Un libro di Cristina Grazioli / Sentire e dire luce
Chiarori, abbagli e crepuscoli, lampi e rivelazioni. Il numero 9 della rivista semestrale Sciami – Sentire luce a cura di Cristina Grazioli (Sciami edizioni, Teramo-Roma, 2021) raccoglie una serie di contributi “sentiti”, prima ancora che pensati, sul ruolo svolto dalla luce nell’evento performativo e teatrale. Sentire luce attribuisce alla percezione e alla sensorialità un aspetto imprescindibile dell’evento spettacolare, che ha luogo in uno spazio performativo “sempre pervaso da sostanza luminosa”. A questo riguardo Grazioli cita Pietro Gonzaga, pittore, decoratore e scenografo, che in una lettera del 1807 descrive la luce scenica come una “massa” che invade lo spazio tra scena e sala, miscelandosi con l’aria, i vapori e gli oggetti. I composti pulviscolari e gassosi invadono anche la scena delle arti visive del Novecento, talvolta depurati dagli aspetti sensoriali. Su questa forma gassosa, che dalle Avanguardie Artistiche giunge fino a noi come una nebbia nella quale si perdono i confini tra generi, è necessaria una digressione.
Uno dei documenti più precisi, sottili, sofisticati e ironici che “illuminano” la questione sono cinque fotografie dell’allestimento della mostra di Constantin Brancusi alla Brummer Gallery di New York, numerate da Marcel Duchamp in controluce sul verso e associate alla frase Les 58 numéros flottent très facilement dans les 3 galleries. La frase (che troviamo in una lettera di Duchamp inviata a Brancusi il giorno successivo al vernissage) entra a pieno titolo nella costruzione dell’opera, che include una sottile ironia sul sistema dell’arte: i numeri sono quelli delle opere in catalogo. Ruotate specularmente in controluce per essere trasformate in numeri che fluttuano nell’aria (anche in questo caso la luce partecipa alla creazione di un’opera aeriforme), le sculture di Brancusi flottent nell’incavo tra recto e verso di un foglio fotografico, enigmatico spazio associato al respiro e all’esalazione di fumo, ai vapori e ai gas, uno spazio nel quale ora galleggiano anche le immagini, i testi, le voci e i rumori del nostro tempo.
Questione complessa quella della luce nelle arti visive, performative e teatrali, là dove questa entra in rapporto con forme atmosferiche e pulviscolari. Il numero di Sciami – Sentire luce esplora le relazioni tra luce e oscurità, spazio condiviso e dissolvenze atmosferiche con interventi artistici, articoli e saggi, talvolta anche divergenti tra loro, a beneficio di una complessità che è anche quella dell’oggetto indagato. Il “teatro naturale” nei video di Michele Sambin (Lampi); l’estetica dello spettacolo modificata dalla tecnologia d’illuminazione e l’ecologizzazione dei teatri nell’articolo di Véronique Perruchon (Estinzione dello spettacolo: riflessioni sulla via ecologica del teatro); l’aspetto atmosferico del paesaggio urbano nella ricognizione di Joslin McKinney, che applica categorie scenografiche per interpretare le mutazioni dell’ambiente in cui viviamo (Luce, spazio e atmosfera urbana: fare esperienza della città come scenografia)… Immagini e discorsi che s’intrecciano tra loro.
La conversazione tra Alfonso Cariolato e Jean-Luc Nancy entra nel merito dei problemi filosofici posti dal rapporto tra luce e oscurità. Nancy auspica il raggiungimento di una fonte luminosa attraverso non la vista ma il contatto con altri corpi: “Non resta che brancolare […] sfiorare gli altri corpi, e forse alla lunga ricevere uno strano bagliore” (Il fondo, l’opacità, il bagliore). Con una sorprendente acrobazia il filosofo francese ci regala la speranza che una percezione amodale della luce possa farla risplendere nella totale oscurità. L’idea che lo sfiorarsi nel buio possa produrre strane luminescenze fornisce un’immagine suggestiva dello stare dei corpi nell’ambiente fisico, dove ha luogo l’evento teatrale e performativo.
