Vulci, l’invenzione della città

27 Aprile 2024

Alla Fondazione Luigi Rovati è in corso Vulci. Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi (fino al 4 agosto 2024), la prima di un ciclo di mostre dedicate alle Metropoli etrusche. Il progetto espositivo ricostruisce l’evoluzione antropologico-culturale delle élites dominanti, degli artigiani-artisti e di tutta la popolazione vulcente, inserendosi in una fase di ripresa degli studi su Vulci. 

La Fondazione Luigi Rovati dedica particolare attenzione al dialogo tra presente e passato, nel caso della mostra in corso accostando opere d’arte contemporanea ai reperti provenienti dall’area di Vulci, alcuni appartenenti alla collezione Rovati e altri provenienti dalle collezioni di importanti istituzioni pubbliche ed enti privati. I cocci di un vaso, che l’artista Giuseppe Penone ha raccolto e inglobato nell’impronta in gesso delle mani unite a coppa (Cocci, 1982), così come altre sue opere in mostra, enfatizzano il rapporto tra il gesto e la materia nella produzione artigianale, tema principale del progetto espositivo ospitato al piano ipogeo della Fondazione. 

Ogni cupola della struttura ipogea, progettata dall’architetto Mario Cucinella, accoglie una sezione della mostra dedicata agli «inventori delle città». Gli Etruschi inaugurarono un nuovo modo di abitare nei territori da loro occupati e Vulci offre l’occasione per indagare la complessità storica di questo fenomeno.

La mostra è curata da Giulio Paolucci, archeologo e conservatore del Museo d’arte della Fondazione Luigi Rovati e da Giuseppe Sassatelli, Professore emerito di Etruscologia e Antichità all'Università di Bologna e Presidente dell'Istituto nazionale di Studi Etruschi ed Italici, che Doppiozero ha intervistato.

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Veduta ©Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati.

Per segnalare il ruolo svolto dalla partecipazione civica e produttiva nello sviluppo delle città etrusche, lei cita un frammento del discorso di Nicia agli Ateniesi riportato da Tucidide: «gli uomini sono la città, non le mura o le navi vuote di uomini». La città è intesa come concentrazione demografica, come insieme di attività politiche, produttive, artigianali ed economiche, strettamente connesse alle espressioni culturali, cultuali e rituali. La stessa fondazione della città etrusca era subordinata allo svolgimento di un rito per mezzo del quale l’augure trasferiva sulla superficie terrestre la partizione dello spazio celeste. Il titolo della mostra “Vulci. Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi” indica questa interdipendenza tra partecipazione civica, produzione artigianale, ideologie e credenze?  

Che gli Etruschi siano stati gli “inventori della città” è un dato ormai acquisito e largamente accettato dalla comunità scientifica. Che cosa significa “inventare la città” già a partire da tempi molto antichi (tra X e IX secolo a. C.)? Significa superare il modo di abitare delle precedenti fasi preistoriche caratterizzate da piccoli villaggi capillarmente disposti in un vasto territorio, senza gerarchie, lontani dal mare, con una economia molto semplice e forse ancora in regime di proprietà comune della terra. La città significa in primo luogo concentrazione demografica, il più delle volte in grandi aree vicine al mare, e quindi aperte ai traffici, che poi saranno sede delle città storiche dell’Etruria (Veio, Cerveteri. Tarquinia, Vulci, ma anche Bologna nella pianura padana e Capua in Campania) con marcate specializzazioni artigianali per produrre eccedenze da mettere sul mercato, proprietà individuale/famigliare della terra caratterizzata da una agricoltura innovativa e competitiva e quindi con un controllo di vasti territori da parte dei nuovi centri urbani con un rapporto gerarchico città/campagna che poi sarà la caratteristica di tutti i periodi successivi, fino ai giorni nostri. Tutto questo richiedeva una struttura organizzativa e politica in grado di gestire tale complessità storica. E gli Etruschi furono anche maestri nel definire i riti di fondazione di una città, riti che implicavano una forte caratterizzazione sacra perché la città era l’immagine a terra del cielo dove abitavano gli dei. E questo “rito di fondazione” gli Etruschi lo esportarono anche ad altre popolazioni, a cominciare dai Latini con Roma, fondata da Romolo ma con l’intervento di aruspici etruschi.

