Anche gli umani hanno sogni elettrici

3 Febbraio 2025

Nel 1959 l’artista multimediale Brion Gysin ebbe la singolare idea di costruire la Dreamachine, un cilindro perforato sulla base di uno schema geometrico che ruota  emettendo luce stroboscopica (con una frequenza tra gli 8 e 13 Hertz) da osservare ad occhi chiusi. L’intermittenza luminosa che filtra attraverso le palpebre genera immagini caleidoscopiche e colori preternaturali, analoghi a quelli provocati dall’assunzione di allucinogeni. Nello stesso anno inventò il cut-up associando la tecnica del collage al metodo con il quale Tristan Tzara compose la famosa poesia, estraendo da un cappello parole scritte su foglietti rimestati a caso. La tecnica di composizione inventata da Gysin fu sistematicamente utilizzata dal suo amico William Burroughs in ambito letterario e anche cinematografico. Nei suoi cortometraggi cut-up le immagini acustiche e visive si susseguono in modo seriale e ossessivo. In Towers Open Fire del 1963 e The Cut-Ups del 1966 la comparsa onirico-ipnotica della Dreamachine rinforza l’effetto psichedelico del montaggio, richiamando alla mente un dispositivo dell’era pre-cinematografica: lo zootropio (W.S. Burroughs. Cut-Up Films, a cura di Stefano Curti, Rarovideo, Roma 2004). La ricerca di Gysin ispirò poeti, artisti e musicisti, tra i quali Malcolm McLaren (vedi articolo qui) e David Bowie, che utilizzò il cut-up rimescolando parole e frasi tratte dai suoi diari. Bowie la considerava una tecnica oracolare.

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Charles Gatewood, Bryon Gysin and William Burroughs at the Dreamachine, Parigi, 1972. Courtesy Topfoto. 

La Dreamachine fu presentata nel 1962 al Musée des Arts Decoratifs di Parigi e ora la si può contemplare ad occhi chiusi («the first art object to be seen with the eyes closed») nella sezione Room 4: Brion Gysin della mostra Electric Dreams. Art and Technology Before the Internet alla Tate Modern di Londra (fino al 1 giugno 2025). L’esposizione ricostruisce la storia del rapporto tra arte, tecnologia e idee scientifiche, dagli anni ’50 agli anni ’90 del secolo scorso.

Articolata in quattordici sezioni, la mostra esplora il tema in ordine approssimativamente cronologico a partire dalle opere pionieristiche esposte nella sezione introduttiva. Tra queste un disegno del 1965 (Méta-matic No 13) generato da una macchina costruita da Jean Tinguely utilizzando materiali industriali di scarto; un collage (Artist versus Machine) realizzato da Vera Spencer nel 1954 assemblando su una tavola dipinta ritagli di carta e schede perforate usate dai telai automatici per tessere pattern complessi (tecnologia che suggerì al matematico Charles Babbage l’idea di un calcolatore programmabile); la documentazione fotografica di una scultura composta da bulbi luminosi colorati (Electric dress - Denkifuku), realizzata da Atsuko Tanaka e usata come costume per una performance eseguita nel 1956. L’opera è una versione elettrificata del kimono che porta l’attenzione sul rapporto tra tradizione e urbanizzazione moderna del Giappone. Alla fine di una delle sue performance Tanaka posò su un taglio di stoffa i bulbi incandescenti che marchiarono la tela formando una composizione di cerchi neri. Electric dress è una felice intermittenza di luce colorata e al tempo stesso la tragica memoria di Hiroshima e Nagasaki.

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Kiyoji Otsuji, Tanaka Atsuko, Electric Dress, 2nd Gutai Exhibition, 1956. Tate © Tetsuo Otsuji, Musashino Art University Museum & Library. Courtesy of YOKOTA TOKYO.

Come il disegno di Tinguely, ottenuto dall’imprevedibilità di un meccanismo instabile, e il collage di Spencer, che oppone al processo di automazione il gesto umano che lo interrompe, anche l’opera di Tanaka rivela un atteggiamento incerto tra fiducia e sospetto nei confronti della tecnologia.

Nella sezione successiva (Room 2: materialising the invisible) ogni sospetto cade e il visitatore può immergersi fiducioso nell’ambiente di luci in movimento (Light Room - Jena) realizzato da Otto Piene nel 2007 assemblando le installazioni cinetiche degli anni Sessanta, oppure abbandonarsi all’ascolto di Electro-Magnetic Music, un’opera composta da Takis nel 1966, che traduce un campo elettromagnetico in vibrazioni sonore.

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Otto Piene, Light Room (Jena), 2007. © Otto Piene Estate - DACS 2024 / Vladimir Bonačić, Random 63, 1969, GF.E 16-NS, 1979 and GF.E 32-S, 1969-79, 2024, Tate Modern. Foto © Tate (Lucy Green).

