Le sfide del presente / Marco Revelli: Umano Inumano Postumano
«Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach o Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz». Le parole di George Steiner, contenute nella prefazione di Linguaggio e silenzio, descrivono – secondo Marco Revelli – l’inizio della discesa irrefrenabile verso l’abisso più oscuro o, in alternativa, l’angosciante e ultimo imporsi di quelle brutali ombre che, da sempre celate nella sua natura, contribuiscono a definire l’essere umano. Auschwitz è letteralmente il “venir dopo”, il punto di non ritorno, in quanto «luogo in cui la vicenda del pensiero occidentale ha subito la propria catastrofica lacerazione con l’irruzione massificata del disumano nell’umano» (p. 15).
Tale irruzione comporta la totale identificazione del disumano con l’essenza specifica dell’umano: il disumano, cioè, fa sue le caratteristiche tipiche dell’umanesimo cristiano, della cultura rinascimentale e del razionalismo classico, i quali avrebbero dovuto proteggere – in linea teorica – l’Humanitas proprio contro i tentativi di irruzione del disumano, dandoci l’impressione di avere a che fare con un nemico proveniente dall’esterno, non presente dentro di noi. Auschwitz testimonia, invece, in maniera impietosa come il dis-umano sia letteralmente “in-umano”, vale a dire inscritto nell’umano come sua parte costitutiva. Quindi, un inumano che, lungi dall’identificarsi con il mal di vivere o con l’estraneità della natura all’umano, coincide, secondo le parole di Carlo Galli, con il «presentarsi attuale della possibilità che l’uomo sia nulla per l’altro uomo, ossia che l’uomo consideri nulla l’altro uomo» (p. 17). Il considerare l’altro come un nulla o come una cosa ha la sua perversa origine nello stesso concetto positivo di Humanitas, così come si è sviluppato nel corso dei secoli.
Questo è il nucleo teorico a partire dal quale Marco Revelli elabora i contenuti del suo ultimo libro intitolato Umano Inumano Postumano. Le sfide del presente (Einaudi, 2020). Un agile, erudito ed elegante volume di centotrenta pagine che certifica – con una cristallina mestizia che solo nelle pagine finali assume il tenue colore della speranza – il superamento definitivo di una doppia soglia: quella che separa l’umano dall’inumano (appunto, oltrepassata da Auschwitz) e quella che divide l’umano e il postumano, messa in discussione dalle evoluzioni tecnologiche e digitali in corso. L’irrimediabile infrazione della linea posta tra l’umano e l’inumano, nel rivelare un vizio d’origine nell’Humanitas stessa, ha – secondo Revelli – molteplici traduzioni nei fatti quotidiani del mondo odierno. Per esempio, si traduce nell’assoluta normalità con cui il cittadino italiano della porta accanto, dopo essere stato premuroso nei confronti del proprio nipotino, va su Facebook o su Twitter per festeggiare pubblicamente l’ennesimo naufragio dei migranti nel Mediterraneo, augurando ai pesci un lauto pranzo. O, ancora, nei comportamenti e nelle scelte adottate tanto dai singoli quanto dalla collettività una volta che ha avuto inizio la pandemia da Covid-19. «è stato sufficiente – scrive Revelli – che un’entità biologia ‘non umana’ – un virus, appunto – entrasse nello spazio cellulare dell’uomo e vi si insediasse, perché l’intera sovrastruttura valoriale e normativa che ha fondato e retto la nostra vita sociale e che costituisce il portato sistemico del nostro umanesimo si azzerasse» (p. 8).
La philantropia come “comunanza consapevole”, la quale definisce di fatto l’Humanitas, pare mostrare i suoi limiti intrinseci – secondo l’opinione dell’autore – quando in una situazione d’emergenza sanitaria, come quella che stiamo vivendo, viene stabilito nello spazio pubblico con assoluta lucidità di gestire lo squilibrio tra le innumerevoli necessità dell’immediato e le scarse risorse disponibili mediante il ricorso al «potere ordinatorio della razionalità calcolante» (p. 77). Pertanto, si fissano specifici parametri (l’età anagrafica, le condizioni pregresse di salute, ecc.) per determinare una priorità di cura. Ancora, la philantropia viene meno quando si antepone l’immunitas alla communitas, rendendo un dovere civico la distanza fisica tra gli individui; quando si propende a favorire i luoghi di produzione economica (le fabbriche) ponendo in secondo piano quelli di diffusione culturale (le librerie); quando – infine – si fa aderire il concetto di indispensabilità al tipo di attività lavorativa svolta (pensiamo alla polemica sorta a proposito delle parole del governatore della Regione Liguria sugli anziani non indispensabili). Il filo rosso che collega tutti questi comportamenti, secondo Revelli, è l’attuale carattere obsoleto del concetto di persona, a cui le politiche neoliberali antepongono quello di individuo, imprigionato nella sua solitudine sociale e segnato dall’epoca delle passioni tristi. There is no such thing as society. There are individual men and women, diceva d’altronde Margaret Thatcher.
