«Zan zafaràn momón» / Il lato oscuro di Nane Oca

7 Febbraio 2019

Come già «Cisbicchio» e altre espressioni che vengono dal Pavano Antico di Giuliano Scabia, anche «Zan zafaràn momón» entrerà nel gergo domestico dei molti fan di Nane Oca e, ne siamo certi, farà concorrenza ad Abracadabra. Quando la lingua di un libro si fa anche lingua parlata dai suoi lettori è un segno di vitalità, cioè di grandezza. La formula magica che consente a Nane di spostarsi con rapidità supersonica e di togliersi d’impaccio di fronte ai casi rischiosi dell’ultimo viaggio iniziatico, risuona di frequente nel quarto romanzo della saga, dal titolo Il lato oscuro di Nane Oca, giunta (ahinoi!) al suo epilogo. Il lettore infatti non troverà in fine di volume le appendici consuete che confortavano sul possibile seguito delle storie. Tant’è che il Canzoniere ricamato di notte da Rosalinda per il suo Puliero, in gentile risposta al Fioreto delle Foreste sorelle, questa volta è collocato al mezzo del libro. D’altronde, come dice Maria la Bella in coda alle vicende, suo figlio Giovanni è «diventato grande». Tuttavia, il lettore speranzoso potrebbe pur sempre appigliarsi alla battuta di Celeste lo sposo quando, nella pagina finale, dà il via all’improvvisato trio musicale «anche in vista di nuove avventure». 

 

Or ora approdate in libreria per i consueti tipi di Einaudi e con un’inevitabile quanto insolita copertina nera, queste ultime peripezie dello specialissimo protagonista scritte, come sempre, con il contributo del matto autore e lette a filò dal floricultore Guido il Puliero alla piccola comunità dei Ronchi Palù, affrontano di petto la questione più volte emersa nelle discussioni e nei commenti a latere dell’ascolto delle precedenti «cantiche»: l’origine del male e la sua dialettica con il bene. Un tema che si declina in presenza di William Blake (sulla rilevanza del visionario inglese nella riflessione di Scabia basti il poemetto Albero stella di poeti rari. Quattro voli con il poeta Blake), e che qui trova il suo acme nell’impagabile incontro di Nane Oca con la Tigre del Bengala recitante la poesia della tigre («Tyger! Tyger! burning bright…», da lei tradotta). Un incontro che – come nei Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza – trova il suo doppio nel successivo dialogo con l’agnello sacrificale. Non è un caso se in questo viaggio Nane si imbatte anche nel diavolo e nell’angelo protagonisti dell’azione itinerante della commedia del 1979 (il testo si trova pubblicato in Il Diavolo e il suo Angelo preceduto dalla Lettera a Dorothea e seguito da un racconto fotografico di Sebastiana Papa e da un saggio di Ferdinando Taviani, La casa Usher, Firenze 1982).

 

Legati da una corda a significare l’indissolubilità di bene e male, anticipano la conclusione di Nane-Blake: «Com’è bello, attraente, il male. Si camuffa da bene, inganna, stravolge la mente. Ma anche lui alla fine aiuta il bene perché ne mostra la necessità» (p. 201). 

Dopo esser venuto a capo, con l’aiuto di tutti i personaggi, del giallo dell’assassinio di Bianca Birón e trovato il momón (Nane Oca, 1992), aver ritrovato la volante Suor Gabriella misteriosamente scomparsa e bevuto l’elisir di lunga vita dalla bottiglia diatreta (Foreste sorelle, 2005), aver attraversato le Foreste sorelle (finalmente stampate e lette), ridato vita al cavallo Saetta, sciolto il mistero dell’andare in oca e ricevuto dal professor Pandòlo la rivelazione del significato della parola che lega tutte le altre (Nane Oca rivelato, 2009), Nane Oca deve affrontare la prova più ardua: quella del suo «lato oscuro», che lo costringe a uscire dal Pavano Antico. Tra le molte soglie che il lettore è invitato a varcare per entrare nei mondi concentrici narrati da Scabia (i Ronchi Palù, il Magico Mondo, le Foreste Sorelle), questa volta il passaggio, il limine è in uscita, verso ciò che sta fuori, tutto intorno a questo microcosmo di vite e di storie straordinarie circondato dalla Pavante Foresta. 

 

Disegno di Giuliano Scabia per la copertina di Nane Oca rivelato, terzo e ultimo romanzo della trilogia di Nane Oca.


L’idea, geniale di per sé, che sia giunto il momento di indagare il lato oscuro di Nane Oca viene suggerita dal Pesce Cavo, uno dei tanti mitici animali del Pavano, a «io l’autore» che decide così di richiamare in scena, con arte rabdomantica, tutti i personaggi nominati poi uno a uno nel finale in un elenco epico, rabelaisiano e pantagruelico. Ma, forse per questo, la costruzione del racconto avanza fra perplessità e dubbi circa la sua riuscita. Dubbi e perplessità condivisi anche da Guido il Puliero, cui è delegata, nella finzione, l’elaborazione della scrittura. Da qui le reiterate richieste di conforto e d’aiuto al gruppo di affezionati ascoltatori. 

In vero, Nane Oca non ha lato oscuro, viene dal «magico mondo», il male non è in lui originario, lo può assorbire ma è esogeno: entrato nel mondo della cronaca, Nane viene infatti «punturato» da una banda di criminali, e quello che va ad esplorare, più che il suo, è il lato oscuro dell’umanità, oltre che dell’universo, come ci mostra il secondo movimento dell’Intermezzo, la gustosa Commedia della fine del mondo con protagonisti i Dinosauri. È dunque un male esterno che lo contagia, ne può subire fascinazione, ma mai soccombervi, vuole infatti trovarne l’antidoto che solo il «re del mondo» conosce. 

