Il modo (verbale) del tempo / Sarà
Non c’è sortita comunicativa pubblica, oggi, che linguisticamente non sia marcata e qualificata da verbi al futuro. Per formulare presagi fausti o più spesso infausti, in ogni campo della comunicazione e per qualsivoglia tema, come si trattasse di un’erba infestante (e di un’erba infestante in verità si tratta), è tutto un rampollare di “si produrrà”, “succederà”, “appariranno”, “crescerà”, “diminuirà”, “finirà”, “arriveranno”, “sparirà”, “aggiungeremo”, “servirà”, “scenderanno”, “avremo”, “saranno”, “diventerà”, “sapremo”, “costringerà”, “vivremo”, “si chiuderanno”, “capiremo”, “verrà”, “si esauriranno”, “si innalzerà”, “mancheranno”, “abbandoneremo”, “esporrà”, “bruceranno”, “colpirà”, “salirà”, “elimineranno”, “creerà”, “toglierà”, “tratteremo”, “spingerà”, “seguiranno”, “potremo”, “dovranno”, “organizzeranno”, “manterranno”, “esisteranno”, “escluderà”, “distruggerà”, “assicureranno”, “si aprirà”, “eleverà”, “forniranno”, “sfuggiremo”, “fuggiranno”, “fermerà”, “estenderemo”, “giungerà”...
Intorno a tali predicazioni e alle mille e mille altre comuni metta ciascuno gli argomenti che preferisce, ad libitum. Avrà così ampia prova, sempre che voglia, che non c’è niente di più presente del futuro allo spirito del tempo. Insomma nel futuro ha il suo cardine la corriva ideologia odierna nelle sue molteplici istanze, talvolta solo superficialmente contrapposte. Le consapevoli, ammesso qualcuna lo sia, così come le innumerabilmente inconsapevoli, le poche dichiarate così come le tante dissimulate, le probe, se ce ne sono, così come le disoneste e ineliminabili. La loro espressione lo attesta inconfutabilmente.
E mentre si prestano di solito pensose attenzioni pubbliche alle parole, moraleggiando, non si ha la finezza di cogliere della lingua del tempo uno di quelli che Edward Sapir, giusto 99 anni or sono, chiamava “concetti grammaticali” e sulla scia di Wilhelm von Humboldt attribuiva alla “forma nella lingua”.
Meglio delle parole, l’abnorme proliferare di discorsi al futuro procura a chi sa la percezione chiara e distinta del fatto che la temperie trova nella previsione, o forse meglio nella profezia, nella divinazione, nel vaticinio il suo discorso caratterizzante.
In chi, sapendo, osserva spassionatamente, la circostanza non può non suscitare una composta ilarità. Si attaglia finalmente a un’epoca, la moderna, che, armata come una definitiva Minerva, s’era presentata secoli or sono nelle vesti di risentita accertatrice della realtà e nemica delle fole di aruspici e fattucchiere. Oggi, nella sua fase di putrefazione (tale pare a chi detta questa nota), essa si è fatta (presunta) accertatrice di una “realtà aumentata”, se così si può dire parodisticamente grazie a un’espressione formulare comica almeno quanto lo è “intelligenza artificiale”.
In effetti, quando si parla di verbi, il futuro viene rozzamente presentato nel suo esclusivo valore temporale dalle grammatiche (e non solo dalle scolastiche). Un’analisi linguistica solo un po’ più approfondita ne rivela però un più generale valore modale. Al futuro ricorre ciò che non è in atto, che non è reale. Che lo sarà, bene o mal che vada, ma che appunto non lo è.
Se così non fosse, sarebbe inspiegabile il comunissimo e nativo “Sarà…” che è certamente capitato a ciascuno di proferire (e più di una volta) come manifestazione di incertezza, se non di perplessità e perfino di scetticismo davanti affermazioni altrui giudicate prive di un’evidenza schiacciante e sospettate d’essere ciarlatanesche.
Il futuro è quindi un modo dell’irrealtà (non il solo, peraltro) e da tale valore sortisce e si specializza il suo uso temporale, non solo diacronicamente. E chi non ammetterebbe che il riferimento temporale del futuro si colloca irrefragabilmente nell’ipotetico? Davanti a un “Pagherò”, chi non si sente confortato meno di quanto non lo sarebbe dal danaro in cassa? E quanti “Ti amerò in eterno” alla prova della realtà hanno meritato, meritano e sempre meriteranno pietosi sorrisi?
Dal privato al pubblico. Dove sono oggi la felicità e la libertà dal bisogno promesse agli esseri umani come future da moderni sistemi politici e economici frattanto miseramente naufragati? E, restando al patrimonio nazionale, per dire così, cosa dovrebbero avere insegnato a Italiani e Italiane futuri memorabili come “...e vinceremo!”, “Spezzeremo le reni…”, “Li fermeremo…”?
Si spera siano così un po’ meno oscure le attitudini morali e politiche che il futuro veste d’elezione, se non sempre alla perfezione. Sono attitudini forse meno inattuali di quanto non sembri, per via di modi meno brutali di quelli di un tempo, ma tra (inclinazione al) futuro e lingue totalitarie il rapporto non è accidentale.
Ciò che vale il futuro in riferimento al tempo trova d’altra parte una descrizione popolare, ma non per tale ragione imprecisa o volgare, nel ritornello di “Que sera sera”, canzonetta novecentesca celeberrima, composta per The man who knew too much dell’inglese Alfred Hitchcock, un film del 1956 nel plot del quale svolge una funzione di rilievo. Come usava un tempo, essa prospetta le successive esperienze generazionali in un ordine circolare di ripetizione: “When I was just a little girl… When I grew up and fell in love… Now I have children of my own…”. E trova il suo sigillo e la sua morale in una sentenza: “the future’s not ours, to see”.
A tale morale si oppone con ogni evidenza la mentalità dell’andazzo corrente, che vede il futuro come fosse presente e reale e assai meglio di quanto non veda il passato, che non è più reale ma perlomeno lo è stato. Afferma di vedere il futuro, e non c’è da stupirsene, l’eterna e consueta torma degli imbonitori e delle imbonitrici. Ma sostengono di farlo in scienza e coscienza anche fior di uomini e donne d’onore, oltre che di dottrina indiscussa. Quindi è così. O sarà?