Speciale

Un verso, la poesia su doppiozero / Friedrich Hölderlin. Chi pensa il più profondo, ama il più vivo

30 Maggio 2019

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

Il verso di Friedrich Hölderlin  (Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste), che sopra riporto nella traduzione di Giorgio Vigolo, in un’altra traduzione, per dir così più esplicativa, quella proposta da Luigi Reitani nel “Meridiano” dedicato al grande poeta tedesco, suona così: “Chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo”. Il verso appartiene alla poesia che ha il titolo Sokrates und Alkibiades (Socrate e Alcibiade), una breve composizione di due strofe che è tra le più note e tradotte di Hölderlin (c’è anche una traduzione-imitazione di Giacomo Noventa, nel suo veneziano singolarissimo, che aderisce al testo nella prima strofe e reinventa con leggerezza sorridente il resto). 

Il verso di Hölderlin ha la compiutezza aforismatica di un pensiero che intende raccogliere in una sola frase un cammino di teoresi e di meditazione; un verso, insomma, che somiglia ai “detti” della filosofia antica, ai “veridica dicta”, come li definiva Lucrezio. Il verso, che apre la seconda strofe, si pone come risposta alla domanda consegnata alla prima strofe. Ecco il testo della poesia nella traduzione di Vigolo, seguito dall’originale: 

 

“Perché stai sempre adorando, Socrate santo, 

questo giovane? Nulla sai di più grande, 

che con occhio d’amore 

come gli dei lo contempli?”.

Chi pensa il più profondo ama il più vivo,

sublime gioventù intende, chi ha guardato nel mondo,

e finiscono i savi sovente

con inclinare al Bello. 

 

“Warum huldigest du, heiliger Sokrates,

diesem Jünglinge stets? Kennest du Grössers nicht?

Warum siehet mit Liebe,

wie auf Götter, dein Aug’ auf ihn?”

 

Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste,

hohe Jugend versteht, wer in die Welt geblickt,

und es neigen die Weisen

oft am Ende zu Schönem sich.

 

Socrate e Alcibiade: le due immagini, il maestro e il discepolo, rinviano ai dialoghi platonici – in particolare al Simposio e all’Alcibiade – e alla questione posta da Socrate sul rapporto tra sapienza e amore, una questione che il poeta qui disloca subito sul piano di una relazione forte tra due elementi: tra il pensiero che si sospinge fino all’estremo, fino al suo stesso confine – e per questo fa esperienza del “più profondo” (das Tiefste) – e l’amore del vivente, laddove questo manifesta la sua essenza, mostrandosi nel punto più alto (das Lebendigste), e cioè rivelandosi nella forma della bellezza. Il pensiero più profondo – di “profunda profunditas” parlerà Agostino – è proprio della sapienza, l’elemento più vivo è proprio della bellezza.

 

Illustrazione di Cressida Campbell.

 

Pensare il più profondo, amare il più vivo: ritmo che unisce conoscenza e amore. Diastole e sistole di un battito che fa del pensare una lingua del desiderio e dell’amore un pensiero del vivente. Un’unità – o tensione verso un’unità – che tende a bruciare ogni opposizione tra il sapere e l’amore, tra la conoscenza e la bellezza. Il pensiero, nella sua essenza, è amore della bellezza. Un poeta come Hölderlin, che nella poesia porta, inquietamente e luminosamente, tutta la propria formazione filosofica, mostra, con la cura del verso, della sua forma, del suo suono, come vera sapienza sia fare esperienza della bellezza attraverso l’amore del vivente, del tutto vivente. La Natura è figura prossima, visibile, del tutto vivente. E la Natura è infatti la madre dalla quale il poeta ha appreso la lingua della propria arte: die Mütterarzrtlichkeit (si veda la lirica intitolata Die Stille). Questa consapevolezza è propria del poeta romantico: Keats dice che dal ruggito del leone (the Lion’s roaring) e dal grido della tigre (the Tiger’s yell) il poeta apprende la sua lingua. È un modo per dire della materna pedagogia messa in campo dalla Natura nei confronti del poeta.

 

 

Nel Simposio, quando Socrate prende la parola, dopo gli elogi di Eros via via fatti dai discepoli, e racconta di non sapere dell’amore se non quello che gli ha detto un giorno la donna di Mantinea, Diotima, a un certo punto, come osservazione al margine delle considerazioni sulla natura di Eros, dice della equivalenza tra Eros e Poiesis: come Poiesis, cioè la creazione, è movimento che dal vuoto, dall’assenza, fa che le cose siano, così anche Eros, in quanto desiderio, è movimento che dalla mancanza va verso la presenza. Dal vuoto al visibile, dalla privazione alla forma: un movimento che nel suo divenire resta sempre aperto. Nella poesia di Hölderlin l’amore è allo stesso tempo amore della sapienza – il pensare profondo – e amore del vivente. La poesia è la lingua che accoglie questo incontro tra amore della sapienza e amore del vivente. 

