Un libro di Stefano Chiodi / Genius loci. Anatomia di un mito italiano

1 Luglio 2021

Nell’ormai celebre conferenza promossa dal Nexus Institute nel 2004, incentrata sul problema dell’esistenza e persistenza di un’idea e/o identità europea, George Steiner inizia il suo discorso (poi tradotto e pubblicato in italiano nel 2006 con il titolo Una certa idea di Europa) indicando la memoria, o meglio, la sua eccedenza, come primo tratto distintivo del Vecchio Continente. Un’autorappresentazione come lieu de la mémoire in cui l’uomo «colto si trova intrappolato», schiacciato sotto il peso di un passato soffocante che funge contemporaneamente e incessantemente da memento mori. «Troppo di tutto, in questo sterminato luogo comune», scrive Luigi Ghirri in Niente di antico sotto il sole, riferendosi a quell’eccesso di memoria che satura i luoghi nostrani e ottunde lo sguardo. Da una analoga premessa prende pure avvio Genius loci. Anatomia di un mito italiano di Stefano Chiodi (recentemente pubblicato da Quodlibet), dove lo studioso analizza le vicende della spuria e plurale identità italiana che si avviluppa attorno al concetto di genius loci a partire dall’omonima mostra curata da Achille Bonito Oliva nel 1980 e al suo intrecciarsi con i temi e problemi posti dalla Transavanguardia. È questo il periodo cruciale – sottolinea Chiodi – in cui appare nel panorama internazionale il termine postmodernismo che sancisce la fine delle grandi narrazioni, la fine dell’imperativo di quel nuovo-a-tutti-i-costi che aveva permeato il modernismo e il “mito” della sua originalità, la fine dell’idea di una storia lineare e che, contemporaneamente, vede l’incalzante affermazione del tardocapitalismo. 

 

In questo momento di passaggio dai contorni incerti, se da una parte la costruzione di un’identità specifica, di un punto di “ancoraggio” e radicamento locale, sembra resistere alla dissoluzione delle differenze operate dalla violenza omologante della cultura globale, dall’altra, l’insistenza sul recupero delle radici rischia di precipitare in un “manierismo cinico” dove – come scrive Germano Celant nel catalogo della mostra Identité italienne (1981), in aperta polemica con Bonito Oliva – «les accents d’un patriotisme nationaliste masqué par les valeurs d’une autonomie folklorique» o, ancora, come afferma Denis Viva nel suo Genius loci e le Biennali postmoderne, questo atteggiamento rischia di trasformarsi in «una formula accomodante di narrazione del sé, della propria cultura, che si conforma alle aspettative di altre culture, non tanto a causa di una subordinazione, quanto per dischiudere […] nuovi mercati». È a questo punto che lo sguardo pluriversale di Stefano Chiodi, con un guizzo laterale che allarga e infittisce la trama che si articola attorno al concetto di genius loci, collega il termine subordinazione all’«atteggiamento ben più diffuso, strutturale dice, che ha a che fare con la relazione che le culture “colonizzate” o minoritarie […] sviluppano in relazione a quelle egemoniche»: ossia, riportando al “caso italiano” quel che Edward Said afferma nell’ambito degli studi postcoloniali, il costruirsi della narrazione identitaria italiana «in relazione dialettica con uno ”sguardo dal di fuori” che l’ha definita e insieme espropriata dalla propria irriducibile differenza».

 

Achille Bonito Oliva, catalogo della mostra "Genius Loci", 1980

Achille Bonito Oliva, catalogo della mostra "Genius Loci", 1980


Una sorta di “adesione preventiva” e inconscia a tutti quei cliché culturali consumati e consumabili che hanno la forma paralizzante del truismo e la fanno apparire «immune dalle trasformazioni storiche, nel bene e nel male eternamente identica a se stessa», producendo così il paradosso di una diversificazione che genera uguaglianza. Eppure, se questo atteggiamento mimetico può apparire, «come sostiene Celant, una forma di indulgenza nei confronti di uno stantio “giardino di casa” che maschera la rassegnazione di fronte alla subalternità della situazione italiana», è proprio nella nozione di subalternità che possiamo forse trovare un’altra chiave di lettura – proveniente, ancora una volta, dagli studi postcoloniali – nel fondamentale saggio di Gayatri Chakravorty Spivak, Can the Subaltern Speak? (1983), dove la studiosa vede nella condizione subalterna un’impossibilità di parola derivante dall’intrinseca e costitutiva inconsapevolezza del subalterno della propria condizione.

 

E poiché, al contrario, gli artisti della Transavanguardia “parlano” e lo fanno in modo autoconsapevole e autoriflessivo, quella presunta “ragion cinica” e adesione “furbesca” allo stereotipo come readymade infarcito dalla logica di consumo tardocapitalista, «può essere riletta a rovescio» – scrive Chiodi riprendendo quanto già affermato in La discordanza inclusa – «come una forma di depistaggio, come una fantasmagoria la cui funzione primaria era schermare una percezione dell’insufficienza della propria lingua», dell’intrinseca ambiguità e inattualità «di ogni mitologia nazional-identitaria» a cui risulta ormai impossibile «contenere un’eterogeneità […] stabilmente insediatasi». Una “difesa mimetica” volta a schermare (termini in cui si sente pure l’eco della lettura lacaniana di Andy Warhol elaborata da Hal Foster in Il ritorno del reale) e allo stesso tempo a indicare un vuoto che li porta a collocarsi contemporaneamente “dentro” e “ai bordi” di questa assenza. E dunque, bisogna «leggere oggi il genius loci in un senso più storicamente produttivo, come sintomo di qualcosa che la nozione stessa non dice, o meglio che non riesce a dire: il suo inconscio politico in altre parole».

 

Quel che la nozione di genius loci dice senza dire è «un bisogno di identità in quanto tale» e, poiché nell’epoca post-storica non esiste più un fuori ma è già tutto dentro (“discordanza inclusa”!), e poiché questo dentro è abitato da un vuoto inabitabile, allora, per continuare a resistere dall’interno senza precipitare nel vuoto, bisogna compiere uno spostamento laterale e abitare i margini, nel punto di massima tensione. Vivere nel conflitto, nella discordanza, recuperare la dimensione dialettica della Storia – perché «l’unica possibilità di salvaguardare il passato è metterlo in tensione con il presente» – e andare alla ricerca di quelli che Chiodi definisce, riprendendo le tesi di Il pensiero debole di Gianni Vattimo, i «potenziali rimasti inesplorati o […] marginali in un progetto moderno incompiuto per definizione». Allora la risposta a quello «sterminato luogo comune» di Ghirri è quella di sondare gli spazi interstiziali, riattivare quelle “zone di insensibilità”, da dentro, con occhio straniato e straniante perché «è più produttivo cercare proprio nella tensione permanente, nello straniamento», così come «pare assai produttivo osservare oggi l’Italia […] nella prospettiva di un terzo spazio» (scrive riferendosi al Thirdspace di Edward Soia) che sia “reale-e-immaginario”. 

 

E se alla «vecchia domanda su cosa ci sia di “italiano” nell’arte fatta in Italia» l’autore risponde che «è possibile in definitiva fornire oggi solo una risposta in negativo» e in absentia, all’altrettanto vecchia domanda leninista sul Che fare?, Stefano Chiodi sembra rispondere assumendo in sé quello stesso sguardo straniante, plurale, vivificante che produce (come quel “più produttivo” che ritorna come un refrain nascosto nelle maglie del testo) nuovi spazi di senso, di pensiero “reale-e-immaginario” e, abitando il conflitto, dischiude nuove, inedite possibilità.

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