’impressione è che i neri stiano sulle caselle nere e i bianchi su quelle bianche in modo che, alla fine non si incontrano mai. L’arcobaleno ridiscute la scacchiera su cui si gioca questa partita infinita. Non siamo separati dalle cose: siamo le cose. Il nostro punto di entrata nel mondo non è il corpo, ma il mondo stesso. Il corpo è la condizione di esistenza. La svolta non è allungarsi per raggiungere la cosa, ma riconoscere di essere sempre stati questa cosa. La cosa è noi, e il corpo è altro. Avere confuso dentro e fuori, ha creato quella partita strana dove i pezzi bianchi e quelli neri non si sono mai incontrati.
A volte si può fare come i marinai di Ulisse, rendersi sordi per non sentire – e quindi non subire – il fascino irresistibile delle sirene che dalla storia del pensiero vorrebbero attirarci verso scogli fatali (e fin troppo noti). Meglio procedere con sicurezza verso un orizzonte nuovo, ancorché ignoto. Come Cimatti ci ricorda, il protagonista della Nausea di Sartre, Antoine Roquentin, si propone di superare il rapporto intenzionale con la cosa, e di arrivare alla cosa stessa, al suo esistere. Vedere non è essere una cosa che entra in relazione con un’altra secondo la modalità della visione; vedere è essere quella cosa che esiste relativamente al nostro corpo (e non relativamente a noi). Con buona pace di Heidegger e Cimatti, forse l’uomo non è affatto colui che dice di se “io non sono mondo”, forse l’uomo è mondo.