Guerre di nomi, in politica

1 Giugno 2024

Qui si scrive sui nomi che prendono e usano nella loro attività politica donne e uomini e si riflette linguisticamente sopra i modi con cui la questione si presenta in una specifica temperie nazionale.

Mani avanti: lo si fa con consapevolezza del dibattito che la questione generale della nominazione pubblica ha da anni suscitato in sede nazionale e internazionale, nei termini di una differenza, se non di una discriminazione e svalorizzazione di un genere rispetto all’altro. Ma lo si fa anche con l’ipotesi, se non proprio con la convinzione che, nei casi in discussione, i termini del dibattito generale non siano qui di grande pertinenza.

Le persone politiche prese in considerazione non figurano infatti come oggetti di nominazioni adottate da altri o da altre sulla base di luoghi comuni e di pregiudizi, ma come soggetti di scelte onomastiche precise che le riguardano e che si può dire fungano, nella loro azione politica, da mosse tattiche e, in alcuni casi, strategiche per l’ottenimento di simpatia e di consensi.

D’altra parte, nelle contese della vita pubblica, in ogni suo aspetto, e quindi in quelle politiche (oltre che ovviamente nelle economiche e commerciali), se ben adoperato, il nome è una risorsa della massima importanza: un’arma vera e propria. I like Ike fu il celebre slogan che, nelle elezioni presidenziali americane del 1952, contribuì decisamente al successo di Dwight Eisenhower: Ike, il suo nomignolo, divenne un nome efficacissimo nella battaglia politica e chi sa qualcosa di linguistica certamente non ignora che a quello slogan Roman Jakobson dedicò pochi anni dopo la sua acuta attenzione.  

Il think tank cui, ragionevolmente, è oggi affidata la cura dell’espressione e della comunicazione di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana e presidente del partito politico Fratelli d’Italia, si è di recente segnalato per una questione onomastica. Gli elettori e le elettrici si recheranno tra qualche giorno alle urne, per il rinnovo delle rappresentanze politiche e nazionali nel Parlamento europeo. Meloni ha deciso di proporsi come capolista di bandiera del suo partito su tutto il territorio nazionale e sulla scheda elettorale sarà indicabile anche con il suo nome personale. Nella contesa, Giorgia ha preso la funzione di nome politico ed è il suo nome politico per eccellenza. A conferma, appena annunciata la candidatura, le città sono state riempite di manifesti in cui si legge Con Giorgia / l’Italia cambia l’Europa.

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©Presidenza del Consiglio dei Ministri, CC-BY-NC-SA.

Da parte di Meloni e di chi la consiglia in proposito, la scelta del nome personale come nome politico non è una novità: è un elemento caratterizzante della mise da lei adottata nella vita pubblica e nell’agone politico. Per il caso recente, si può parlare solo di un ribadimento. Pochi anni or sono, l’esordio dell’attuale brillante fase della carriera di Meloni era stato appunto segnato dalla pubblicazione di un libro il cui titolo suonava Io sono Giorgia e il sottotitolo Le mie radici, le mie idee: una vera e propria rivendicazione del suo nome personale e della sua singolarità nella vita pubblica. Il presente ribadimento ha ragioni tattiche, ma hanno forse un valore strategico e cadono quindi fuori della contingenza quelle che animano alla base e complessivamente una scelta onomastica così marcata.

Le ragioni tattiche sono facili da individuare. La politica italiana tende da parecchi decenni e ormai irreversibilmente verso la personalizzazione e, al momento, in occasione delle ormai prossime elezioni per il Parlamento europeo, Meloni ha in proposito due principali (se non esclusivi) concorrenti. Una è la segretaria del Partito democratico Elly Schlein, esterna alla coalizione politica di cui Meloni è alla guida. Uno è invece interno a quella coalizione: Matteo Salvini, il segretario federale della Lega.

Il nome politico del segretario della Lega è il suo cognome: Salvini. Esso compare nel simbolo che gli elettori troveranno sulla scheda. Si tratta di un modo di presentarsi diventato usuale nella politica nazionale con l’avvento della cosiddetta Seconda repubblica. Ne fu pioniere Silvio Berlusconi.

Anche dopo la morte del titolare, il nome Berlusconi compare del resto come elemento chiave della comunicazione della campagna elettorale dei nostalgici epigoni: i Berlusconidi, verrebbe fatto di dire. Forse ancora di qualche efficacia, il brand è tradizionale e ormai appannato. Il suo (ab)uso può inoltre avere un effetto paradosso per coloro che lo praticano: qualificarli appunto come orfani e orfane ancora in lutto e inconsolabili, per la perdita. Difficile dire che sia un viatico ben augurante. Il passato e la memoria, in politica, non sono quasi mai di buon auspicio.