Per questo la Fondazione Rovati ha deciso di programmare una serie di Mostre all’interno di un progetto complessivo che si chiama “metropoli etrusche” e che si propone di presentare al pubblico una serie, fortemente esemplificativa, di alcune delle più importanti città etrusche e del loro funzionamento interno, sul piano economico e produttivo, ma anche su quello culturale e politico. Si comincia da Vulci…

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Edicola di Ponte Rotto, metà III secolo a.C., terracotta. Proveniente da Vulci, necropoli di Ponte Rotto. Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Foto ©Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati.

La mostra sollecita un’altra domanda: «l’archeologia può aiutarci a comprendere la permeabilità tra culture ed etnie diverse, che sta alla base della nostra identità?». Il progetto espositivo evidenzia come gli scambi economici e culturali e la migrazione di artigiani abbiano favorito l’innesto di modelli stilistici stranieri in quelli autoctoni, e come anche sul piano del costume sociale si siano verificati degli scambi significativi (soprattutto nelle sezioni “Artigiani immigrati, artigiani locali” e “Da Atene a Vulci: immagini di viaggio”). 

Uno degli aspetti più caratterizzanti della città di Vulci è quello della produttività artigianale e della circolazione commerciale. La produttività artigianale tocca la ceramica, il bronzo e la pietra. Ed è al servizio delle ideologie e della vita della città. Questo significa il titolo della Mostra “Vulci. Produrre per gli uomini, produrre per gli dei”. La circolazione commerciale riguarda ampie aree del mediterraneo occidentale e dell’Italia antica dove arrivano tanti prodotti dell’artigianato vulcente. 

Tutto questo deriva da una solida organizzazione produttiva che si basa su profonde relazioni culturali e artigianali con larga parte del Mediterraneo. I prodotti ceramici della Grecia orientale prima, poi quelli di Corinto e infine quelli di Atene e dell’Attica invadono il mercato etrusco, e in particolare quello di Vulci. Ma tutto ciò non avviene in modo unilaterale, meccanico e passivo. Le merci importate da questi ambiti lontani e molto colti innescano un processo interno di imitazione sia sul piano tecnologico che su quello delle immagini. E questo intreccio si basa anche sulla mobilità della mano d’opera per cui artigiani della Ionia, di Corinto e anche di Atene si trasferiscono a Vulci dove esportano le loro tecnologie più innovative, il loro patrimonio di immagini e di racconti relativi al mito e all’epica (quella di Omero!). Creano vere e proprie scuole artigianali dove l’intreccio tra ciò che viene da fuori e le tradizioni locali si sposano e si mettono al servizio della classe dirigente della città, prima i principi dell’aristocrazia e poi i cittadini della fase “democratica”.

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Olla con coperchio, inizio VII sec. a.C., ceramica d’impasto. Fondazione Luigi Rovati ©Fondazione Luigi Rovati / Giuseppe Penone, Cocci, 1982, gesso, terracotta e marmo. Fondazione Luigi Rovati ©Fondazione Luigi Rovati.

Le sezioni dedicate ai costumi funerari e alla visione dell’aldilà: “Il paesaggio liminare”, “Simulacri di immortalità” e “Devozione d’argilla” suscitano vivo interesse nel visitatore, educato in seno a una cultura che ha rimosso la morte, divenuta evento da amministrare tecnicamente, come rileva Philippe Ariès nel suo celebre saggio “L’uomo e la morte dal medioevo a oggi”. Essa si affaccia dalle vetrine richiamando la nostra attenzione. Le credenze escatologiche hanno inciso sullo sviluppo del nuovo modo di abitare inaugurato dagli Etruschi?