Lo studio dei campi quantici e l’esplorazione dello spazio stimolarono gli artisti a cercare nuove soluzioni tecnologiche e formali. Un centro propulsivo di queste ricerche fu la galleria londinese Signals, nata dal Centre for Advanced Creative Study fondato nel 1964 dagli artisti David Medalla, Gustav Metzger e Marcello Salvadori, con la collaborazione del critico Guy Brett e dal curatore Paul Keeleri. Alcuni artisti usarono l’elettronica per dare forma alla luce e al suono, altri utilizzarono sistemi algoritmici a scopi creativi, spesso in collaborazione con ingegneri. Negli anni Cinquanta e Sessanta IBM e Bell Laboratories offrirono agli artisti dei programmi di residenza, e così fecero altre compagnie e istituti di ricerca tecnologica negli anni successivi. Dal 1980 al 1986 Rebecca Allen lavorò al New York Institute of Technology, dove contribuì alla creazione di software per la modellazione e l’animazione 3D, che vennero impiegati sia in ambito televisivo che cinematografico.

Gli artisti lavorarono a vantaggio delle corporazioni, ma quando negli anni ’80 furono messi in commercio i personal computer e i software di editing grafico, ne colsero l’opportunità. Il “fai da te” s’innestò nei movimenti di controcultura diventando uno strumento per mezzo del quale sperimentare nuove visioni del mondo. La ricostruzione della storia del rapporto tra arte, tecnologia e idee scientifiche nella mostra alla Tate è attraversata in modo carsico dall’idea che il deragliamento dei sensi e una certa dose di visionarietà siano indispensabili alla costruzione collettiva e partecipata di una società alternativa.

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Eduardo Kac, Tesão (Horny), 1985. Terminale Philips Minitel 2. Tate. Lent by the Tate Americas Foundation, courtesy of the Latin American Acquisitions Committee 2018 © Eduardo Kac.

La mostra Video communication: DIY. Kit, che ebbe luogo a Tokyo nel 1972, portò alla nascita di Video Hiroba, un collettivo sperimentale che concepiva la tecnologia video come un’alternativa alla cultura di massa. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 ebbero luogo delle manifestazioni artistiche che esplorarono il potenziale creativo della tecnologia: la mostra Cybernetic serendipity organizzata nel 1968 all’Institute of Contemporary Art (ICA) di Londra; quella internazionale itinerante Arte y Cibernética, organizzata dal Centro de Arte y Comunicación nel 1969; le mostre Tendencies 4 del 1968-69 e Tendencies 5 del 1973, che ebbero luogo a Zagabria.

Se le prime opere d’arte elettronica furono create dagli artisti nei laboratori di ricerca dove si trovavano computer come l’IBM 7094 usato dalla NASA nel programma spaziale Apollo, la messa in commercio di tecnologia elettronica hi-tech a basso costo consentì agli artisti di utilizzarla a scopi creativi e sociali, sottraendola agli interessi militari e corporativi. Tra il 1985 e il 1987 furono pubblicati a Londra nove numeri della rivista “Black Chip. Una pubblicazione sull’informatica per e fatta dagli anarchici” (il sottotitolo fu poi cambiato in “Una pubblicazione di nuove tecnologie”), che discuteva l’informatica in termini sociali politici e culturali.

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Cybernetic serendipity, manifesto della mostra organizzata nel 1968 all’Institute of Contemporary Art (ICA) di Londra / “Black Chip” N° 86:1, Primavera 1986. 

I movimenti di controcultura, che fiorirono in quegli anni, concepivano la tecnologia elettronica come una risorsa utile a formare reti e comunità. Una collaborazione tra il gruppo E.A.T. (Experiments in Art and Technology), fondato da artisti e ingegneri nel 1967 in USA, e il National Institute of Design di Ahmad Abad in India, dette origine nel 1971 al progetto Utopia: Q&A 1981, che collegava via telex i luoghi di EAT a Stoccolma, New York, Tokyo e Ahmad Abad. La tecnologia era utilizzata per creare reti, ma anche per generare universi alternativi ed estendere i confini della mente umana. In questo contesto culturale la rifondazione sociale e politica dell’uomo va di pari passo con una sua rifondazione spirituale. Ispirandosi alla filosofia buddhista, Tatsuo Miyajima realizzò negli anni ’90 due opere composte da unità di conteggio numerico led disposte in formazioni geometriche allo scopo di creare una «qualità spirituale» nel mondo. Nella sezione Room 12: Tatsuo Miyajima si possono ammirare le due opere: Lattice B del 1990 e Opposite Circle del 1991, che lampeggiano formando 133.651 possibili combinazioni numeriche.

