Middle class, middle class?

3 Dicembre 2012

E si ha un bel dire middle class, a Pechino. La visione stessa del ceto medio, a me, giunge distorta: dal fatto che vivo esclusivamente dentro al recinto. Sono circondato dalla middle class (isolato, quasi, dal resto del mondo), certo più in Cina che non in Italia, dove invece ho molte occasioni per prendere l’ascensore e farmi un tour verso il basso (a dir la verità: ho solide frequentazioni fin dall’infanzia, e me le tengo strette. Valgono oro. E poi basta entrare al bar, parlare con il ragazzo che ti fa il caffè, o con chi ti fa le pulizie in casa, chi viene a tirarti giù una pianta morta in giardino: se decidi di parlarci, certo). È ovvio, il basso in Italia non è mica come il basso in Cina, o peggio in India o in altra Asia: ma la differenza di ceto in Italia c’è, si vede, e chi non la vede ha solo bambagia sugli occhi.

 

In Asia vedo (intravedo): ma finisco per restare ancorato al livello superiore. A Pechino, il confine che separa quest’alto dal basso è quasi introvabile, pensi che sia più in là (si usa dire: a cinquanta chilometri dal centro comincia il terzo mondo), ma io ancora non lo percepisco, e di conseguenza non lo supero mai. Sì, certo: ci sono gli abitanti degli ultimi hutong dentro al secondo anello, in pieno centro, in genere anziani, con i quali non spartisco nulla (un giorno in una trattorietta popolare – raviolini in brodo per mezzo euro – c’era lì una famiglia contadina, evidentemente venuta da fuori, facce rubizze di chi vive nel gelo di qualche tundra settentrionale, un neonato al tavolo, e molte paia d’occhi puntate su di noi, come fossimo fantasmi: ma son loro che ci guardano), e io per ora li vedo poco i cinesi non middle class: andrò in campagna, a cercare di capire (devo incontrare un giovanissimo autore, Zhou Kai, nella sua cittadina di provincia: ma fa tre milioni di abitanti!).

 

Con gli anziani degli hutong – va chiarito: un bel pezzo del centro di Pechino è ancora com’era cinquant’anni fa: case basse in mattoni grigi, in genere case di corte, cioè organizzate con quattro blocchi a formare un quadrato attorno a uno spazio aperto, case senza fognature (ci sono frequentissimi bagni pubblici, puliti e ben tenuti), case difficili da riscaldare, disposte lungo viette strette che si aprono a partire dalle arterie principali: lungo queste passeggi tra negozi che ti tengono nella modernità (nella middle class), ma ogni cinquanta metri la stradina perpendicolare entra nell’hutong: uno spazio differente, alieno. Per entrare in contatto con questi più anziani abitanti degli hutong, con queste classi inferiori, farei bene a imparare a giocare a majong, nelle salette piene di fumo, o dovrei provare a ballare con le donne nelle piazzette la sera (che strane: in file e righe ordinate, gesti leggeri mezzo Tai Chi mezzo balletto da realismo socialista, pochi uomini qua e là: trovi queste ballerine dappertutto), o a tirar calci a quelle loro strane palle piatte con le piume, una cosa a metà tra il footvolley e il badminton, in cerchio a palleggiare e passarsi l’affare, uomini e donne assieme.

 

In ogni caso il confine qui è difficile da individuare, meno netto che in India, forse per la dignità dei più poveri, o perché la loro esistenza riesce a essere in ogni modo confortevole, protetta, quindi appunto dignitosa: perfino i lavoratori dell’edilizia, che sempre sono immigrati temporanei dalle campagne, hanno, dentro al cantiere, i loro dormitori prefabbricati, con i servizi igienici: li riconosci dalla scorza, da quella pelle del viso indurita come legno, e quando siedono per strada a consumare i loro pasti non leggi miseria dentro ai loro occhi – povertà sì, certo.

 

 

In India il confine è invece sempre palpabile, e sei costretto a superarlo spesso, immergendo i piedi in liquami ignoti lungo la strada, e hai il naso impregnato di quell’odore misto tra curry e fogne: e la gente la tocchi, per strada, spalla contro spalla, e i guidatori del motorisciò hanno gli occhi sgranati di chi sta facendo fatica a vivere, sguardi estenuati e come in preda a una sorta di terrore: e questa è una fatica che la middle class vede da vicino, gomito a gomito, ma si abitua a guardare da lontano.

(A Singapore invece tutto è middle class: semmai vedi spesso roba più in alto: Maserati, Lotus, Ferrari, la massima concentrazione per km quadrato al mondo. A Kuala Lumpur vedi le razze, della middle class, e sai che fuori, in campagna, ci sono i contadini, non poverissimi, e comunque reclutati alla quotidiana lotta piccolo borghese tra una etnia e l’altra: schema caro all’Europa, dei Balcani come della Val Padana: lotta per il potere, volatile e mercenario: il potere è una puttana, in Europa, e in Asia.)

