L’arte è per tutti. Una conversazione con Mario Cristiani
(Scarica il comunicato stampa del progetto Arte per la Riforestazione)
Mario Cristiani è Presidente dell’Associazione Arte Continua, che promuove l’arte pubblica coinvolgendo artisti che appartengono alla comunità internazionale dell’arte. Nel 1996, prende il via il progetto Arte all’Arte. Arte Architettura Paesaggio, con interventi site specific di Sol LeWitt, Mimmo Paladino, Kiki Smith, Ilya Kabakov, Anish Kapoor, Antony Gormley, Daniel Buren, Joseph Kosuth, Cai Guo Qiang, Mimmo Paladino e molti altri artisti. A questo progetto ne sono seguiti altri, il più recente dei quali, Le Città del Futuro, ha tra i suoi obiettivi la riforestazione urbana delle Città a partire da Prato, dove l’amministrazione e l’assessore Barberis stanno realizzando il progetto europeo Prato Forest City. L’Associazione Arte Continua ha commissionato a Stefano Mancuso e a PNAT una parte di questo progetto, che si raccorderà a un intervento di rigenerazione di case popolari, trasformate in sculture abitabili a risparmio energetico, o addirittura completamente passive sul piano dei consumi di materie fossili.
Mario Cristiani è anche Presidente onorario di Save the Artistic Heritage e cofondatore della Galleria Continua, insieme a Lorenzo Fiaschi e a Maurizio Rigillo.
Sono trascorsi 27 anni da quando l’Associazione Arte Continua ha inaugurato il progetto Arte all’Arte. Arte Architettura Paesaggio, nato da uno scambio d’idee con Luciano Pistoi. Come si è trasformata da un’idea in un progetto di arte pubblica, con la collaborazione delle amministrazioni comunali, provinciali e regionali?
L'Associazione Arte continua nasce nel 1990, insieme a Galleria Continua. Io avevo studiato Sociologia del Lavoro e mi sembrava indispensabile che la nostra azienda avesse una parte no profit, facendo proprio il principio di responsabilità d’impresa di cui Adriano Olivetti è stato un precursore, poco ascoltato in Italia.
L’Associazione non nasce con Arte all'Arte. Esisteva già con lo scopo di far convivere l’aspetto commerciale con quello no profit: l’obiettivo era sviluppare progetti di utilità sociale, collaborando con le amministrazioni comunali, provinciali e regionali. Questo fin dall'inizio. Sono diventato Presidente dell’associazione nel 1995 (il primo Presidente per 5 anni fu Lorenzo Fiaschi), quando ho lasciato l’incarico di funzionario nel partito dei Verdi, col quale comunque continuai a collaborare. A quei tempi avevo una doppia vita. Non sapevo se avrei fatto il politico o il gallerista. Fu la morte inattesa di Luciano Pistoi a spingermi verso l’arte. Pensando di fare il politico come assessore alla cultura alla provincia di Siena, nel dicembre 1994 avevo presentato all’assemblea provinciale dei Verdi il progetto Arte All’Arte, ma la scomparsa di Pistoi mi spinse a realizzarlo attraverso l’Associazione Arte Continua, punto ideale di contemperamento delle istanze pubbliche e private, anziché attraverso la politica. Accettare la logica dell'impresa per me era possibile solo in termini di responsabilità sociale. Questo pensavo, e penso ancora, che sia giusto sostenere attraverso la mia attività.