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Pur essendo ancorato al contrario a un vivo e a tratti molto irrequieto presente, Salvini è nome politico conforme al modello di Berlusconi e tale modello vige da gran tempo, in politica. Con l’uso del cognome, come nome politico, si può infatti andare parecchio indietro. Fermandosi alla storia recente, le contese politiche della Prima repubblica vedevano contendenti qualificati esclusivamente dal cognome: De Gasperi, Togliatti, Nenni, Fanfani, Almirante, Malagodi, Anselmi, Andreotti, Iotti, Moro, Craxi, Berlinguer e chi più ne ha più ne metta.

Né ai designati e alle designate, né alle relative forze politiche, che facevano da tetto a tali nomi personali, passava certamente per la testa che, nella vita pubblica di allora, potesse scendere in campo un Alcide, un Palmiro, una Nilde, una Tina, un Amintore e così via: per politici e politiche di professione, come erano tutti e tutte costoro, ne avrebbe scapitato anche l’immagine di seria professionalità. E se qualcuno, nei media, ricorreva per esempio a Bettino, si può stare certi che non lo faceva all’interno di uno scritto elogiativo o di sostegno al designato.

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Nilde Iotti © Camera dei deputati.

Quanto alla Lega, nel mutare della sua complessiva ragione sociale, con cognomi si è proceduto, si procede e, ragionevolmente, si procederà: Bossi, MaroniZaia... Non è senza rilievo, in proposito, che la Lega sia oggi ciò che un dì, e fin che visse, era il Partito Socialista: la più vecchia delle compagini politiche presenti sulla scena. Dal punto di vista dei nomi, la Lega olezza così di Prima repubblica.

Va d’altra parte detto che al suo segretario federale l’accesso a un uso politico del suo nome personale, Matteo, è sbarrato dalla presenza in campo di un altro Matteo, che di cognome fa Renzi ed è comunicativamente molto ingombrante, in barba alla striminzita pattuglia che si trova a capeggiare. Per aggiungere dunque una quota di emotività comunicativa alla sua figura, a Salvini resta solo un’antonomasia: il Capitano. Nulla che si possa spendere fuori del suo movimento, come è facile intendere.

Sul fronte politico opposto a quello di Giorgia, come si è detto, primeggia Elena (Ethel, per secondo nome) Schlein (il verbo non è forse il più adatto a descrivere una situazione piuttosto confusa, quanto alla leadership del partito e dell’eventuale coalizione). Da quando è comparsa sul rettangolo della vita politica nazionale, Schlein è anche regolarmente e rivendica di essere Elly, in politica, foneticamente [ˈɛlli]: è il vezzeggiativo con cui viene di norma nominata e che perciò molto per tempo è stato proposto come praticabile anche in sede di voto.

Che le funzioni di segreteria del Partito democratico siano assolte da una persona con un nome politico siffatto è un’autentica rottura, se osservata alla luce della storia dei due principali partiti in cui l’attuale forza politica affonda le sue radici: Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano.

Questo secondo, morto Palmiro Togliatti agli inizi degli anni Sessanta, chiuse la fase in cui, per la designazione della sua guida, aveva potuto vigere e prosperare il Migliore, un’antonomasia di conio resistenziale che, instauratasi la Repubblica, mai aveva però avuto un uso ufficiale (erano altri tempi).

D’altra parte, la novità rappresentata da Elly si iscrive alla perfezione in un andazzo ormai consolidato quanto all’uso dei vezzeggiativi in italiano (e anche quanto alla loro formazione; per amatori e amatrici dei temi onomastici, se ne dice di più in un paio di capitoli del mio Fare nomi).

La classe di età cui Schlein appartiene si è fatta campionessa di tale andazzo, estendendo conformisticamente l’uso di forme scorciate fuori dei contesti famigliari, amicali, affettuosi e sentimentali o, in genere, informali, dove un tempo le si trovava. Nel discorso pubblico, il mondo dello sport e dello spettacolo è stato il primo e da gran tempo a ospitare la novità. La politica si è posta sulla scia. Nel vezzo onomastico di Elly dovrebbe specchiarsi insomma un rilevante segmento dell’elettorato ideale del Partito democratico guidato da Schlein, costituito da tanti e tante Ale, Fede, Simo, Anto, Vale, Moni, Gabri...

Elly permette d’altra parte di trascendere caratteri di Schlein che, ove il cognome fosse il solo disponibile a un uso politico, si rivelerebbero comunicativamente discutibili. S’era d’altra parte ventilata la possibilità che il cognome della segretaria entrasse addirittura a fare parte del simbolo elettorale del partito, secondo il modello che vede adoperati alla bisogna Berlusconi e Salvini, ma la proposta, molto criticata all’interno della formazione politica, è rapidamente rientrata.

