Il fantasma di Fidia ai Musei Capitolini
I Musei Capitolini di Roma dedicano a Fidia una mostra monografica, curata da Claudio Parisi Presicce, che ripercorre la vita e l’attività del grande scultore dell’età classica (Villa Caffarelli, fino al 05/05/2024). Il percorso espositivo è articolato in sei sezioni.
La figura di Fidia è evanescente come quella di un fantasma. È difficile ricostruire le sue opere sulla base delle copie diffuse sul mercato di età romana, così come è difficile riconoscere la sua mano tra quelle degli altri maestri impegnati nel cantiere del Partenone, una cinquantina con relativi gruppi di lavoro (Luigi Beschi, L’Atene periclea, in Storia e Civiltà dei Greci, a cura di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Bompiani, Milano 1979, p. 595). Pericle conferì a Fidia il ruolo di sovrintendente (episkopos, epistàtes) di un vasto programma di opere pubbliche. A lui si attribuiscono anche tre statue di Atena sull’Acropoli: la Promachos, la Lemnia e la Parthènos, un colosso crisoelefantino in avorio e oro alto oltre 12 metri, posto nella cella del tempio. Sempre a Fidia è attribuito lo Zeus di Olimpia, annoverato tra le sette meraviglie del mondo.
A proposito delle statue colossali fatte da Fidia, da Mirone e da Prassitele, il retore ellenistico Luciano di Samosata racconta: “Queste di fuori sono un Nettuno o un Giove bellissimo, fatto tutto d’oro e d’avorio, col fulmine, o la folgore o il tridente nella destra mano: se abbassando il capo, le guardi dentro, vedrai barre, chiodi, traverse, tronchi, cunei, pece, creta, e molte di tali difformità che vi sono nascoste; senza parlar delle nidiate di topi, e delle ragnatele che vi stanno di casa” (Il Gallo, 24). Luciano è noto sia per la sua ironia nei confronti degli dèi (ritrae Artemide come una virago selvatica e antropofaga e Zeus come un seduttore impenitente), sia per il suo particolare stile di scrittura. Nell’Elogio della mosca Luciano descrive il petto dell’insetto con una sensibilità e una competenza da scultore. Incerto se dedicarsi alla scultura o all’eloquenza, Luciano si decise infine per la seconda portando nella sua scrittura i modi della scultura, ma questi erano sin dall’inizio nella letteratura. Non è in fondo quello dell’ellenismo un naturalismo nel quale la realtà conserva i caratteri della finzione letteraria?
La digressione su Luciano, citato in mostra, mette in evidenza il ruolo svolto dalla letteratura e dal discorso sull’arte nello studio dei monumenti antichi, nel caso di Fidia a Villa Caffarelli integrando fonti letterarie, copie di età romana e frammenti originali.
Nella terza sezione della mostra, Il Partenone e l’Atena Parthènos, si possono ammirare quattro frammenti del fregio del Partenone, due prestati dal Museo dell'Acropoli di Atene e altri due dal Kunsthistorisches Museum di Vienna (prestiti straordinari perché di opere mai uscite prima d’ora dalle loro sedi museali). Nella sezione L’età di Fidia troviamo una bellissima copia della statua di Apollo attribuita a Fidia giovane, sulle spalle della quale un turista della seconda metà dell’Ottocento, o forse nei primi del Novecento, ha scritto il proprio nome.
Di fronte alle sculture in mostra il pubblico esclama: “che belle!”, riferendosi consapevolmente o no al “bello ideale” di Johann Joachim Winckelmann, ispirato agli studi di Giovan Pietro Bellori (Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, 1672), che ancora impregna la nostra cultura visuale, nella versione neoclassica proposta da Antonio Canova e da Albert Bertel Thorvaldsen, ai quali la sesta sezione della mostra dedica un focus.
La bellezza è intesa da Winckelmann come unità e semplicità “congiunte con armonia e combinate dalla proporzione”, dalle quali “insieme procede il sublime” (Della bellezza; e ch’egli è impossibile di definirla, in Monumenti antichi inediti, 1767). Ma non è propriamente questa la bellezza che mostrano le opere di Fidia e aiuti. Alla radice del termine “proporzione” troviamo la symmetrìa degli antichi, che ha un rapporto complesso con il numero e la geometria. Ne parlano i trattati sulla téchne che trasferirono alla scrittura l’insegnamento orale utile alla pratica di bottega. Tra questi è famoso il Canone (Κάνον, regola) di Policleto, con il quale lo scultore espone i principi secondo cui realizzare in scultura una figura umana. Il trattato di Policleto è andato perduto ma da riferimenti di autori posteriori sappiamo che per lo scultore greco il bello nasce dalla symmetrìa, ossia dalla possibilità di commisurare (syn-metrein) estensioni diverse. Il bello di Policleto è in gran parte anche quello di Fidia, che utilizza le proporzioni in modo libero, con variazioni di ritmo e mutare di schemi. Un reciproco scambio di influssi tra i due è documentato dal soggiorno ateniese di Policleto e dalla presenza nel fregio del Partenone di figure ispirate da sue opere (la figura 9 sulla lastra V Ovest, le figure 4 sulla lastra III Ovest e 22 sulla lastra XII Ovest. Eugenio La Rocca, Policleto e la sua scuola, in Storia e Civiltà dei Greci, a cura di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Bompiani, Milano 1979, p. 541). Il bello di Policleto e di Fidia ha una caratteristica metrica, che riflette un particolare modo di concepire il numero.