Se Auschwitz ha comportato il superamento della soglia che divide l’umano dall’inumano, facendoci oggi patire le conseguenze menzionate, vi è un altro sfondamento parallelo descritto dall’autore: lo sfondamento della soglia che divide l’umano dal postumano. Le innovazioni tecnologiche del mondo contemporaneo hanno definitivamente certificato la bontà e la plausibilità del titolo dell’opera più nota di Günther Anders: l’uomo è antiquato. Il disconoscimento di un confine tangibile tra l’essere umano e le macchine, il quale ha il suo esito ultimo nel concetto di cyborg, porta l’uomo ad essere, contemporaneamente, creatore e creatura: da una parte, occupa il posto di Dio divenendo fabbricatore di esseri umani e, dall’altra, riscopre sé stesso come simile agli oggetti e ai manufatti che produce (pp. 92-93). Riecheggiano implicitamente nel testo di Revelli le note parole di Anders, là dove sostiene che libere sono diventate le cose; pertanto, l’uomo, rendendosi conto di essere manchevole di libertà a causa del carattere antiquato del proprio corpo biologico, sogna di essere riprodotto in serie allo stesso identico modo di una pesca sciroppata in scatola. A dire il vero, Revelli non replica in toto il pessimismo andersiano: da un lato, critica l’«enfatica autocelebrazione superomistica del potenziamento che le nuove frontiere della scienza e della tecnica attribuiscono al dominio umano sul mondo» (pp. 95-96), il cui principale esito sono le ingenue teorie transumaniste che trattano l’essere umano come una cosa.
Ma, dall’altro, evidenzia come le incredibili innovazioni tecnologiche, che rendono gli uomini e le macchine sempre più indistinguibili, ci offrono l’opportunità di un soprassalto di coscienza: non siamo, cioè, i padroni del mondo ma siamo parti del mondo. Ecco, pertanto, la positività di un postumano che sottolinea la non autosufficienza dell’umano nel mondo e che riscopre il rispetto nei confronti degli altri esseri viventi non umani. Proprio questo tipo di postumano può rappresentare il punto di svolta per una rinnovata Humanitas anti-antropocentrica, votata all’ibridazione, «connettiva e ricombinante, aperta e plurale come ibrida» (p. 128). Sembra, in definitiva, che la cura per quel germe disumano, progressivamente cresciuto all’interno dei capisaldi concettuali dell’umanesimo moderno, si possa trovare dentro la dimensione postumana, nutrita nel corso dell’ultimo secolo dalle enormi innovazioni della tecnologia e della robotica, le quali paiono porci dinanzi agli errori dei nostri comportamenti e, dunque, offrirci una diversa chiave di lettura del nostro modo di essere umani.
Tirando le somme, la parte dedicata al rapporto umano/postumano è senza dubbio quella più interessante dal punto di vista teorico. Quella invece dedicata al rapporto tra umano/inumano/disumano se, da un lato, porta alla luce impietosamente le disgrazie che caratterizzano in modo evidente il pensare e l’agire dell’essere umano nello spazio pubblico contemporaneo, dall’altra interpreta troppo frettolosamente alcuni comportamenti che si sono sviluppati durante la pandemia da Covid-19. Per esempio, il documento Siaarti necessiterebbe di un’interpretazione più variegata, la quale dovrebbe tener conto di tutti i fattori pratici e culturali ora in gioco: per esempio, l’essere costretti a prendere celermente una decisione durante un’emergenza, la scarsa riflessione sul ruolo della morte nella vita a causa della decennale rimozione sociale e culturale del fine vita dal discorso pubblico, il tipo di valore più quantitativo che qualitativo che attribuiamo generalmente al concetto di vita e alla sua durata. Aspetti culturali e sociali che rendono ancor più complicata la possibilità di stabilire in modo oggettivo il carattere positivo o negativo di scelte prese per tutelare il benessere dei cittadini nel corso di un periodo emergenziale in cui ogni minuto perso può accrescere la catastrofe che, già di per sé, stiamo vivendo.
Marco Revelli, Umano Inumano Postumano. Le sfide del presente, (Einaudi 2020).