Esiste un’educazione al bere? / In vino veritas

18 Maggio 2018

Tra le trasformazioni silenziose che avvengono nella pancia delle nostre città, il chupito e la sua diffusione come bevanda delle notti giovani ad alto tasso alcolico, è stata minimale quanto recente, veloce quanto strisciante, velenosa quanto indecente...

Anche un solo euro per un bicchierino di superalcolico aromatizzato da tracannare d’un fiato. Cinque euro – valore infimo a disposizione del fine settimana di ogni adolescente – e l’ubriacatura, se cercata, è assicurata. I venditori? Nei vicoli della movida genovese, commercianti poco in regola, extracomunitari o meno con licenza indefinita. Possibile che in altre città il mercato sia simile, ma comunque anche per i maggiorenni, anche per locali perfettamente in regola, il chupito è diventato rapidamente un nuovo possibile consumo. Senza la dolcezza del suono latino, rende di più nel suo equivalente anglofono – shot – vale a dire colpo, tiro...sì un tiro diritto al cervello. Elementi che appartengono di fatto ai consumi e al panorama dello sballo facile, forse il più facile, e, inutile girarci intorno, a un uso molto simile a quello delle droghe. Un tiro diritto al cervello come una tirata di cocaina, come una pillola di anfetamina.

 

E come se non bastasse, l’alcol etilico è stato classificato dall’O.M.S/Iarc tra le sostanze cancerogene del gruppo 1 ovvero, per intenderci, in compagnia dell’amianto o degli idrocarburi aromatici presenti nel fumo di sigaretta.

Quanto poi questa informazione sia sostanzialmente “silenziosa” nella nostra cultura e nella nostra società, è elemento su cui varrebbe la pena di riflettere.

 

È evidente che per i consumi alcolici sia anche una questione di educazione...forse soprattutto di educazione anche se non istituzionalizzata, forma che, chi molto giovane, a malapena tollera o che almeno in parte rifiuta, annusando appunto il ruolo di una “istituzione” che impone il suo punto di vista. In realtà, si tratterebbe di quella educazione profonda che è poi quella alla vita, lunga complessa, contraddittoria, quasi sempre non riducibile a sole raccomandazioni e a divieti. Quella educazione che si impara per prove ed errori nel corso dell’esistenza, ma che avrebbe sempre bisogno di guide affettuose come di esempi autorevoli.

 

E viene allora in mente un piccolo geniale volume di George Steiner – Una certa idea di Europa. Garzanti 2006 – in cui lo scrittore racchiude l’idea di Europa dentro il recinto di alcuni, per certi versi sorprendenti, elementi comuni, al di fuori di ogni lingua e di ogni confine. Quei fattori sono per Steiner i “paesaggi” che si possono percorrere a piedi, le strade a cui si dà il nome di luoghi o di persone, la presenza di una cultura figlia di Atene come di Gerusalemme (la razionalità greca e la religiosità giudaico-cristiana), il senso della storia e con esso l’idea di una fine, e non ultimo la presenza di caffè come spazi comuni in cui esercitare la condivisione e la convivenza.

Forse quest’ultima, nella sua semplicità, è l’idea più folgorante e inaspettata. Il caffè a segnare gli invisibili confini di uno spazio di umanità nel quale tutti – giovani e vecchi, uomini e donne – ci si incontra, si discute, ci si scambia parole e attenzioni. Niente a che vedere, ad esempio, con i bar americani o i pub britannici, locali per altri scopi e altre bevande...

 

Oggi al caffè ci si va per il caffè innanzitutto, per il cappuccino, per il tè, ecc...a certe ore per il vino, anzi per i vini. Si va al caffè per bevande da condivisione e convivenza, debolmente alcoliche o meno. Ma se la diffusione delle bevande nervine avviene in Europa a partire dal Seicento (e con esse la possibilità di un intrattenimento e di una condivisione “non alcolica”), prima i locali antenati dei caffè erano le taverne, le osterie, locali in cui comunque quella condivisione avveniva soprattutto davanti a un bicchiere di vino. 

Dunque c’è stato soprattutto il vino nella storia delle bevande conviviali, almeno da noi e in tutto il Mediterraneo. Inevitabile allora che, in un’educazione alimentare al bere “consapevole” rivolta ai giovani, il vino dovrebbe avere un posto a sé che ne marcasse le differenze, non fosse altro per il suo valore simbolico, per tutto il peso della sua storia, per l’evidente importanza nella nostra società.

 

 

Impresa non facile, se risalire al valore storico e simbolico del vino per le giovani generazioni può essere l’equivalente di “acqua fresca”, ovvero un’informazione compresa a stento con i lobi frontali...ma “rimbalzata via” senza incidere sui comportamenti.

Il fascino della tradizione del resto non è cosa da giovani... quel fascino lo si impara nel tempo, da adulti o poco prima, quando svaniscono le illusioni e l’onnipotenza adolescenziale, quando si comprende il valore del tempo, quando si capisce che siamo “fatti di tempo”... 

Sostanzialmente per lo stesso motivo, far riflettere che il vino è componente dell’alimentazione mediterranea e “da sempre” bevanda usuale nei pasti potrebbe non aver miglior fortuna.

Forse varrebbe la pena di insistere su alcuni aspetti scientifici, come la presenza di resveratrolo o altre sostanze polifenoliche nel vino – in particolare quello rosso – sostanze dall’azione antiossidante e/o antinfiammatorie e quindi preventive verso diverse patologie della società del benessere. A patto, tuttavia, di non soffermarsi troppo sulle dosi assunte di tali “benefici”, perché nel vino sono sempre inferiori rispetto al tenore di alcool.

 

Già... non è facile fare educazione alimentare sul vino, in particolare per le giovani generazioni.

Ma certo varrebbe sempre la pena evidenziare per i ragazzi il valore della poesia e in particolare una, Ubriacatevi di Charles Baudelaire: “...Per non essere schiavi martirizzati dal Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare”. Perché l’accento qui è sulla scoperta dell’ebbrezza come stato d’animo e per lo stato di grazia e meraviglia che ne deriva, non necessariamente per l’effetto di una sostanza farmacologica.

O ancora semplicemente può essere importante riflettere sulle abitudini che come tali accettiamo passivamente senza dargli peso, anche quando lo avrebbero eccome! Come quando a un amico o a un incontro proponiamo “beviamo qualcosa insieme?” A differenza del mangiare, il bere insieme è infatti sempre una condivisione speciale, è un condividere per il piacere di farlo e mai per necessità...

 

Quale verità dunque può esserci per un’educazione al bere consapevole? In particolare per un’educazione consapevole al bere vino? 

In vino veritas... ma se deve esserci una verità per un’educazione possibile, allora per il vino questa probabilmente ha a che fare con quella educazione profonda che è quella della vita...una conoscenza per prove ed errori, lunga, complessa, contraddittoria, non riducibile a raccomandazioni e a divieti, o a solo uno o due, tre elementi di quella stessa conoscenza.

Avvicinarsi al vino consapevoli della sua storia, del suo legame con l’agricoltura, della sua importanza economica, del suo ruolo nella cultura, nell’alimentazione e nella convivialità, nella celebrazione degli affetti e delle feste, nel benessere come nello stato di salute, nelle contraddizioni e negli eccessi...

Una consapevolezza complessa e articolata che si acquisisce solo con il tempo e in cui non c’è un’unica risposta... una complessità che è parte della sua storia e del suo interesse. Era quello che credo facesse scrivere a Mario Soldati:

“Qui è il fascino del vino: nella sua vitalità irrazionale e sempre mutevole, non troppo diversa da quella di un organismo umano”.

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