Da quando presi l’incarico di Presidente, iniziai a girare tutti i comuni scelti nella lettera che avevo mandato a Pistoi. Nel 1995, parlare con i sindaci di arte contemporanea e d’investimenti per sostenerla non era impresa facile. Venendo dal mondo politico immaginavo cosa poteva convincerli, per cui mi portavo i cataloghi più grandi e pesanti che trovavo, di Getulio Alviani, Giovanni Anselmo, Luigi Ontani, Michelangelo Pistoletto… Aspettavo che uscissero dal loro ufficio e poi, fino a che non mi dicevano di sì, rompevo loro le scatole tutte le settimane. E lo stesso succedeva anche con gli artisti, che all'inizio non ci conoscevano. Gli artisti aderirono al progetto perché mostrai a Getulio Alviani, il migliore amico di Luciano, il fax da me inviato a Pistoi per presentargli il progetto, sul quale lui aveva scritto a mano delle correzioni. Avevo mostrato questo fax ad Anna Palange, la fidanzata di Getulio, e a Laura Cherubini, che fu chiamata a curare la prima edizione di arte All’Arte. Avevo questo documento con la calligrafia di Luciano Pistoi: se lo avessi scritto con un computer, forse il progetto non sarebbe mai nato, perché le sue correzioni non sarebbero state riconoscibili. Luciano Pistoi è stata una persona importante per me perché, oltre ad esser veramente molto generoso, era stato capo partigiano e militante comunista, estromesso dalla pagina culturale dell’Unità in quanto sostenitore dell’arte astratta, non sottomesso all’estetica del Realismo socialista. Un’altra figura molto importante ancora oggi e stata ed è Elio Grazioli, la prima persona del mondo dell’arte che mi ha aperto la mente e gli occhi su cosa è da prendere in considerazione come “contemporaneo”. Erano due figure nel mondo dell’arte che consideravo perché avevano un'idea diversa dell'arte, molto diretta e anche chiara su quello che era contemporaneo e quello che non lo era.
Cosa hai scritto a Pistoi?
L’idea contenuta nel fax inviato a Pistoi era il frutto delle mie riflessioni sul glocalismo e sul superamento del colonialismo, approfondimento di uno dei tanti argomenti discussi con lui. Agli inizi degli anni ‘90 la globalizzazione fece irruzione violentemente in tutte le comunità di cui avevo esperienza. Specialmente nelle piccole comunità si percepiva un forte disorientamento: la delocalizzazione stava colpendo anche i vari distretti industriali della zona, molte aziende chiudevano; a San Gimignano arrivavano torpedoni carichi di turisti, che in poche ore visitavano la città lasciando molti rifiuti da smaltire. Sentivo la minaccia e la noia, mi sembrava che “acculturare la globalizzazione” fosse un modo per contrastare la distruzione di queste piccole comunità. Da una parte il turismo di massa a San Gimignano, dall’altra le piccole e medie fabbriche che delocalizzavano in altri paesi. Una forte crisi sociale, dove l'esempio di San Gimignano, che riusciva a sostenere un'economia abbastanza florida legata all'arte del passato, suggeriva di andare in quella direzione, cercando di fare altrettanto con l’arte del presente.
La questione della scala d’intervento era per me cruciale. Attraverso l’opera degli artisti internazionali cercavo di internazionalizzare anche il distretto. Infatti il progetto era Arte, Architettura e Paesaggio, ma alla base c'era l'idea di creare un distretto artistico agroambientale. Nell'Italia rurale/industrializzata operavano tanti piccoli produttori, che si occupavano di parti diverse dello stesso prodotto, in modo frammentato e in singole aziende. Questo modello produttivo, visto nel suo insieme si rivela come una grande fabbrica dispersa in un territorio, con una campagna, e un paesaggio articolato, e con una capacità di resilienza che nei momenti di crisi ha fatto sempre la differenza. Tuttavia, mancando una consapevolezza di questa capacità, la crisi spaventava. Arte all’Arte poteva suggerire il cambiamento, portare quella consapevolezza fornendo una risposta internazionale in grado di mantenere la comunità, e al contempo conservare anche l'individualità.
Ti sei ispirato alla teoria dello “sviluppo autocentrato” di Samir Amin e al glocalismo di Goldsmith?