Anche nel Pavano Antico c’è il male, ma è contenuto e combattuto dall’unione, dalla coesione del gruppo sociale, che si è consolidata con l’ascolto delle storie raccontate da Guido, perché il racconto affratella, salva. Come dice Orfeo al Conte Chiarastella e a Nane: «La poesia non è nata con la puzza sotto il naso come si ritiene nelle accademie dei professuruni – ma terra terra, a scopo curante, addomesticante e lavorante» (Le Foreste Sorelle

 

Tale vincolo vive anche del rapporto con gli animali e con tutte le creature viventi. In questi libri di Scabia c’è intesa tra uomini e animali. Gli animali dicono la loro, espongono le loro teorie cosmologiche e teologiche, avanzano rivendicazioni, tra di loro vi sono persino sibille, profetesse come la nera, amatissima, gallina di Polverara. E per parte loro, gli umani depongono ogni superiorità nei confronti degli animali. In questo mondo antico vi è poi la possibilità di comprensione e di riscatto, come mostra la vicenda dell’angelo monco, prima omicida e poi, una volta redento, benefattore. Fuori da lì, fuori dal Pavano Antico, il male imperversa e non ha limiti. Perché? si chiede Nane Oca. La risposta che sorge spontanea nel lettore è perché là fuori non c’è ascolto, non c’è intesa, non c’è mutuo soccorso, solidarietà.

Le storie di Nane Oca sono storie di rinascita, di rinnovamento individuale e del mondo per opera di un bambino: l’infanzia è vista come età privilegiata, si guarda ad essa senza nostalgia per il tempo passato ma con il desiderio (che è anche esortazione) di riavvicinarsi il più possibile al bambino che ciascuno di noi è stato. Scabia ce l’ha ben detto nel suo scritto Il bambino d’oro (2009), dove ragiona sulla figura del maestro: 

 

L’unico maestro assoluto, integro, invincibile – è il bambino quando sta uscendo dal corpo di sua madre.

Maestro perché non sa niente (il massimo di sapienza, dunque, secondo Socrate) e insieme sa tutto. 

Sa di dover andare avanti, di dover nascere.

O morire asfissiato e annegato, o sbucare fuori

Baussète!

 

 Baussète: eccolo il seme-germoglio di tutti i giochi.

 Apparire, sparire. 

 Nascondersi, farsi trovare.

 Aver paura di non essere trovati. 

 Rischiare di restare al buio.

 Nascere o morire.

 Baussète! 

 Sono qui, sono vivo. Trovatemi. Giocate con me.

 

Con le rocambolesche avventure dei suoi personaggi, Scabia gioca e ci invita al gioco, ci diverte e si diverte, lo si sente ridere tra le righe con gli occhi e con la bocca, con tutto il corpo. Ci sollecita a lasciarsi andare, ad abbandonarsi, a non perdere «il lumino del corpo bambino», a «mettersi in gioco», a ricominciare da capo, sempre di nuovo nel gran teatro del mondo.  

Non ci sorprende, perciò, se Nane riceve in dono come oggetto magico un baco da seta d’oro, cioè un bozzolo dove il bruco diviene farfalla (en passant, viene in mente l’uomo dal mignolo d’oro di Andrea Zanzotto nel testo di San Silvestro, Nella valle, e il posto che nella sua produzione successiva avrà il baco). Quel portentoso baco d’oro Nane lo userà alla fine della sua quête, quando dovrà attraversare il buio pesto dentro il Leviatano – la gran montagna di immondizia dove tutto (anche città famose, re, imperatori), è divenuto inevitabilmente immondizia – per ri-uscire, nascere di nuovo, uomo fatto dalla bocca del Pesce Cavo, e riapprodare nel Pavano Antico in compagnia di Fiore lo spazzino, il vero re del mondo. Per arginare il male bisognerebbe fare come Fiore: non sporcare, ripulire.

Anche di Fiore Scabia ci aveva già parlato, nel Canto del re del mondo, l’operina d’auguri di capodanno del 2014; anche lui – il pakistano che spazza e canta, e fa, contento, un mestiere di cui gli altri si vergognano – era stato insignito del titolo di unico maestro.

 

Ma nell’opera di Scabia tutto entra in circolo, tutto si parla, tutto si tiene e ritorna,  rigermoglia. Tutto si rifà da capo, nello stesso modo e in modo nuovo. Autore coltissimo, Scabia gioca con i miti, la letteratura, la cronaca: ripiglia e corregge Dante (gli boccia l’Inferno) e il libro del Genesi (fa ritornare Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre), rinnova per Suor Gabriella il rapimento di Proserpina, fa sedere al tavolo dell’oste Menalca il capo della mala del Brenta Felice Maniero. Etnografo, antropologo, linguista, filosofo nelle sue girandole fantastiche ridà vita a culture sommerse, miti popolari, tradizioni e parole dimenticate. Drammaturgo, attore, scrittore, gran costruttore di oggetti e macchine teatrali di cartapesta, oltre che di congegni poetico-narrativi, fatti uscire dai manicomi, dai teatri, dalle scuole e portati a vagare per i palcoscenici naturali di boschi, strade, piazze; inoltre, primo gran giardiniere di fiori di parole, insomma, in una sola, giusta parola Scabia è: poeta. Di invenzione in invenzione, disegna miti suoi che si sostanziano dell’alto e del basso, del nobile e del povero (o presunto tale) e, come tutti i racconti mitici, anche i suoi ci battezzano. A chi osasse istillare il sospetto (che sfiora persino il matto autore) che tutto possa suonare come la stessa solfa, questa è la nostra risposta: il gioco come la vita è ripetizione: chi sa giocare e vivere bene non si annoia.

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