Parole per il futuro / Normalessere

7 Marzo 2022

Uno, due, tre, quattro: fino a trenta, fino a cinquanta. E daccapo. Quando sta male Alice conta. Le palline di vetro del lampadario sospeso sopra il suo letto, le scanalature dell’armadio, le piastrelle del bagno e, una volta fuori casa, le persone sull’autobus e quelle in fila per il pane. Ripetere mentalmente la serie dei numeri ha l’effetto di un calmante: è un compito da eseguire quando dobbiamo far riposare la testa. Che così si sente più libera di pensare ad altro. A lei non era mai capitato, il cambio della sua postura era fluido, leggeva in solitudine, socializzava quando era in compagnia, adesso c’è qualcosa che non funziona, il meccanismo di autoregolazione sembra inceppato. In casa non si concentra e soffre di claustrofobia, quando esce non ci trova più gusto, le sembra che al mondo non ci sia più nulla da mordere. Il fuori è uno scenario di cartapesta. 

Alice non soffre di un disturbo alimentare, ma continua a parlare di vuoti e pieni, di sensazioni che evocano stati di smaterializzazione. Non è nemmeno esile, eppure convive con il timore di una dissoluzione progressiva: riuscirà a trovare la forza per rimanere in piedi? Inadeguati, inconsistenti, persuasi di essere sempre insufficienti, Alice è la rappresentante di una folla tormentata dal senso di mancanza che emana dal prefisso in.

 

Non c’è un sintomo “afferrabile”: c’è uno stato di insoddisfazione astenica che resiste alla trasformazione. Quando in Inibizione, sintomo, angoscia Freud parla della mancanza di un sintomo afferma che: “Per concludere, delle inibizioni si può dire che sono limitazioni di funzioni dell’Io che avvengono o per motivi prudenziali o in seguito a impoverimenti di energia”. 

Mi chiedo se per avvicinare l’universo di Alice possa essere utile l’idea di René Girard di un’escalation mimetica, nell’alternarsi di anoressia e bulimia, in una società dove la magrezza arriva a toccare la dimensione delle forme artistiche e dall’opera letteraria scompare gradualmente il mondo esterno. Oppure il concetto di sosialismo di Achille Bonito Oliva: “essere sosia di un modello (…) che tende a essere dominato dal senso della scomparsa, dell’assottigliamento” (in Non sparate sulle installazioni, Robinson del 14/8/21). 

 

Marco vuole solo dormire, è questo il desiderio che rende problematico il rapporto con la compagna, nel suo ufficio si fa a gara a chi fa più tardi e resiste di più. Come faccio a licenziarmi adesso, quando ho finalmente un lavoro con un contratto a tempo indeterminato? Chi si vaccina deve lavorare lo stesso, nemmeno il vaccino permette un giorno di sospensione dalla catena di montaggio, in tanti nascondono la positività per non perdere soldi – se cambio lavoro guadagno qualche giorno di vita, mi dice Franco. Mi ha già raccontato più volte l’episodio del camionista che ha ucciso un operaio forzando il posto di blocco per fare prima.

Lo smart working, lo dice la parola stessa, non ha punti fermi, non distingue tra giorno e notte, tempo feriale e tempo festivo. Mi chiedo che nome dare a questo succedersi di ore che destabilizza il ritmo circadiano e sgretola quello collettivo, mentre siamo tutti sussunti dall’avanzare dell’orologio a cui stiamo attaccati come Charlie Chaplin alla macchina automatica in Tempi moderni (1936!).

 

Insonnia, risvegli notturni, attacchi di panico la domenica sera, crisi matrimoniali e familiari, mi pare di distribuire parole banalmente assennate quasi sperando possano fare l’effetto di pillole: sempre più spesso arrivo a consigliare ansiolitici blandi mentre mi pare di stare in un reparto di malati di lavoro. La mansione non fa la differenza: l’avvocatessa o il ristoratore, l’informatico o la giornalista, l’insegnante o l’impiegato al call center: il lavoro è diverso, lo stress è lo stesso. E segue una curva esponenziale. 

 

 

Mi ritrovo a fare il coach, alleno e mi alleno a incontrare una sofferenza sociale dispersa negli infiniti rivoli del soggetto singolo che, anche quando è psicologicamente e politicamente consapevole, si sente smarrito. Tornano compagni d’analisi che ho salutato anni fa: hanno cambiato lavoro, lo stipendio e la funzione sono più alti, l’ansia è cresciuta in conseguenza. In certi giorni il mio cellulare è un centralino, voci note, voci ancora sconosciute, la domanda è sempre la stessa: che cosa posso fare, non riesco più a lavorare. 

 

Pensando al metodo di ricerca di Oliver Sacks, mi chiedo se, radunando tutti insieme i malati di lavoro, non diventerebbe possibile individuare le costanti e le invarianti, gli aspetti individuali e le sensibilità diverse, anche costituzionali. Un’idea un po’ ingenua, certo, ma pur avendo setacciato testi classici e recenti di carattere psicoanalitico, il mal di lavoro contemporaneo chiede di essere affrontato con modalità nuove. Questo struggersi quotidiano in esistenze che vivono schiavitù moderne, giuridicamente libere ma incompatibili con una vita di relazioni, di curiosità, di frequentazioni e letture. Non si può suggerire a tutti il licenziamento o la fuga dalla città, anche se il lavoratore italiano copia l’americano Big Quit. Da aprile a giugno 2021 le dimissioni volontarie (500 mila, 290mila uomini e 190mila donne) hanno avuto un’impennata, il 37% in più rispetto a tre mesi prima. Ma il confronto con il medesimo trimestre del 2020 rivela un incremento del 85%. 