Goldsmith frequentava i “Verdi conservatori” di Giannozzo Pucci. Nonostante non condividessi una parte delle loro idee mi affascinavano per la grande preparazione culturale: c'era una componente di Destra dei Verdi, che aveva a cuore la questione dell’identità. La componente politica da cui venivo io (dalla Sinistra) non valutava e non valuta ancora profondamente la questione “dell’identità”, il che è stato un errore. La Sinistra si buttò completamente sul globalismo, senza valutare che le persone si sentivano disorientate, senza riferimenti. La caduta del muro di Berlino venne liquidata come una passeggiata verso altri lidi. Fu la combinazione del pensiero sul ruolo dei “Grandi Intellettuali” di Gramsci con le teorie di Goldsmith sul glocalismo, e con l’idea dello sviluppo autocentrato di Samir Amin, a spingermi a coinvolgere nel progetto curatori ed artisti non solo italiani, ma già conosciuti nel mondo. La realizzazione di opere in dialogo diretto con quanto era stato realizzato in epoche precedenti alla nostra e in un vasto territorio, alimentava la speranza di fornire alle comunità e agli individui che vivevano nei piccoli paesi e nelle campagne circostanti la forza culturale necessaria a contrastare l’ondata che stava arrivando. Non volevo che le nostre comunità fossero terreno di conquista, nel senso colonialista di riproduzione di un modello culturale ed economico imposto dai grandi centri, senza nessun rispetto del contesto in cui questo modello si calava.
Mi dicevi qualche tempo fa che il progetto Arte all’Arte non ha raggiunto tutti questi obiettivi.
È così, ma la cosa positiva è l’aver permesso alle opere di rimanere nel territorio. Questo ha fatto sì che l’esperienza non sia andata persa. Questo era l'obiettivo primario. Averle lì invece di restituirle agli artisti o alle loro gallerie era un modo di salvarle nello spazio fisico abitato da tutti quelli che vivono in quei luoghi. Esse sollecitano il passante a chiedersi: “perché è qui?” Lo scopo è non farla diventare una cosa privata, ma una cosa che rimane a disposizione di tutti. Questo aspetto pubblico dell’opera d’arte mi sembra fondamentale, soprattutto ora che tutti puntano a far scomparire le cose in luoghi privati inaccessibili o accessibili solo a pagamento.
Con Arte all’Arte hai quindi messo dei concetti nel territorio e in più hai salvato queste opere, che interrogano i passanti nel luogo dove vivono.
Questo è senz’altro il punto fondamentale. Inoltre, se tu pensi in termini energetici e ambientali quali siano le conseguenze di una mostra: quando si conclude è finito tutto e le opere finiscono in qualche magazzino, o peggio in uno scantinato. Le opere di Arte all’Arte non le volevo assolutamente vendere e non era facile far accettare che il progetto non si trasformasse in un mercatino all’aria aperta, o in un museo all’aria aperta, da aprire e chiudere a una certa ora. Per impedire che questo accadesse ho dovuto faticare moltissimo e anche discutere seriamente. Per me una cosa pubblica deve essere pubblica, anche se un privato l’ha pagata. Lo spazio pubblico va rispettato, anche se nell’immediato non conviene. Alla lunga conviene sempre per tutti. Questo è un punto importante.
Mentre parlavi della cosa pubblica e quindi della funzione sociale dell’arte, ho pensato all’impegno civile che contraddistingue il lavoro di molti artisti contemporanei. In alcuni casi la loro opera si lega alla cronaca, spesso anche con la ricerca di una risonanza mediatica. Mi sembra invece che la tua idea dell’arte differisca da questo approccio “giornalistico”, mi sembra cioè che l’obiettivo del tuo progetto sia di migliorare i luoghi in cui vivono le persone, sia cioè dar forma al luogo.
