Non uno è simile all'altro / Il pino cinese

23 Febbraio 2020

Dicembre a Pechino: prima dell’epidemia. I giardini imperiali non sono al loro meglio. Niente peonie né winsterie fiorite. Ma osservo i pini tabulari (Pinus tabulaeformis Carr.) vecchi di secoli piegati a simbologie recondite, e le rocce porose collocate a imitazione dei paesaggi naturali o issate su piedistalli come sculture da ammirare. Non mi appassionano. Certo, bisognerebbe tornare in primavera o in autunno per poterne avere un’idea compiuta.

Ma, tra i padiglioni, mi sorprende il biancheggiare d’un tronco. Toh! – mi dico – come sono calcinati i platani in Cina. Sollevo il muso e, no, non è un platano. Ma un pino slanciato dai lunghi aghi sottili. Bellissimo. So già che sarà la mia cartolina di Pechino, l’immagine che mi porterò a casa, con quella degli spazzini che, devotamente, raccolgono le foglie cadute in ogni spazio pubblico.

 

Mi sono documentata: è un Pinus bungeana Zucc., l’abbreviazione sta per Zuccarini, Joseph Gerhard Zuccarini (1797-1848) che per primo lo descrisse. Il botanico tedesco, docente dell’università di Monaco di Baviera, collaborò con Philipp Franz von Siebold, il medico e noto studioso della flora giapponese. Conifera rustica, originaria delle montagne del Nord della Cina, non teme il freddo rigido né il caldo asciutto; di crescita lenta, può raggiungere i 30 metri di altezza. Segni di riconoscimento: aghi persistenti riuniti in gruppi di tre che in primavera emanano un sentore di trementina, strobili ovoidali di 5-8 cm con squame dagli umboni ricurvi e, appunto, la corteccia che si sfoglia in placche tonde nei toni prevalenti del grigio-azzurro, e che negli esemplari adulti si fa di quel bianco latte così charmant. Su su fino ai rami più alti, l’albero pare percorso nelle sue vene da un fluido luminoso che innerva la chioma aperta, leggera, non compatta né folta.

 

 

L’indubbio pregio estetico lo ha reso un’essenza eletta a protagonista non solo nei giardini della Città Proibita. Un grande e vetusto esemplare si erge imponente all’ingresso della Città Rotonda (Tuan Cheng), l’ampia piattaforma murata che s’affaccia sul Lago Settentrionale. Lo chiamano il “Generale vestito di bianco” da quando l’imperatore Qianlong (1734-1796) così lo battezzò; ma secondo la leggenda fu piantato addirittura durante la dinastia Jin (1115-1234). L’ho visto riverberare di oro rosso nella luce del tramonto, indimenticabile. 

In Cina i pini simboleggiano longevità e tenacia, sono presenze obbligate nei giardini classici insieme al bambù – entrambi dalle fronde sempreverdi – e al Prunus mume dalla precoce fioritura: gli antichi paesaggisti li chiamavano i “Tre Amici d’inverno” perché erano una risorsa irrinunciabile nei mesi di penuria ornamentale. 

 

 

Sono molte le poesie cinesi dedicate nei secoli ai pini, ma tra quelle che conosco nelle troppo scarse traduzioni italiane ve n’è una che mi pare davvero un capolavoro: è una questione di sguardo e di anima. Il poeta Po Chu-i (772-846 d. c.), il più popolare dell’epoca T’ang la cui fama giunse anche in Giappone, guarda ai suoi pini non solo con la dovuta attenzione ma come a vere presenze. Per poterne godere cambia casa, tra l’incomprensione dei vicini. E per significare l’importanza che per lui rivestono usa due espressioni di Confucio: sono «amici vantaggiosi», e soddisfano al suo bisogno di «parlar con uomini seri». 

 

 

I pini nel cortile

 

Sotto alla sala

crescono i pini

di fronte alla scala;

sparsi senza una regola,

non in filari ordinati,

ce n’è degli alti e dei bassi,

il più basso è di dieci piedi.

Sono come creature selvatiche,

non si sa chi li abbia piantati.

Toccano coi rami il muro

della casa dai tegoli azzurri;

le radici scendon profonde

nel terrazzo di rena bianca,

e di mattina e di sera

li visita il vento e la luna.

Sia pioggia o sereno, son liberi

sempre da fango e da polvere.

Nelle tempeste d’autunno

sussurrano un verso vago;

contro il sole d’estate

ci prestano un’ombra fresca.

Nel colmo della primavera

una pioggia sottile a sera

riempie le loro foglie

d’un carico di perle pendule;

e alla fine dell’anno

il tempo della gran neve

stampa sui loro rami

una trina di giada lucente.

Delle quattro stagioni

ciascuna ha il proprio carattere;

e fra gli alberi tutti

non uno è simile all’altro.

Un anno fa, quando seppero 

che compravo questa casa,

i vicini mi deridevano

il Mondo mi disse pazzo.

Che un’intera famiglia

di due volte dieci anime

debba fare uno sgombero

a causa di qualche pino?

Ora che li ho raggiunti

che m’hanno dato i miei pini?

Hanno soltanto disciolto 

i lacci delle mie cure.

Eppure, anche così

sono «amici vantaggiosi»

e soddisfano il mio bisogno

di «parlar con uomini seri».

Ma quando considero come

corro fra il fango e la polvere

tuttora uomo di mondo,

con Cinturone e Berretto  [insegne del potere]

di tanto in tanto il cuore

brucia dalla vergogna

perché non mi sento degno

padrone di questi miei pini.

(Liriche cinesi 1753 a. c. – 1278 d.c., a cura di G. Valensin, Einaudi 1963)

 

 

Questa poesia è quanto di più alto sia mai stato scritto in onore degli alberi. È l’elogio di un saggio poeta cinese ai suoi pini, la cui silenziosa presenza lo inchioda al confronto con la propria esistenza di funzionario pubblico, spesa nel commercio con il potere e i suoi vizi. 

Dalla Cina ci sono giunti e continuano a giungere tesori da cui dovremmo, senza alcuna paura, lasciarci contagiare.

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