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Tatsuo Miyajima, Lattice B, 1990 e Opposite Circle, 1991, veduta dell’installazioneTate Modern, 2024. © Tatsuo Miyajima. Foto © Tate (Lucy Green)

La tecnologia elettronica è spesso usata dagli artisti legati ai movimenti di controcultura per provocare esperienze estatiche nelle quali il mondo sembra apparire per la prima volta. È la visione di un “altro” mondo, che essendo incorporato in questo stesso mondo lo rende instabile, incerto e mutevole. In altri termini vivo. Misterioso anche. Aldous Huxley, testimone della stagione psichedelica degli anni Sessanta e Settanta, racconta un’esperienza avvenuta all’ombra di una pergola: «Dove l’ombra cadeva sulla tela della tappezzeria [di una sedia] le strisce d’un indaco splendente si alternavano con strisce di un’incandescenza così intensamente brillante ch’era difficile credere potessero essere fatte di altro se non di fuoco blu» (Aldous Huxley, Le porte della percezione, Mondadori, Milano 1980, p. 42).

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François Morellet, Random distribution of squares using the π number decimals, 50% odd digit blue, 50% even digit red, 1963 installation view, Atkinson Museum, Porto, 2023. © François Morellet. Photo courtesy Atkinson Museum. 

Luci stroboscopiche, illusioni ottiche che spaesano, colori preternaturali: la mostra stessa ha una connotazione psichedelica, addomesticata e convertita in intrattenimento. L’esposizione diverte i visitatori: bambini che giocano e adulti affascinati dagli effetti percettivi invadono allegramente le sale espositive. Particolare successo riscontra l’installazione immersiva Chromointerferent Environment realizzata da Carlos Cruz-Diez nel 1974 (originariamente composta da proiettori di diapositive ora riproposta in versione digitale).

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Carlos Cruz-Diez, Environnement Chromointerférent, Paris, 1974/2024, Tate Modern. © Carlos Cruz-Diez. 

Il suggestivo display espositivo e la mancanza di un chiaro percorso di lettura confondono il visitatore interessato alla ricostruzione storica del rapporto tra arte, tecnologia e idee scientifiche in decenni che si sono rivelati cruciali sotto molti aspetti.

Negli anni di Gysin e Burroughs, del gruppo EAT e di altri gruppi di cui si dirà, il vedere il mondo con occhi nuovi diede una spinta ai movimenti di controcultura, saldando l’immaginazione all’azione sociale e politica, al di là delle posizioni ideologiche o di principio. «Ho qualcosa da dire ma non so cosa» si leggeva sui muri di Parigi nel ’68. Qualcosa di aperto e indeterminato animava tanto questi movimenti quanto il tentativo in arte di giungere a qualcosa di nuovo. Una creatività diffusa che si è presto irrigidita nelle forme dogmatiche dell’ideologia, facendo piazza pulita dell’incertezza, che sta alla base di ogni cultura aperta e inclusiva, del «non so cosa» carico di aspettative e di mistero.

Il gruppo Zero, fondato dagli artisti Heinz Mack e Otto Piene a Düsseldorf nel 1957, diede forma a visioni utopiche del futuro, confidando nel fatto che l’arte potesse trasformare la società. Così anche il Groupe de Recherche d’Art Visuel (GRAV) fondato a Parigi nel 1960 con lo scopo di riconfigurare il ruolo dell’artista.

Electric Dreams è una rassegna dell’arte digitale, optical, cinetica e programmata, che ricapitola una stagione importante del rapporto tra arte, tecnologia e idee scientifiche. All’arte programmata e cinetica italiana è dedicata la sezione Room 6: The programmed artworks: art as visual research, con opere di Marina Apollino, Alberto Biasi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Lucia Di Luciano, Paolo Scheggi, Grazia Varisco.

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Alberto Biasi, Cinereticolo spettrale, 1962-1965. Photo © ZKM Center for Art and Media Karlsruhe, photo Franz Wamhof / Grazia Varisco, Variable Light Scheme R. VOD. LAB, 1964 e Marina Apollino, Dinamica Circolare 6S+S, 1966. Tate Modern, 2024. Foto © Tate (Lucy Green).

Di sezione in sezione si dispiega il rapporto che la tecnologia elettronica intrattiene con l’arte, la musica, la danza e la poesia. Negli anni Sessanta Gysin inaugurò un nuovo format di poetry reading multimediale, che includeva proiezioni di diapositive 35mm sulle quali scribacchiava versi calligrafici composti combinando ideogrammi giapponesi e scrittura araba. Nel 1974 Analivia Cordeiro realizzò la coreografia 45° Version V utilizzando un algoritmo che teneva conto del movimento nello spazio, della posizione del corpo, della forza muscolare e della fluidità del movimento.