Certo. L'artista è il medium di questo tipo di creazione di spazio. L’artista al quale mi sono legato di più nel tempo è Antony Gormley perché ha portato dentro il suo lavoro questa problematica. È anche necessario che l'artista sia riconosciuto, ovvero rispettato dal mercato e dal mondo degli esperti d’arte, come i curatori e i direttori di museo. Questi due aspetti, la riconoscibilità e l’impegno civico, convivono perfettamente nel modo in cui opera Antony. Dopo Paladino, fu l’artista che insieme all’Associazione Arte Continua donò tutte le opere alla città. Con altri amici artisti, Antony mi aiuta ancora oggi a sviluppare progetti di solidarietà e di rispetto dell’ambiente in varie parti del mondo. Oltre che a ispirarmi, questi artisti mi aiutano praticamente, cosa che mi rende loro grato, e anche fiducioso che sia possibile fare insieme qualcosa di buono per le future generazioni.
Riconosciuto? Ti riferisci ancora a Gramsci, alla figura dell’artista e dell’intellettuale come soggetto collettivo?
Sì, mi riferisco alla teoria di Gramsci sui grandi intellettuali di cui ti dicevo. Per me era importante che ci fosse qualcuno che è riconosciuto, che diventa un punto di riferimento per gli altri. Cercavo curatori come intellettuali riconosciuti a livello internazionale. Con i curatori poi sceglievamo gli artisti, che dovevano essere quelli che tutto il sistema dell’arte, non solo il mercato ma anche i musei, sceglieva come punti di riferimento. Avere quegli intellettuali e quegli artisti fisicamente presenti sul posto con le loro opere, per me era importante. Con la crisi dello stato sociale era, ed è ancora, difficile anche per i musei mantenere un certo tipo di standard di produzione di mostre con un livello internazionale, ma per un comune più piccolo o per strutture comunitarie più piccole è una cosa impossibile.
Il tentativo era stato anche di mettere gli artisti contemporanei in dialogo diretto con gli artisti del passato, in contatto anche fisico con chi è già lì da 1000 anni o da 500 anni. Penso che questa sia la ragione per la quale gli artisti hanno accettato di partecipare a un progetto che non aveva i mezzi economici per sostenersi: non sempre l’aspetto economico è la cosa più importante.
Mettere in rapporto l'arte antica con quella del presente allo scopo di rigenerare un tessuto urbano in armonia con il paesaggio, ovvero lanciare un ponte verso il futuro dialogando con un passato che ha lasciato segni molto forti nel territorio non è un’impresa da poco.
Quello che io speravo di fare con Arte all'Arte era che gli artisti del mondo venissero in quei luoghi per immettervi dei concetti in grado di trasformare la mentalità, favorendo un’uscita gentile dall’idea consumistica dell’usa e getta, che sembrava e sembra ancora l’unica possibilità di relazione con il mondo. Devo ammettere che rispetto alle aspettative è stata un’esperienza che è rimasta un po’ isolata nei luoghi in cui si è attuata. Questo è accaduto perché non ha potuto utilizzare una struttura generalizzata (come lo è stata la Chiesa per la pittura rinascimentale), attingere a risorse economiche adeguate e trovare l’adeguato sostegno politico. È stato un esperimento che ha portato fortuna a chi l'ha fatto, ma non ha avuto quell'impatto di scala che io speravo di innescare.
Tuttavia Arte all’Arte ha posto le basi per lo sviluppo del nuovo progetto Le Città del Futuro.