Senza suonare tipicamente italiano, Schlein consiste in realtà di una sequenza di elementi tutti presenti nell’inventario dei foni italiani: [ʃ] è il primo fono di scia; [l] il primo di luna, [a] il primo di ara, [j] il secondo di piano, [n] il primo di nano. L’insieme comporta però una combinazione tra i primi due, [ʃl], inusuale nello standard italiano (comune, per esempio, in tedesco).

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©Andrei Eduard Huiala.

Molti parlanti (anche colti) finiscono così per risolvere la difficoltà, proferendo [zl] (come in slancio) o [sl] (come in slide, nella pronuncia anglosassone). Queste non sono oscillazioni compatibili con una comunicazione politica pienamente efficace: Schlein può veicolare, senza che lo si voglia, incertezza e ambiguità (oltre che invitare a menzioni parodistiche). A ciò si aggiunga, quanto al dittongo, la discrepanza tra scritto e orale: tipica anche questa del tedesco e, nuovamente, estranea all’italiano, in cui non c’è vocale che non si pronunci come essa è scritta (la formulazione non è scientificamente corretta, ma qui coglie il succo: le si conceda questo limitato corso).

Ponendo in relativa ombra il cognome, per Elly Schlein pare quindi preferibile scendere in campo come Elly. Il giovanile esotismo della combinazione di nome e cognome l’ha certamente premiata, anni fa, nella corsa alla segreteria del suo partito. Vi si trovò a contendere con Stefano Bonaccini, dal nome fin troppo banale e, al confronto, esageratamente lungo, per un efficace uso comunicativo: sette sillabe contro le tre del nome contendente, proferibile in un attimo. In quella occasione, il successo di Schlein si produsse anche, se non soprattutto, in funzione di un elettorato di opinione che, ideologicamente e umanamente incline al wishful thinking, vide nel nome il segno dell’avvento di una segretaria politica che, alla novità del genere, aggiungeva il pregio di essere, al tempo stesso, italiana e non italiana: Schlein è in effetti titolare di tre diverse cittadinanze.

In una contesa con un elettorato che va ben al di là di uno stagno tendenzialmente esterofilo e che, liquido in funzione della distinzione tra destra e sinistra, comporta al contrario ampi settori anche apertamente nazionalisti, non è detto che Elly Schlein resti un atout. Già all’interno del cosiddetto “campo largo”, induce a pensarlo il sempre incerto esito del confronto che Elly (Schlein) ingaggia giornalmente con Giuseppe Conte: non lo si è mai notato, forse, ma, opposto a quello della segretaria del Partito democratico, è questo il nome più “qualunquemente” italiano, se così si può dire, dell’attuale contesa politica. Ed è perciò adatto al Movimento del quale Giuseppe Conte si è trovato inopinatamente a capo.

In un quadro complessivo del genere, si iscrive allora Giorgia, con i suoi forti tratti caratterizzanti e oppositivi. Diversamente da Salvini, freddo cognome, Giorgia è un caldo nome personale. Diversamente da Elly, nome personale come morbido vezzeggiativo, Giorgia è un nome personale intatto e paradigmatico, serio e privo di sdolcinatura.

Ancora: come cognome, Salvini non è sensibile al genere grammaticale (l’italiano non è il russo…): il genere di Salvini va eventualmente ricavato dal referente. Pur nella differenza, lo stesso può dirsi del vezzeggiativo Elly, che per la morfologia nominale italiana è un nome privo di indicazione di genere grammaticale, in linea del resto con i sopra menzionati Ale, Vale, Fede e così via. Alla luce dichiarazioni della segretaria del Partito democratico sulla sua vita privata che, per via di quelle dichiarazioni, è diventata un elemento della sua figura pubblica, l’indeterminazione suona d’altra parte appropriata. C’è da chiedersi eventualmente quanto sia elettoralmente efficace.

Unico dei tre nomi politici in questione, Giorgia è al contrario sensibile al genere grammaticale. Come nome personale dalla tipica morfologia italiana, il suo genere femminile è apertamente esibito dalla desinenza. Ed esso coincide con quanto si ricava dal referente. Insomma, ammesso che ciò abbia importanza in funzione dell’elettorato, ma qui si opina appunto che l’abbia per il think tank menzionato in esordio, fra i tre nomi politici in contrasto, la sola proposta univocamente femminile è Giorgia. Ed è forse un non trascurabile vantaggio.