C’è come un cerchio che nell’Europa della Romantik mette in relazione diverse culture letterarie, diversi poeti, con questa idea forte del vivente: Keats, Novalis, Hölderlin, Leopardi, ed altri. L’onda di questa poesia intesa come ascolto e amore del vivente giunge fino a Rilke. Una singolare corrispondenza: nella traduzione che Rilke fa dell’Infinito leopardiano c’è una particolare attenzione, di natura direi teoretica, proprio ai riferimenti al vivente. Le parole leopardiane “… e la presente / e viva, e il suon di lei”, / Rilke in qualche modo le rafforza, traducendo “und diese/ daseiende Zeit, die lebendige, tönende”. Una traduzione interpretativa (una traduzione “glossematica”, avrebbe detto Contini), che approfondisce anche sonoramente da una parte il limite del visibile, del qui e ora, del questo, dall’altra la presenza appunto del vivente, il suo risuonare. 

Hölderlin, Leopardi, Rilke: poeti che con la loro poesia hanno detto dell’essenza stessa della poesia. 

 

Torniamo al verso di Hölderlin. La domanda rivolta a Socrate dice di uno sguardo che è contemplazione – la memoria del verso di Saffo tradotto da Catullo con Ille mihi par esse deo videtur è dichiarata – ma proprio questo sguardo si rivelerà subito come la figura di una contemplazione che ha radice nel pensiero profondo, dunque nella sapienza, e si manifesta come percezione, da parte di tutti i sensi, della bellezza. Questo sguardo sulla bellezza – che è insieme forma del vivente e manifestazione del sacro – si accompagna per il poeta tedesco alla ricerca di un’armonia, al senso di una grande quiete per la relazione con questa armonia. Nell’Iperione c’è un passaggio bellissimo che racconta di questa ricerca: 

 

O felice natura! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutte le gioie del cielo sono nelle lacrime che io verso per la tua bellezza, come l’amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano (trad. di G. V. Amoretti). 

 

La lirica di Hölderlin è in tutte le sue stazioni interrogazione della Natura: della sua presenza, del suo stormire, delle sue voci, dei suoi silenzi. E questo accade nella meditazione poetica intorno al pensiero rammemorante: Mnemosyne, l’An-denken raccolto e dispiegato più volte nell’ermeneutica di Heidegger. Accade nel grande tema del ritorno dopo la peregrinazione, nel tema della notte che è vuota attesa del dio, solitudine per la sua assenza. 

E tuttavia il rapporto con la bellezza e la ricerca di armonia con la Natura che i versi del poeta accolgono e descrivono ha in sé l’ombra del tragico. Perché è lontananza dal principio, dalla perfezione, dal sacro, che si manifesta solo in quanto perduto. La prossimità al vivente di cui fa esperienza la poesia nel respiro stesso del suo suono, nelle sue immagini, ha in sé questo tremore: mentre sperimenta la tensione verso il vivente, avverte anche la fragilità e inanità di questo suo vedere e sentire. La fragilità della stessa lingua. 

Anche se non diamo, oggi, a questa mancanza il nome del sacro, conosciamo quanto sia diventata profonda la lontananza dal vivente, dal tutto vivente. Il profilarsi di un tempo in cui si estende il dominio dell’artificiale, del virtuale, del robotico, mette in questione la relazione corporea – “sensibile e immaginosa”, direbbe Leopardi – con il vivente, con la Natura vivente. La poesia appare inappropriata, estranea, a questo tempo. Ma sempre la poesia è stata in esilio dal proprio tempo. 

 

Un verso:

Ugo Foscolo. Né più mai toccherò le sacre sponde

Dante. L'amor che move il sole e le altre stelle

Giacomo Leopardi. Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi

Charles Baudelaire. Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva

Francesco Petrarca. Erano i capei d'oro a l'aura sparsi

Eugenio Montale. Spesso il male di vivere ho incontrato

Stéphane Mallarmé. La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri

John Keats. Una cosa bella è una gioia per sempre

Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest'albero mutilato

Antonio Machado. Viandante, non c'è cammino

Giovanni Pascoli. Come l'aratro in mezzo alla maggese

Torquato Tasso. O belle a gli occhi miei tende latine!

Paul Celan. Laudato tu sia, Nessuno

Mario Luzi. Vola alta, parola, cresci in profondità

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