Il progetto Le Città del futuro con le case popolari a risparmio energetico come opere d’arte e la riforestazione urbana apre un nuovo capitolo. Le cose forse potrebbero cambiare se fai delle opere più grandi, più visibili da regalare a coloro che non se lo potrebbero permettere, vale a dire se operi fuori dalla logica esclusivamente di mercato, di cui però devi tenere conto, perché gli artisti coinvolti nel progetto sono quelli che il mercato maggiormente riconosce, sono cioè a quel livello di riconoscimento economico e culturale che non è puramente commerciale e che non è solamente culturale. Sono dei grandi intellettuali nel senso di cui si è detto in precedenza. Questo è il motivo per cui io ho rinunciato a vendere (non sarebbe stato difficile farlo a quei tempi, soprattutto sottobanco, era molto di moda). Per me era un principio da salvaguardare. Desideravo cioè salvaguardare un'idea che non può limitarsi a essere gestita sul piano economico e basta. Legare l’attività profit della Galleria Continua al no profit dell’Associazione Arte Continua è stato era un modo conquistare la fiducia e anche per affermare la necessità di uno scatto ulteriore, perché siamo giunti al punto di minacciare la vita di chi verrà dopo di noi e anche di tutte le altre forme di vita. Il mio professore di latino faceva il paragone tra la poesia di Orazio che ispirandosi ad Epicuro scriveva nel suo “carpe diem” della “invida aetas”, intesa come tempo continuo ininterrotto, contrapposto al “Tempus” come flusso di parti ed intervalli. Questa concezione del “carpe diem” viene ribaltata nella canzone di Lorenzo il Magnifico: “Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c'è certezza”. Il Rinascimento reinterpreta in questo senso il “carpe diem”. L’ansia del tempo, la sua accelerazione, la sua frazionabilità confluiscono nell’idea di progresso. Questa è stata una grande rivoluzione che ha modificato il nostro rapporto con la natura arrivando nei secoli seguenti a minacciare la vita dei nostri discendenti diretti e il futuro di altre specie viventi. Oggi ci troviamo prossimi ad un altro importante cambiamento e spero che gli artisti possano aiutarci a intraprenderlo. Spero che l’intreccio tra mercato, attività no profit e amministrazione pubblica sia il vettore su larga scala di questa trasformazione, come lo è stato la Chiesa cattolica per l’arte rinascimentale. Il progetto Arte all’Arte è stato un inizio, un preludio, che a un certo punto si è esaurito per vari motivi, tra i quali il fatto che non aveva la scala che sarebbe stata necessaria.
Dal 2009 l’Associazione Arte Continua ha avviato anche il progetto Arte Pollino per una rivisitazione del concetto di paesaggio. Anish Kapoor, Carsten Höller, e Giuseppe Penone, hanno realizzato opere permanenti site-specific nel contesto naturale del Parco Nazionale del Pollino, divenuto dal 2015 sito patrimonio mondiale UNESCO. La realizzazione di queste opere modifica il paesaggio e la percezione che ne abbiamo. La gigantesca giostra RB Ride di Carsten Höller, posizionata sulla cima di una collina, per esempio lo fa in modo clamoroso. Quale nuova idea di paesaggio veicola questo progetto?
Il progetto del Pollino ha un rapporto “metaforico” con quanto Gramsci scrive in una delle sue lettere dal carcere in cui parla delle casematte. Dirai: cosa c’entra Gramsci? Quando lui parla della guerra di posizione si riferisce a quando la situazione era bloccata e i cecchini si mettevano una casamatta addosso per andare a rompere il fronte. Per me la casamatta era andare nel parco con gli artisti del mondo, perché la città del futuro deve essere una città dove abbiamo un altro rapporto con la natura. Speravo che i parchi non diventassero un luogo che viene circondato dalla “periferia”, nel senso che le nuove costruzioni realizzate nei piccoli centri del parco sono la brutta copia delle periferie delle grandi città. La mia speranza era che il parco fosse l’inizio di un altro modo di stare nel mondo, dove l'artista ha il ruolo di mediare, di tradurre lo spirito del luogo e comunicarlo fuori da lì. Così facendo poteva/potrebbe mettere simbolicamente in discussione il modo in cui noi stiamo nel mondo. O cambiamo, o il problema l'avremo non solo noi, le generazioni a venire, ma anche moltissime altre forme viventi. Arte Pollino si collega a Le Città del Futuro in questo senso. Possiamo vivere dentro la natura in un altro modo, perché noi siamo parte della natura. Questi progetti sono dei tentativi di mettere in evidenza un problema. L'artista è quello che forse può sintetizzare meglio di chiunque altro. In che direzione andare? L’artista non ti dice fai quello, però poeticamente, profondamente, impercettibilmente, con un’opera indica una direzione, l’opera diventa come un fiore che si schiude e emana un profumo che ti porta in un'altra dimensione.
