Teatro delle Albe / Fedeli d’amore
“Non lo vedete Amore? Ma come non lo vedete?”
Ermanna Montanari racconta in Miniature campianesi, libro autobiografico d’infanzia e di età matura, di un sogno ricorrente che l’ha accompagnata per anni: un sontuoso cancello, due ante enormi di ferro battuto disegnate con ornamenti in forma di fiori, pennacchi a fulmine e un grosso chiavistello. Nel sogno non vi è nebbia: un forte vento, un urlo che attraversa il suo corpo di bambina, il vestito bagnato, la voce che non esce. Un urlo inghiottito. Dall’altra parte dell’aia l’ombra di un animale pauroso. Il cancello, racconta, è inciampo: Campiano.
Qui, è invece la nebbia: Ravenna.
È la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. La tomba, il Sommo Poeta esule, profugo, sul letto di morte vinto dalla malaria, un reticolo di luci imprigiona e nasconde i corpi in scena.
Fedeli d’Amore, polittico in sette quadri per Dante Alighieri – ideazione e regia di Marco Martinelli e Ermanna Montanari – parla una lingua che non può essere decifrata: le musiche di Luigi Ceccherelli, melodia e rumore assordante; le ombre di Anusc Castiglioni. Il bellissimo testo è di Marco Martinelli: dentro e fuori Dante; dentro e fuori il suo testo, la sua mente confusa, la sua parola e le parole di chi popola i suoi ricordi.
Sette quadri: la scena si fa selva oscura e poi muro e inferno infuocato e volti degli angeli di Giotto.
Di chi sono le voci che muovono Ermanna Montanari? Un demone la invade: parzialmente nascosta dietro a un leggio, vestita di nero, occupa magistralmente lo spazio di scena in una danza che raccoglie parole antiche che abitano quel corpo di un linguaggio prima del linguaggio; gesti che aprono, raccontano, rimescolano l’aria tra il dentro e il fuori. La bambina che davanti al cancello immaginato resta senza voce, la bambina che chiede che un vero cancello venga costruito là dove lei lo ha visto in sogno, si popola delle voci degli altri e delle voci delle cose, si muove come districandosi da una rete metallica di luci e ombre, di suoni e materia. Appare e poi scompare, diventa fantasma e poi bisbiglio.
Sullo sfondo, in dialogo con i gesti e le tante voci, Simone Marzocchi con la sua tromba. Visibile appena, come dietro un’ulteriore cortina: illuminati i suoi occhi, poi l’ottone dello strumento, poi il suono.
Primo quadro. La nebbia sospende, tutto fluttua e tremola nell’aria. È la nebbia che parla: da dove e a chi? È della nebbia il duro dialetto romagnolo? È sua la paura, il buio? La nebbia contagia chi ascolta della stessa febbre che spacca la testa del poeta. I tredici canti del Paradiso nascosti nel muro della stanza: l’Illustre biascica, delira. La nebbia sfida la furia dell’intelligenza; il significato arriva dopo, soltanto quando il corpo – il corpo di noi in ascolto – ha smesso di stare scomodo sulla sedia, di muoversi, di rispondere alla voce di Ermanna Montanari che dapprima sibila, e poi, quadro dopo quadro, irride, inveisce, si fa dura roccia e appello d’amore, portando un fiume sotterraneo, riottoso ed erratico, che precede la comprensione.
L’invettiva è all’Italia, all’accumulare, al prendere, al contare: “dividere dividere dividere” fino a che non resta più niente. Nella forma del grido prima, del dileggio poi, il demone guarda i mercanti, i servi del capitale e del potere, le pratiche quotidiane dimentiche di ogni umana compassione che non fanno altro che armare e armarsi, che si azzuffano, che prendono, che chiedono, che sottraggono.
Nel terzo quadro Ermanna presta il suo corpo al raglio dell’animale totemico del Teatro delle Albe. L’asino è lo stolto, il cretino, è la dotta ignoranza che conosce il limite del sapere e della presunzione di sapere. È l’asino che porta la croce, vittima sacrificale che prende su di sé il peso del mondo, il dolore che, del mondo, ne rivela i segreti. Un mondo dove tutto è croce: basta che gli uomini allarghino le braccia, o che gli uccelli si aprano in volo.
Sono le parole della figlia del poeta, Antonia, a provare a diradare la nebbia. Come se, sussurrando, fosse possibile indicare una strada, ricordare al padre di Guido Cavalcanti, di quei Fedeli d’Amore, di quel dire nascosto che risuonava di verso in verso come un messaggio esoterico.
Ce n’è un’altra, di bambina, sulla scena: “vestita di nobilissimo colore umile e onesto”. È Beatrice. Dante la ricorda.
Ha inizio tutto così: due bambini che si guardano lungo la via.
Il Sommo poeta, al nono anno d’età, incontra l’incendio del cuore, e, quando in punto di morte interroga tutto il suo scrivere, il senso del suo dire, quando nuovamente la selva lo inghiotte e l’orgoglio per il sacro poema non può bastare, è quella bambina a tornargli in soccorso: “non sentite che siete fatti da Amore?”.
Fedeli d’amore appare come tappa di un lavoro che il Teatro delle Albe ha cominciato l’anno scorso con la prima delle tre cantiche, Inferno, che proseguirà nel 2019 con il Purgatorio - prima a Matera e poi a Ravenna -, e si concluderà nel 2021 con la messa in vita dell’intera Commedia. Questo lungo studio, la cui fatica Ermanna Montanari racconta in un testo, Alchimia, che accompagna lo spettacolo, tocca qualcosa che riguarda in maniera radicale il lavoro e la poetica degli Albe: il Sommo e il molto piccolo si toccano; la Summa dell’aquinate non è che paglia, odore di stalla e di mucca di Campiano.
Si gioca, in questa ricerca, un’autorizzazione al parlar d’amore e a fare d’amore il primo motore immobile di ogni discorso. Credo non ci sia messaggio politico più urgente di questo, oggi, e che non possa che essere veicolato superando quel mero dire che è già un dividere e un separare: siamo mossi, e implicati, dalla musica, dalle ombre, dal corpo invaso di Ermanna Montanari e dalle domande che divorano e sprofondano il cranio del poeta e che Marco Martinelli rende, con le sue parole, come vermi e come luce.