Diego, l’altro Giacometti alla Fondazione Rovati
Allo scultore svizzero Diego Giacometti il Museo d’arte della Fondazione Luigi Rovati dedica la mostra Diego, l’altro Giacometti, a cura di Casimiro Di Crescenzo, la prima in Italia interamente riservata all’artista (fino al 18 giugno 2023). L’esposizione ricostruisce il suo percorso artistico, documentandolo con oltre sessanta opere tra sculture, piccoli animali, maquettes e arredi.
Sulle strutture metalliche dei mobili realizzati dall’artista spuntano foglie, si appollaiano gufi e arpie, camminano cani e cavalli, si bilanciano come funamboli piccole figure. Egli sembra interpretare in modo plastico la pittura parietale romana del quarto stile, dove figure umane, animali e creature fantastiche si abbarbicano sui cornicioni e sui profili architettonici. Questi scenari in prospettiva sfondano le pareti per mostrare l’aria e la luce con una semplice campitura di colore. Nei mobili di Diego circolano la stessa aria e la stessa luce. Sono paesaggi abitati da arpie pronte a spiccare il volo e da cariatidi stanti, ma anche da cani che segnano il territorio alzando una zampa contro un albero. La sua è una narrazione per immagini plastiche, che interroga la memoria storica in modo fiabesco.
La scultura in bronzo Chat maître d’hôtel (1967) trasforma la dea egizia Bastet in un maggiordomo. Divinità e demoni entrano nelle case di soppiatto. Atena in forma di rapace notturno sorveglia il salotto, mentre le tre arpie Aello, Ocipite e Celeno, in agguato sotto il piano di un tavolino, attendono l’arrivo di ospiti incauti per ghermirli e trasportarli nel giardino delle Esperidi. Guéridon aux harpies (1955 circa) non è un semplice tavolino, ma un luogo arcaico scoperto dall’immaginazione dell’artista, come lo sono Table berceau aux chats (1970), con protomi feline e La promenade des amis (1976), con il cane irriverente. Giacometti scopre o inventa questi luoghi?
A differenza della scoperta, l’invenzione è per noi una creazione di ciò che prima non esisteva, ma i Greci antichi usavano un solo termine per indicare entrambe: eurisko – trovo, come se le cose inventate esistessero già da prima. Il navigatore che Diego pone sul Grande candélabre au navigateur (1965) è in viaggio alla scoperta di un passato che l’immaginazione ha il compito di trovare, e quindi anche di inventare. Nella sezione ipogea del Museo d’arte l’opera in bronzo patinato è accostata a un candelabro etrusco della metà del secolo V a.C. straordinariamente somigliante.
La mostra, articolata in quattro sezioni (Tra scultura e design, Mobili e oggetti, Bestiario, Diego come modello), s’inserisce perfettamente nell’allestimento permanente del Museo d’arte, che include una notevole collezione d’arte etrusca. Il dialogo tra reperti archeologici e opere d’arte contemporanea trova nella mostra dedicata a Diego Giacometti l’occasione per mettere alla prova l’elasticità del metodo adottato dalla Fondazione Luigi Rovati, inserendo tra le parole chiave alle quali l’istituzione fa riferimento per lo svolgimento delle sue attività (conoscenza, espansione, inclusione, creazione, spazio, estetica, relazione, utilità sociale) anche “immaginazione”. Un’immaginazione che trae ispirazione dalle fonti e che, al contempo, le cerca e le raccoglie sulla base di un’ipotesi.
L’allestimento espositivo permanente, che comprende interventi site specific di artisti contemporanei, tra i quali Giulio Paolini e Luigi Ontani, richiama alla mente anche le parole con le quali Novalis assegna all’immaginazione dell’artista un ruolo attivo nella costruzione del passato: “Essa [l’antichità] prende forma sotto gli occhi e l’anima dell’artista. I resti antichi non sono che stimoli specifici per la formazione dell’antichità” (Lavori preparatori, 445).
L’interesse di Diego per il mondo antico è affiancato da quello per il mondo animale. “Vorrei degli animaletti carini da mettere sui murets de la plaza [il terrazzamento antistante la casa di Maloja]”, scrive la madre Annetta al figlio Diego in una lettera del 26 giugno 1945 pubblicata nel catalogo della mostra (p. 170). L’interesse dell’artista per il mondo animale trova riscontro in un genere d’arte in voga nella Francia dell’Ottocento, ma le sue radici affondano nel suo sincero amore per gli animali, che osserva direttamente.
Diego scolpisce e modella leoni, volpi, topi, cavalli, cani, rane, lucertole, merli, civette, lupi, cervi, gufi e daini che, insieme ad elementi vegetali, vanno a posarsi leggeri sulle strutture dei mobili concepiti da un incontro tra la scultura e il design. Queste strutture recano nel tocco la traccia di quello sfinimento della materia che caratterizza anche le figure modellate dal fratello Alberto, di cui Diego è stato assistente e modello per quarant’anni.