Nel saggio Il Teorema di Pitagora (Adelphi, Milano 2023), Paolo Zellini esplora le radici religiose e filosofiche della matematica, portando l’attenzione sul concetto di Giustizia che media tra eccessi e difetti, argomento già affrontato in Gnomon. Una indagine sul numero (Adelphi, Milano 1999, pp. 209-217). Secondo l’autore, la Giustizia pitagorica è un confronto dinamico tra entità disuguali che compensa il continuo squilibrio della natura.
Il moto plastico che trasporta le figure scolpite da Fidia e dagli altri maestri impegnati nel cantiere del Partenone non è quindi solo quello naturalistico del vento che muove le vesti di Iride sul frontone O, e quello dei gesti impetuosi di uomini e animali scolpiti in marmo pentelico, ma anche la forma del divenire in altro nel segno di un’invarianza o uguaglianza dei rapporti. Numero e geometria, spiega Zellini nel suo saggio sul Teorema di Pitagora, fronteggiano la distruzione del divenire conservandone al contempo la potenza demonica e propulsiva.
Una forza demonica si agita nelle opere apparentemente calme esposte a Villa Caffarelli. La stessa forza si agita anche nella democrazia ateniese di Pericle, che “media tra eccessi e difetti”.
Nella seconda sezione della mostra, L’età di Fidia, si esamina il contesto storico, politico e artistico di Atene agli inizi del V secolo a.C., delineando anche il profilo dei personaggi che la resero grande. Tra questi Pericle, che avviò un programma di opere pubbliche per affermare il primato economico, politico e culturale di Atene. Contestualmente radicalizzò la democrazia ateniese allargando la platea di coloro che avevano il diritto di partecipare all’amministrazione pubblica. Così facendo, lo sviluppo culturale e artistico di Atene si saldò al potenziamento dell’assemblea popolare nel segno di un’invarianza o uguaglianza dei rapporti che fronteggia le inevitabili diseguaglianze. Riferendosi alla democrazia introdotta da Solone e Clistene, poi radicalizzata da Pericle, Isocrate scrive: «ci sono due tipi di uguaglianza: uno che dà a tutti in parti uguali, l’altro che dà a ciascuno quanto gli è dovuto in proporzione alle sue capacità» (Areopagitico, 20-27). Il retore ateniese richiama la democrazia “di allora” (di Solone e Clistene, 585 a.C.) con la quale s’introdusse il principio democratico, poi radicalizzato da Pericle, basato sul secondo tipo di uguaglianza, secondo Isocrate di gran lunga meglio della prima perché più giusta.
Un mondo giusto dal quale la proporzione fra le parti e fra le parti e il tutto estirpa dalla società ogni ingiustizia? No! l’eccesso dell’ingiustizia che si commette e il difetto di quella che si subisce permangono, la Giustizia si pone tra i due mediandoli, non eliminandoli. Una forza distruttiva e al contempo propulsiva si agita nelle sculture fidiache, così come nella democrazia “di allora”, per dar luogo a un’esperienza del bello diversa da quella comunemente intesa dal pubblico quando esclama: “che belle!”.
La bellezza ha un fondo tumultuoso e oscuro che rende conturbante la copia dell’Apollo fidiaco e le versioni dell’Amazzone ferita in mostra, tra le quali anche una copia tratta da un originale di Policleto, che superò clamorosamente Fidia in un concorso per la statua da dedicare nel santuario extraurbano di Artemide a Efeso. Nella sezione Fidia fuori da Atene si può ammirare una copia dell’Amazzone di Policleto e una copia in basanite verde scuro dell’Amazzone di Fidia.
Nella mostra a Villa Caffarelli si avverte la mancanza dei marmi di Elgin, acquistati dal governo britannico nel 1816 da Thomas Bruce, conte di Elgin. Un acquerello di William Gell raffigura la rimozione delle sculture frontali del Partenone su mandato di Elgin. Al saccheggio, autorizzato dagli ottomani che a quel tempo governavano la Grecia, partecipò anche l’architetto inglese Robert Smirke, che commentò: “Fui particolarmente turbato quando vidi la distruzione compiuta per prelevare i bassorilievi sulle mura del fregio. Ogni pietra cadendo schiantò al suolo col suo enorme peso, con un rumore sordo, profondo: sembrava il gemito convulso dello spirito offeso del tempio”. Osservando i quattro frammenti del Partenone esposti a Villa Caffarelli, pare di udire ancora il rumore sordo delle pietre che cadono al suolo e il gemere della dea, che Fidia raffigurò con il colossale anàtema (donario) in oro e avorio posto nella cella del tempio.
In copertina, James Stuart e Nicholas Revett, Veduta del Partenone da est, in The Antiquities of Athens, vol. II, 1787, London. Roma, Istituto Archeologico Germanico.