 

L’impressione di onnipresenza, di omogeneità nel ceto medio, come se tutti fossero uguali, è un inganno italiano, occidentale. Così come la stessa definizione nostra, di ceto medio (penso a quello di sinistra ad esempio, intellettualizzato: manco lo vede, chi sta sotto. A proposito di scrittori: leggo una bella intervista del pur ottimo Lagioia all’Huffington Post, parla della sua generazione, precari e ipersfruttati: ma lui l’ha capita la differenza tra un laureato come lui, e chi invece ha cominciato a lavorare a sedici anni?).

 

E allora ben venga la middle class asiatica, ben venga questa full immersion perché la sua relatività, la sua qualità di mondo a parte è comunque percepibile, qui: il ceto medio asiatico è un Altro simile a me, che mi costringe a guardarmi dentro, a capire chi sono io, chi siamo noi: ci fa da utile specchio. Qui si impara anche come è fatto il nostro, di mondo, qui si disvela. Anche perché loro, la propria cifra di ceto a parte la percepiscono di sicuro: chi c’è appena arrivato e teme di perder posizione, chi sta e alza barriere, chi tronfio declama il suo status, chi zitto zitto  se lo gode.

E quindi certo, è ovvio: se io qui scrivo di scrittori scrivo della middle class. Senza nemmeno nominarla, essa: è data, è il sottotesto inesorabile di ogni storia, gonfio come un’alluvione, roboante fiume sotterraneo che i più bravi nemmeno han bisogno di menzionare. 

 

Poi un giorno, mi trovo a parlarne con Zhu Wen.

Che comincia un suo discorso (seduti in casa sua, che è sorprendentemente un bell’appartamento ampio, luminoso, dentro a un compound – un quartiere residenziale chiuso – kitsch come più non si potrebbe: le case ai lati dell’ingresso costruite con l’architettura del Louvre, in piccolo, e dietro la cancellata un largo giardino rettangolare con un labirinto a siepe bassa, un tempietto neoclassico circolare, e in fondo la sagoma, in proporzioni ridotte, dell’Arco all’Etoile, come fossimo dentro le Tuileries: mi dicono che molti dei quartieri esterni – qui siamo oltre il quinto anello, saranno trenta chilometri dal centro – sono così: e ti puoi scegliere anche il mattoncino rosso all’inglese, o uno stile più mitteleuropa – ma all’interno l’appartamento di Zhu Wen e della sua giovane e simpatica moglie è bello, armonico, c’è uno studio in parquet, pieno di libri e legno, un salone disegnato dallo stesso Zhu Wen con vasto utilizzo del suo elemento prediletto: il rame).

 

Zhu Wen mi dice: ma in Cina non puoi dire che esista davvero una middle class.

Oibò!

Sì, continua lui. Perché la middle class c’è nel reddito, nello status. Ma non nella cultura, non nella mente delle persone.

 

Fatico un po’ a capire cosa intenda comunicarmi. Lo contraddico: io la vedo la middle class, l’abbiamo vista in coda poco fa sul sesto anello che tornava dalla gita domenicale in auto fuori porta, l’abbiamo vista a zonzo nei centri commerciali. Zhu Wen insiste: non ha la testa. Se gli occidentali pensano di relazionarsi con questa middle class come fosse la loro, sbagliano. E la pagano cara.

Mi mette sotto il naso un libro: Mr China, di Tim Clissold. Questo tale era un investment banker di Wall Street che sbarcò in Cina a fine anni novanta pensando di costruire un fondo in loco, e sfruttare la potenzialità di crescita del paese. Il libro racconta la sua sconfitta: a fronte, dice Zhu Wen, della insondabilità e inaffidabilità dei suoi interlocutori cinesi (un po’ la stessa cosa di quando a me han detto: non provarti a fare affari nell’editoria in Cina: ti faranno a pezzettini).

 

Ora capisco: Zhu Wen (che però – devo dirti, amico mio – ha un’opinione forse troppo alta della nostra, di middle class, come fossimo un po’ dei lord) ritiene che i cinesi non abbiano ancora trovato le forme del comportamento (civile? mah), del ceto medio.

Insomma: la middle class cinese è quella che lui, Zhu Wen, descrive nei suoi libri: di una strampalata ferocia, distruttiva e autodistruttiva, incapaci gli uni di relazionarsi con gli altri, senza regole e senza bussole, destinata a schiantarsi, e a mandare comunque fuori strada chi solo provi a sfiorarla. Questo è ciò che Zhu Wen mi vuole dire.

 

Fratello (noi ci chiamiamo così), sono d’accordo: io la Cina la conosco ancora poco: ma capisco quanta verità e PRECISIONE (sì: precisione, perché è questa l’etica dello scrittore) ci sia nelle tue storie. E ti dirò: mi stupisco, sempre, nel non ritrovare la stessa onestà e verosimile descrizione della gente di Cina, degli urbanizzati antichi e recenti del Paese di Mezzo, nella maggior parte delle opere degli altri scrittori: quelli delle generazioni che ti precedono e quelli che vengon dopo di te.

 

E mi dice, il mio fratellino Zhu Wen, che nel suo futuro prossimo c’è, ce la vuole mettere, una storia come quella di Mr Cina.

La aspetto.

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