Nella sezione Diego come modello sono esposti dei suoi ritratti eseguiti dal fratello, famoso per le sculture rimpicciolite e poi allungate: “rimpicciolivo la scultura per situarla alla distanza reale in cui avevo visto il personaggio che volevo rappresentare […] Ho giurato a me stesso che non avrei più lasciato rimpicciolire le mie sculture d’un solo pollice. Allora è successo questo: hanno guadagnato in altezza ma sono diventate sottili, sottili… Immense e filiformi” (Conversazione con Jean Clay, in Réalités, n. 285, Parigi ottobre 1969).
Quando oltrepassiamo con lo sguardo un oggetto situato a breve distanza questo sembra assottigliarsi. È un effetto della visione binoculare o stereoscopica, per mezzo della quale valutiamo la profondità, la posizione degli oggetti nello spazio e il loro volume. Nel lanciare lo sguardo oltre la materia che prendeva forma tra le sue mani, allo scopo di ricreare l’immagine della figura vista a distanza, Alberto avrà visto assottigliarsi le forme che modellava?
Molto è stato scritto sulla sua difficoltà a raccordare la visione frontale di una figura a quella laterale, sulla solitudine degli oggetti che raffigurava e soprattutto sul portare a poche decine di centimetri dagli occhi una figura lontana, che resta tale nonostante sia possibile toccarla. Con le sue sculture Alberto Giacometti scollega la vista dal tatto, la percezione visiva del volume dal gesto del plastificatore che dà forma al volume stesso. Mette in mostra la condizione dell’uomo moderno di fronte a una realtà incoerente e al tempo stesso anche l’indipendenza degli organi di senso rispetto a un sistema superiore in cui si integrano coerentemente. A questa indipendenza Gian Antonio Gilli ha dedicato uno studio utilizzando fonti antiche, secondo le quali, alle origini, non esisteva il corpo, ma membra sparse e vaganti. Giacometti ha forse avvertito che “ogni sensazione aveva luogo e si concludeva a livello della Parte coinvolta”? È necessario interrogare l’opera di questo artista dal punto di vista percettivo oltre che espressivo, anche per comprendere l’opera del fratello.
Lo sguardo trasognato di Alberto che si allunga “a dieci passi” o “a venti passi”, oltre la figura che sta modellando o scolpendo, ha delle analogie con quello di Diego che costruisce “pensando ad altro, per esempio a un tavolo che sta sviluppando, le cui gambe, senza che lui lo voglia per davvero, pur prendendo la forma di gambe di tavolo, si tramutano in statue” (Roger Montandon, Diego Giacometti, catalogo della mostra, Edizione Fondazione Luigi Rovati, Milano 2023, p. 12).
Nel 1925 Diego raggiunge Alberto a Parigi, dove lo aiuta a preparare le sculture da esporre al Salon des Tuileries. Dopo vari impieghi e trasferimenti da una città all’altra ritorna a Parigi nel 1929 chiamato dal fratello, che è sommerso dal lavoro. I due realizzano opere figurative e anche oggetti d’uso ideati per l’arredatore di interni Jean-Michel Frank. La produzione di oggetti d’arredo serviva sia a sostenere economicamente la loro ricerca, sia “a vedere le cose al loro posto, nel loro ambito”, in altri termini ad acquisire una visione. Lo sguardo di Diego non è compulsivo e ossessivo come quella di Alberto, è uno sguardo fiabesco e narrativo. Il Gatto maggiordomo, che regge una ciotola sul bordo della quale gli uccelli andavano a posarsi per becchettare granaglie, potrebbe illustrare una favola di Esopo che non è stata scritta.
Questo mondo di favole e miti ad uso domestico è attraversato da un fremito che corre lungo le strutture dei mobili e delle figure stremate da un febbrile lavorio plastico. Nelle sculture come lo Struzzo (1977), il Cerbiatto (s.d.) e il Lupo (s.d.) possiamo notare una corrosione, uno sfinimento della materia, un suo tendere al nulla, come anche nelle sculture del fratello Alberto. Situate “a metà fra il Nulla e l’Essere” (Jean-Paul Sartre, La recherche de l'absolu, in Les Temps Modernes, III, n. 28, Parigi 1948), le forme rastremate allo sfinimento dai due scultori sollevano interrogativi percettivi e filosofici.
La visita alla mostra, ospitata nello storico palazzo milanese affacciato sui giardini di via Palestro, offre l’occasione per riflettere sull’inquietudine nascosta nella narrazione fiabesca di Diego, sull’impossibilità di rappresentare una realtà sovrabbondante e incoerente che “scivola sotto le dita” dei due fratelli.
In Copertina, Diego nello studio di rue Hippolyte-Maindron © Pino Guidolotti.