Alla luce che illumina il moderno e il contemporaneo attraverso il cinema e la fotografia, invadendo la scena teatrale e performativa, sono stati dedicati diversi studi.
Quello di Elio Grazioli sugli “effetti luminosi involontari [che] rivelano forse anche qualcosa di imprevedibile che c’è sempre nella fotografia” (Lampi e rivelazioni. Fotografia), pur non entrando nel merito dell’illuminazione scenica – se mi è permesso il gioco di parole – la “illumina” (il raddoppiamento che mostra ciò che a un primo sguardo non è stato notato è un tema caro a Grazioli). Negli effetti di luce imprevisti che si fissano nelle fotografie “sbagliate” (sovraesposizioni, bruciature, bagliori provocati dalle riprese in controluce) si assiste a quello che Michel Frizot definisce “l’incontro delle nostre intenzioni con tutto ciò che vi si sottrae”. In queste fotografie, scrive Grazioli, la luce allude “a una dimensione altra […] infrasottile, per dirla con Marcel Duchamp”. Anche nelle fotografie scattate alla Brummer Gallery da Soichi Sunami e numerate da Duchamp l’infrasottile (inframince) si rivela in controluce.
L’orizzonte teorico nel quale si situa la riflessione di Elio Grazioli è quello dell’“inconscio ottico”, espressione coniata da Walter Benjamin nel saggio Breve storia della fotografia del 1931. Questa espressione sostituisce quella di “nuova regione della coscienza” usata precedentemente dallo stesso Benjamin in Replica a Oscar A. H. Schmitz del 1927, una riflessione sul cinema che ha fatto saltare la rappresentazione piccolo-borghese del mondo “con la dinamite dei decimi di secondo”. Sia il filosofo Henri Bergson (L’evoluzione creatrice, 1907) che lo scrittore Edmondo De Amicis (Cinematografo cerebrale, 1907) avevano riscontrato l’analogia che intercorre fra il flusso delle immagini cinematografiche e quello della coscienza.
Il flusso temporale ricostruito dalla registrazione, selezione e montaggio delle inquadrature non è indipendente dalle discontinuità percettive causate dalle variazioni dell’intensità luminosa. Si potrebbe dire che una parte di quello che vediamo sullo schermo lo comprende una diversa e indipendente coscienza visiva depositata nel flusso di luce riflesso dall'ambiente. Nel saggio L'approccio ecologico alla percezione visiva, James Gibson, sostiene che non è necessaria una mediazione di tipo elaborativo, né di tipo inferenziale per raccogliere l’informazione percettiva disponibile nell’ambiente in cui viviamo. Potrebbe essere questo un punto d’incontro tra l’“ecologizzazione dei teatri” profetizzata da Véronique Perruchon, le ricerche sulla declinazione atmosferica dell’illuminazione scenica e gli studi sulla percezione visiva? Possiamo per il momento dire che la luce che singhiozza nel film Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau, o quella intermittente riflessa da un prisma in rotazione nel cortometraggio Emak Bakia di Man Ray è anche quella delle scene performative e teatrali colonizzate dal cinema e dalla fotografia.
Alcuni dei temi discussi nel numero di Sciami migrano (sciamano) in Dire luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena (Cue Press, Imola, 2021), dove Cristina Grazioli e il Disegnatore Luci e Direttore della Fotografia Pasquale Mari toccano un tema delicato: il discorso sull’arte che interagisce con la pratica stessa dell’arte. Oggetto di questa interazione è ancora l’illuminazione scenica con i suoi effetti atmosferici, assunti anche come metafora del modo in cui il discorso di Mari sulla sua opera incrocia quello storico-artistico di Grazioli sul rapporto tra luce naturale e artificiale, scena e paesaggio.