 

Quando, nel 1978, le psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes hanno coniato il termine di fenomeno dell’impostore pensavano soprattutto alle donne di successo che, con lo zelo del neofita, facevano e rifacevano, rivedevano e correggevano, infinitamente si preparavano a ogni nuova performance mai convinte di “meritare” le conquiste raggiunte. Studi successivi in ambito accademico hanno rilevato che anche gli studenti con i risultati più alti, ma delle classi più basse, erano spesso perseguitati dalla stessa sindrome. Oggi il timore di essere smascherati in pubblico, di scoprire di essere fake riguarda tutti. Da qui la ricerca di una perfezione che diventa ossessione: le liste con i compiti della giornata, un tentativo di ordine nel caos dell’esistenza che, per eccesso di elenchi, può finire con un falò come nei racconti di A.M. Homes. 

La pandemia ha crivellato il disagio nella civiltà, interrompendo la continuità, ha eroso le abitudini e gli stili di vita. Nemmeno gli psicologi più ortodossi parlano più di patologia, è la collettività che pare regredita a un disturbo pervasivo dello sviluppo nella difficoltà di interazione e comunicazione, interessi e attività. Tutte le età sono incluse – tra le voci rappresentative del paniere quest’anno l’Istat ha aggiunto la psicoterapia individuale.

 

Il fuori casa, la scuola e il posto di lavoro non sono più né luoghi né non luoghi, ma siti dove la socialità a rischio trasmette la sensazione di essere ancora più isolati. E la famiglia italiana, considerata tradizionalmente dai sociologi un cuscinetto capace di assorbire le crisi, non può rappresentare il sostituto del mondo, come mostra lo sconforto adolescenziale. 

Mi chiama la mia amica Miriam, che ha perso il padre da poco, mi chiama Giovanni, un conoscente, ha appena scoperto di essere malato, mi chiamano Daniela e Lorenzo, desiderano un figlio, ma temono la trasmissione di un pezzettino di lui e di lei, eredità genetiche, storie familiari traumatiche. Non è la mia professione, che si immagina pronta all’ascolto, non è la mia indole tesa a socializzare, non è nemmeno la mia età che avanza, è che la solitudine è diventata un’emergenza sociale. Una solitudine inedita e fitta. “Con lei tutto è più vero”, dice la solissima neomamma Alba Rohrwacher alla vicina Margherita Buy che assiste al primo bagnetto di sua figlia in una scena dei Tre piani (2021) di Nanni Moretti. Gli ultimi sondaggi indicano come priorità la cura di sé al 64%, l’equilibrio tra vita e lavoro 63%, la ricerca di un partner è al 24%.

 

Dove cercare quell’io capace di sobbarcarsi i pesi di un’esistenza, scegliere un orientamento, dare un senso alla sofferenza. Forse nel diario intimo di Emmanuel Carrère che in Yoga (trad. di Lorenza di Lella, Francesca Scala, Adelphi, 2021) racconta la sua lotta per “Continuare a non morire”. Un sé istrionico, di maschio occidentale, scrittore, lettore, giornalista, che cerca nella meditazione la sua preghiera laica, nella sessualità la sua trascendenza. E incontra “quell’altrove che non esiste” sedendosi ogni giorno davanti alla gabbia che racchiude gli imputati del processo Bataclan, il processo del secolo (in italiano a puntate su Robinson).  

Forse quell’io può perdersi e ritrovarsi anche nelle pagine di Daniel Mendelsohn. Scrittore, professore, viaggiatore, alla ricerca delle tracce lasciate dai suoi antenati scomparsi nell’olocausto, eterosessuale, omosessuale, padre e figlio. 

 

“Uno straniero arriva in una città sconosciuta dopo un lungo viaggio. Da qualche tempo è stato separato dalla sua famiglia; da qualche parte c’è una moglie, forse un figlio. Il percorso è stato travagliato, e lo straniero è stanco. Si ferma davanti all’edificio che diventerà la sua casa (…) Si muove con difficoltà, le spalle ingobbite dal peso delle valigie. Lì dentro c’è tutto ciò che ancora possiede. Ha dovuto fare i bagagli di fretta. Che cosa contengono? Perché è venuto?”.  

Inizia così Tre anelli. Una storia di esilio, di narrazione e destino (trad. di Norman Gobetti, Einaudi 2021), un racconto che ha la forma di un puzzle, insegue le sue figure a cavallo dei secoli, cerca connessioni nelle storie del passato con la speranza, chissà, che indichino una via per il futuro. Prova a tenere insieme le nostre esistenze post-novecentesche minate da un ostinato senso di colpa. Perché quell’uomo che va e rimane, che divaga e si distrae, quell’uomo siamo noi. 

L’uomo che cammina, di Giacometti, sempre in compagnia del suo normalessere.

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