Giorgia, mise onomastica di Meloni nell’agone politico, ha dunque ragioni tattiche, ma, come si diceva, forse ne ha anche di strategiche. Concludendo, vi si accennerà brevemente.

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Il cesarismo è un modello politico autoritario basato sul potere di una persona (un tempo si diceva “un uomo”) forte e pronto a diventare un regime, una volta trovato l’appoggio di ceti sociali conniventi e di corpi separati delle stato. Nell’Evo moderno, trovò la sua prima e maggiore realizzazione con Napoleone, campione ideale di un numero imprecisato di epigoni. Nella storia dell’Italia unita, il cesarismo ebbe una clamorosa epifania ora è un secolo e, fattosi regime, una durata ventennale: con suoi specifici caratteri, fu detto fascismo.

Il suo esito, come si sa, fu tragico per la nazione, da ogni punto di vista. Prima, soprattutto moralmente, nella sua vita sociale interna (degrado culminato con la promulgazione delle cosiddette Leggi razziali), poi, sullo scenario internazionale, con la rovinosa partecipazione a un’avventura bellica sciagurata, che ridusse l’Italia allo stremo.

Con il partito che l’ha eletta a sua guida, Meloni non ha mai fatto mistero di trovare le radici del suo impegno politico pubblico nell’ideologia che prese il potere in Italia un secolo fa. Ha anzi rivendicato questa caratteristica, dicendo che, nell’attuale agone politico, la sua parte è anzi rimasta la sola ad avere un’ideologia e, correlativamente, un progetto sociale e politico preciso e non liquido. Qualunque giudizio si dia di tale ideologia, va ammesso che Meloni dice probabilmente il vero.  

Meloni non ha mai smesso di affermare d’altra parte che non di una riproposizione del vecchio si stava e si sta facendo promotrice, ovviamente, ma di un’evoluzione, a suo modo di vedere, conciliativa. Il mutamento, a suo avviso, porterebbe a superare nella nazione l’aspro contrasto ideologico e, si sperò allora, definitivamente ideale posto a fondamento politico della Repubblica italiana: l’antifascismo.

Giunta al governo della nazione, Meloni ha messo in marcia un suo progetto neo-cesarista. Tra il resto, ne è una manifestazione la proposta della legge sul cosiddetto premierato, in questi mesi al centro di un vivo dibattito.

Come si sa, il cesarismo italiano del Ventesimo secolo ebbe le sue forme onomastiche identificatrici in un cognome, Mussolini, e correlativamente in un’antonomasia, il Duce. Meloni e il think tank responsabile della sua espressione e della sua comunicazione hanno da fare i conti anche con questi trascorsi onomastici e da distanziarsi da essi (che lo facciano poi con piena consapevolezza linguistica o no, non importa saperlo).  

Ebbene, con continuità ideologica di massima, ma per gli impliciti contrasti che solleva rispetto a quel passato e a quelle radici di cui non ripete il modello alla lettera, Giorgia è il nome ideale per l’affermazione di un neo-cesarismo, un cesarismo da Ventunesimo secolo. Il genere del “Cesare” vi si realizza finalmente come femminile, come suggeriscono i tempi, ma resta fermo il requisito della forza. Giorgia, il nome personale come nome politico, è adatto a sollecitare un’investitura popolare di sovranità: vox populi. Strategicamente, è quanto Meloni e la sua parte politica si propongono di realizzare anche attraverso il nome.

Né va dimenticato, infine, che nella vita pubblica internazionale ci sono ancora in giro, per esempio, un Francesco e un Charles. Che cioè il privilegio di portare nella vita pubblica e politica un nome personale che ci si è imposto o che si è ricevuto è sempre spettato, come crisma, a chi impersona il potere di una sola persona (in alcuni casi, ormai solo simbolicamente). E può farlo per un’investitura che l’ideologia soggiacente al modello voleva un dì che venisse appunto da un imperscrutabile alto: vox Dei.

La razionalità moderna ha più volte provato, come si sa, ad annichilire tale ideologia, soprattutto quando essa ha preteso di mettere in micidiale corto circuito la vox populi con la vox Dei: negli ultimi cento anni non ne sono mancati esempi. La ragionevolezza deve però impietosamente riconoscere che essa, nel mutare dei generi, dei nomi, delle coordinate ideologiche, è sempre pronta a risorgere dalle sue ceneri e a presentarsi immediatamente sotto la forma della mistica di un nome.

In copertina, Presidential election paraphernalia two cigarette packs one promoting Adlai E. Stevenson and another Dwight D. Eisenhower, Calif., 1952, © UCLA Charles E. Young Research Library Department of Special Collections.

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