Nel primo capitolo della riflessione a due voci si affronta una questione cruciale, quella della luce e del suo rapporto con il bianco. Richiamando l’opera di Francisco de Zurbarán, William Kentridge, Mario Dondero, Gastone Novelli e di altri ancora, Mari assegna al colore bianco una prossimità con l’invisibile. Ma il bianco è un colore? Narciso Silvestrini ricorda che nel pensiero del filosofo, teologo e vescovo Roberto Grossatesta la luce, il bianco scende ai colori per remissione, per attenuazione mentre, aggiunge Silvestrini, l’oscurità, il nero ascende ai colori per intenzione, per vocazione. Sembra riproporsi l’analoga tensione che nel triangolo e nella piramide si stabilisce tra il vertice e la base. Il colore è un “oggetto inquieto” che oscilla alternativamente tra il chiaro e lo scuro. Questa inquietudine del colore ha un rapporto con i vapori rossastri o bluastri di cui parla Gonzaga e con l’aspetto atmosferico dell’illuminazione scenica alla quale Cristina Grazioli ha consacrato le sue ricerche?
Il colore e la luce sono un vero rompicapo.
La luce lascia anche delle impronte. Nel capitolo Materia i due interlocutori riflettono sulla scrittura come traccia, impronta o indice che richiama l’esperienza primaria del contatto della luce con la materia e con la sua oscurità. Il tema è ripreso nel capitolo Scrittura nel quale si riflette sul passaggio dalla scrittura del testo a quella scenica. Grazioli porta come esempio la piuma del sipario realizzato da Yuri Kuper e fotografato da Mari in occasione dell’allestimento per il Falstaff (di cui Mari ha creato le luci) andato in scena al Teatro Mariinskij 2 nel 2018: “una penna d’oca, chiara e lieve su fondo scuro: un’immagine che mi sembra condensare il passaggio dalla scrittura del testo a quella scenica” (p. 45). L’esempio si regge su una metafora visiva, ma se dovessimo cercarlo nella specificità dell’illuminazione scenica? La luce laterale, cosiddetta “di taglio”, usata nella scena teatrale conserva il carattere primitivo del rapporto che la scrittura intrattiene con la luce. Il segno epigrafico scolpito sulla pietra e quello impresso sulla tavoletta d’argilla si rivelano infatti pienamente quando la luce illumina la superficie “di taglio”.
Vagabondando tra le pagine di Dire luce, nei vapori della riflessione a due voci sulla luce in scena mi sono perso. Tra questi vapori e polveri che impediscono una visione chiara e puntuale (nel senso di focale e foveale), penso a quanto sia lontano da noi lo sguardo partorito dalla geometria ottica della fine del V secolo a.C., che consegna alla scienza architettonica dei lumi e all’illuminotecnica il mito del raggio luminoso e visivo.
Questo raggio, che ha conferito alla scena del teatro all’italiana la forma che conosciamo, ora si flette e rifrange nelle polveri delle sue alternative atmosferiche. Tuttavia è sempre la stessa luce geometrica e radiante che si dilata con “molta gratia” nell’“atriolo periptero” attribuito a Donato Bramante, esempio magnifico di luce dall’alto che genera uno spazio atmosferico. Forse non è necessario “liberare la luce dalla scatola ottica” (p. 148) per conferire allo spazio architettonico e scenografico una qualità atmosferica. L’utopia “aerocentrica” della scena illuminata, assunta da Cristina Grazioli come modello ideale dello spazio teatrale e performativo contemporaneo, l’illuminazione scenica che già Gonzaga descriveva come una massa in circolo nell’aria ha una lontana antenata: la luce che seguiva traiettorie circolari volgendosi in spire e al tempo stesso poteva propagarsi anche in modo rettilineo.
Il moto aeriforme che anima lo spazio architettonico e scenografico raccontato in Sentire e Dire luce trasporta con sé elementi eterogenei, formando una “massa” luminosa e pulviscolare che avvolge l’evento e il pubblico, avvicina e compenetra l’uno nell’altro.