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Brion Gysin, No writers don’t own words, 1961, 35mm slideshow. Courtesy Musée d’Art Moderne de Paris / Analivia Cordeiro, 0° ↔ 45° Version V, 1974-2024. TokenAngels Collection (il corpo della danzatrice si mimetizza nella scenografia).

Nel 1969 Hiroshi Kawano creò un algoritmo, utilizzando il linguaggio di programmazione Fortran, per determinare con quale frequenza e in quale posizione fosse più probabile che un certo colore potesse apparire nei dipinti di Piet Mondrian, allo scopo di generare nuove immagini traducendo quelle probabilità in variabili casuali. Un risultato di tale procedimento è l’opera KD 29 – Artificial Mondrian. Nel 1967 Charles Csuri realizzò Sine Curve Man, uno dei primi disegni figurativi utilizzando un IBM 7094 e un plotter. Queste sono solo alcune delle opere esposte.

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Charles Csuri, Sine Curve Man, 1967. Copyright the Artist, Courtesy of the Anne and Michael Spalter Digital Art Collection / Hiroshi Kawano, KD 29 - Artificial Mondrian, 1969. © Hiroshi Kawano, Photo, ZKM Center for Art and Media Karlsruhe.

Una mostra veramente ricca, che si conclude con la sezione Room 15: Fleischmann and Strauss, dedicata all’installazione interattiva Liquid views. Narcissus’ digital reflections del 1992, progettata dagli artisti Monika Fleischmann e Wolfgang Strauss. L’opera è composta da un touch screen che simula una pozza d’acqua, dove si riflette l’immagine di chi guarda catturata da una camera. L’immagine viene distorta quando si tocca il display generando un’onda visualizzata su un grande schermo. L’onda di Liquid views chiude il percorso espositivo richiamando quella ottenuta da Matrix II, l’insieme di monitor composto nel 1974 da Steina Vasulka, esposto nella sezione introduttiva. Le due opere aprono e chiudono nel segno di una fluidità che è quella del segnale elettronico.

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Monika Fleischmann and Wolfgang Strauss, Liquid Views, 1992. Tate Modern, 2024. © Monika Fleischmann and Wolfgang Strauss. Foto © Tate (Lucy Green).

Il progetto espositivo si espande a Outernet London, un centro di arte digitale in Tottenham Court Road, dotato di un’enorme zona aperta e gratuita dove vengono proiettate a rotazione su maxischermi opere digitali, tra le quali After the Green and After the Black Dune, 2024, di Samia Halaby. L’arte elettronica esce dal museo per pulsare insieme alla città, in una scala che è insieme architettonica e infrastrutturale.

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Samia Halaby, After the Green and After the Black Dune, 2024. Outernet London, 14 November 2024 – 2 February 2025.

La mostra esplora il periodo che prepara l’avvento di Internet (Before the Internet) e la diffusione della cultura dell’algoritmo, invitando lo spettatore a immaginare un’ulteriore sezione. L’insieme d’istruzioni matematiche utilizzate per elaborare dati e per risolvere problemi nei processi computazionali guida le nostre scelte negli ambiti più disparati: dal mercato azionario all’ascolto musicale.

In Che cosa vogliono gli algoritmi. L’immaginazione nell’era dei computer, Ed Finn, direttore del Center for Science and the Imagination all’Università dell’Arizona, incoraggia a «impegnarci direttamente nella produzione e nel sapere algoritmici», auspicando un’immaginazione espansa che operi integrando il lavoro di uomini e macchine. Possiamo sperare in un futuro meno distopico di quello che Vera Spencer temeva nel 1954 e che ancora oggi molti temono? All’immaginazione espansa saranno ancora utili le esperienze visionarie suscitate dalla Dreamachine di Gysin, o la “stupefacente” tecnica cut-up che in Bowie assume valenze oracolari? Le visioni e le audizioni quasi allucinatorie, che erompevano dai testi, dai film e dalle registrazioni su nastri magnetici, ora potranno erompere anche dagli algoritmi? Manipolando i modelli di intelligenza artificiale generativa e i protocolli di raccolta di dati in set utilizzati per addestrarli sarà possibile usare l’AI come uno strumento creativo?

Electric Dreams. Art and Technology Before the Internet, a cura di Val Ravaglia e Odessa Warren, con l’assistenza di Kira Wainstein. Tate Modern, Londra, 28 Novembre 2024 – 1 Giugno 2025 (https://www.tate.org.uk/press/press-releases/electric-dreams)

In copertina, Samia Halaby, Fold 2, 1988, still from kinetic painting coded on an Amiga computer. Tate © Courtesy the artist and Sfeir-Semler Gallery, Beirut / Hamburg.

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