Bisogna però ammettere che non sempre l’artista impegnato trova una forma che sia in grado di stimolare una trasformazione.
Secondo me non ce ne sono molti di artisti in grado di esprimere al meglio il loro impegno civile, molti fanno solo cronaca, come dicevi prima. A me non interessa la cronaca. Perché cercavo questi grandi artisti? Perché dopo avere avuto una soddisfazione anche economica e di riconoscimento nel mondo dell’arte, proprio perché sono artisti, questo a loro non basta. Cercano qualcosa di più, cercano una dimensione fuori dal tempo, credo sia quello che Orazio indicava con “invida aetas”. Desiderano poter essere considerati come quella parte dell’umanità che cerca al di là dell’immediato e dalla cronaca. Come quelli che saranno ancora lì nei prossimi 1000 anni.
Non sono il tipo persona che fa il gallerista per piazzare le opere dei suoi artisti, o dimostrare che sa convincere le persone a comprare qualunque cosa proponga, o a indicare all’artista cosa fare per crescere sul mercato. Questi progetti li considero come delle possibili risposte poetiche che possono trasformare gli individui e la società, indirizzando verso un futuro più rispettoso e sensibile nei confronti di quella fragilità meravigliosa che è la vita. Mi è rimasto l’amore per la politica intesa come impegno a trovare soluzioni per le persone. Per me la cosa fondamentale è dare dignità alla vita, a prescindere dalla condizione di nascita o sociale.
Rispetto all’idea di migliorare le condizioni di vita delle persone attraverso l’aumento di valore dei luoghi nei quali vivono, vorrei chiederti se hai preso in considerazione il fatto che ormai da tempo la nostra esperienza dello spazio come luogo fisico dialoga e si completa con quella degli ambienti comunicativi del Web, ambienti o luoghi che si caratterizzano in modo inter-testuale anziché spaziale. A questo riguardo c’è qualcosa in cantiere?
Onestamente qualcosa sto cercando di fare con gli amici di Cinello e le opere in “DAW”, rendendo nuove le opere d’arte del passato, senza mettere a rischio gli originali, allo scopo di suscitare interesse e curiosità per le opere degli artisti e i musei che le conservano. Sono presidente onorario di Save the Artistic Heritage. Per me quello che conta è proprio l'esperienza fisica. Infatti preferisco la scultura. È la logica del “contrappasso” di Dante: più il mondo tende a virtualizzare più tu hai bisogno di sapere che qualche cosa è anche tua. Se non ho Google Maps per andare nei posti mi perdo, ma allo stesso tempo quando raggiungo un luogo ho bisogno di trovare fisicamente la cosa che cerco.
Parlando di mercato e arte pubblica, potresti chiarire meglio quanto già avevi detto a proposito dello scambio tra l’attività profit di Galleria Continua e quella no profit dell’Associazione Arte Continua? Come si incontrano queste due realtà sul piano economico, su quello dei contenuti e su quello delle strategie?
La mia formazione iniziale non era a favore dell'impresa, è stata una cosa che è venuta più da Maurizio e Lorenzo. All’inizio facevo fatica ad accettare questa cosa. Olivetti ha organizzato un sistema d’impresa mantenendo e sviluppando una comunità. Questa per me è la via. Olivetti ha difeso la sua impresa come noi la Galleria Continua. Faccio un esempio. Nello spazio Olivetti progettato da Carlo Scarpa in piazza San Marco, durante la 59. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, abbiamo organizzato la mostra Gormley - Fontana, curata da Luca Barbero.