La spiccata produttività di Vulci nelle ceramiche, nei bronzi e nella scultura in pietra è al servizio dell’ideologia funeraria della città e dell’idea della morte che avevano i suoi cittadini. La grande scultura in pietra usa il nenfro, un tipo di tufo molto raffinato che è tipico di Vulci e che era molto più adatto alla scultura del tufo di Cerveteri e Tarquinia, assai più poroso e rozzo. Gli animali reali (leoni) e fantastici (sfingi e felini alati) sono un richiamo preciso all’aldilà, sia come guardiani delle tombe che dovevano proteggere dai male intenzionati, sia come immagine evocatrice di un aldilà difficile e pauroso. Anche se ormai è assodato che i mostri o i demoni che incutono paura non abitano nell’aldilà, ma si trovano solo nel tratto che il defunto deve percorre per raggiungere l’aldilà quando lascia questa terra. L’aldilà è sereno e gioioso e una volta raggiunto accoglierà il defunto in pace consentendogli di sedere a banchetto assieme a coloro che l’hanno preceduto. I mostri di questo tragitto difficile e complicato, oltre che pauroso, sono la metafora della morte intesa come trauma individuale e sociale.

Un altro aspetto molto importante dell’ideologia funeraria che condiziona molte della attività artigianali è la precoce presenza a Vulci dell’esigenza di ripristinare l’aspetto fisico del defunto dopo che il rito della cremazione lo aveva distrutto. Ecco allora comparire, assai precocemente, vasi contenitori delle ceneri con un coperchio a forma di palla che evoca la testa, con la successiva aggiunta di elementi che non lasciano dubbi sul fatto che si vuole reintegrare la fisicità del defunto nel vaso che ne conteneva le ceneri. Quello che avviene in età un po’ più recente, ma in modo ancora più esplicito, con i canopi di Chiusi, veri e propri cinerari antropomorfi.

E questa ossessione di ripristinare l’integrità fisica del defunto dopo che la cremazione l’aveva distrutta si manifesta a Vulci anche con un’altra straordinaria esperienza che è quella delle statue “polimateriche”, fatte di bronzo, di legno e di altro materiale. Sono statue per le quali si utilizza materiale deperibile (in particolare il legno) per il corpo e la testa, e bronzo per le mani. E queste statue, montate su carri, avevano sicuramente un significato durante il rituale di sepoltura, nel corso del quale dobbiamo immaginare cortei a cui lo stesso defunto, evocato da queste statue, sembrava partecipare e poteva anche esser oggetto di venerazione.

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Coppia di mani di statua polimaterica, seconda metà VII sec. a.C. (630-600 a.C.), lega di argento, oro e rame. Proveniente da Vulci, necropoli dell’Osteria, area C, tomba I. Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale ©Ministero della Cultura. 

Tra i reperti che documentano il rituale di sepoltura cattura l’attenzione la “Coppia di mani di statua polimaterica” in lamina d’argento e oro, rinvenuta nella necropoli dell’Osteria. Notevole per la sua raffinata fattura è anche la decorazione architettonica frontonale dell'edicola funeraria di Ponte Rotto. 

Una mostra da non perdere, che alimenta l’aspettativa delle prossime. Potrebbe illustrare il piano complessivo del progetto “Metropoli etrusche”?

La prossima Mostra del ciclo sarà su Tarquinia, la città della pittura etrusca e dei sarcofagi in pietra, oggetto in anni recenti di letture e interpretazioni assolutamente nuove, e anche la città che ha rivelato negli scavi degli ultimi decenni novità straordinarie sulle sue origini e sul suo costituirsi come città, novità profondamente intrise di religiosità e di culti speciali e inaspettati. Successivamente sceglieremo altre città esemplificative della varietà del modo etrusco di vivere questa esperienza urbana e sociale, in rapporto a diversi territori e alle diverse storie che queste città rappresentano e illustrano.

 

In copertina, Sfinge alata, metà VI secolo a.C., nenfro. Proveniente da Vulci, necropoli dell’osteria, area B, tomba 14. Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale. Foto © Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati.

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