Se non avessi avuto a disposizione le risorse immateriali e anche materiali, ottenute dalla vendita di altre sue opere in galleria e dall’aiuto di alcuni collezionisti, che apprezzando il suo lavoro mi hanno aiutato nel finanziamento della mostra ad accesso gratuito (ma di cui abbiamo pagato giustamente i biglietti al FAI), non avrei potuto sostenere un progetto di quella portata culturale, in quel momento così importante per Venezia. Non avrei neppure potuto chiedere al Comune di sostenere tutte le spese vista la crisi fiscale delle amministrazioni pubbliche. Così anche il progetto per Firenze realizzato con Giuseppe Penone. Il lavoro di Penone rappresentava un ponte tra la Piazza della Signoria e il museo degli Uffizi, tra uno spazio aperto e frequentato da passanti di ogni genere e lo spazio delle persone interessate all’arte. Le opere di Penone mostrano la fragilità della natura e dell’umano, l’arte contemporanea che dialoga con l’arte di ogni tempo, indicando un modo di ripensare a come si sta nello spazio della vita comune. Il museo è inteso allora non come un fortino assediato da espugnare, ma come un laboratorio/spazio pubblico di un altro modo di rispettare e riconoscere la fragilità, senza dimenticare da dove veniamo, allo scopo di portare le nostre espressioni migliori nella “Città del futuro”.
Quale sarà il prossimo appuntamento del progetto Le Città del Futuro?
Il quattro di ottobre s’inaugurerà la riforestazione urbana a Prato. Il quattro ottobre è il giorno di San Francesco. È una data simbolica perché questo Santo è stato importante per Giotto, per tanti artisti e non solo. È una figura emblematica dell’amore per il creato. Abbiamo raccolto i fondi grazie agli artisti che mi hanno dato le opere. I collezionisti le hanno comprate partecipando a un’asta di beneficenza e con una parte della somma raccolta si attuerà la riforestazione urbana, come preludio alla trasformazione delle case popolari in opere d'arte a risparmio energetico. L’albero per me è come una scultura. L'albero ti dà l'ossigeno gratis, ti permette di respirare, perciò devi rispettarlo. Fare l’equazione tra albero come ossigeno del corpo e arte come ossigeno della mente e viceversa, è un modo per invitare a riflettere sulla fragilità di noi umani e dell’ambiente e sul mondo vegetale che ci nutre senza chiederci niente. Spero che le case popolari a risparmio energetico siano l'inizio della città del futuro. Queste case popolari sarebbero di tutti, non importa quanto ognuno ha versato. Creare queste casse comuni, queste raccolte di fondi, per me è un modo per usare bene la partecipazione economica e dare un sostegno, non populista, alla comunità democratica. È un modo d’intendere la cultura come fattore di mobilità sociale, lasciando alle future generazioni un esempio di come la democrazia migliori la vita e produca bellezza, senso e giustizia. È un modo per dare valore al nostro tempo oltre il nostro tempo.
Mi avevi detto che per finanziare questi progetti ti sei indebitato. È proprio vero?
Come presidente ero e sono responsabile con i miei beni personali dei debiti dell’Associazione. Al tempo di Arte all’Arte avevo solo la casa in cui vivevo con mia moglie e le figlie, che mi hanno sempre sostenuto. Ho avuto fortuna, ho potuto studiare grazie alla conquista della scuola pubblica gratuita per tutti, uno dei tanti diritti acquisiti che purtroppo sono intaccati da una generazione che non pensa di conservarli per quelle successive.
Metterei la tua risposta a epigrafe di questa conversazione.
D’accordo.
In copertina, Antony Gormley, Making Space, Taking Place, 2004, Poggibonsi, piazza Cavour. Foto: Pamela Bralia. Courtesy Associazione
Arte Continua.