Come leggere la realtà in cui viviamo / Serge Latouche. La decrescita è felice

27 Dicembre 2017

aprile/maggio 2017

 

Mi sembra opportuno cominciare facendo, come si dice, gli onori di casa a Serge Latouche. Ho un compito doppio, uno piacevole e uno scomodo. Come ospite sono felice che sia qui di fronte al pubblico attento di Palermo. Attento e numeroso, a testimonianza dell’eco che il suo pensiero riscuote anche qui, come nel resto d’Italia. La parte scomoda è che il mio compito è di fargli da contrappunto. Mi è stato chiesto di intessere con lui un contraddittorio proprio perché le nostre posizioni sono per certi versi vicine e per certi altri abbastanza distanti. 

 

La vicinanza è dovuta al fatto che entrambi siamo convinti che da questo stato di cose, quello in cui versa il mondo nella sua corsa sfrenata verso la distruzione, bisogna assolutamente uscire. La distanza è sul modo con cui questa uscita sia operabile. Ed è legata ai diversi ambiti del nostro orizzonte di ricerca. Serge Latouche è il più efficace propugnatore dell’idea di decrescita e se lo può permettere proprio perché le sue competenze nascono all’interno di quella stessa disciplina economica che egli così validamente critica. Credo che però ridurre il pensiero di Serge a una prospettiva economica non gli faccia giustizia. C’è nel suo lavoro e nel suo pensiero molto di più. È un pensatore polemista nella grande tradizione francese della critica sociale: in Italia, dove è molto amato, si direbbe che è un pensatore impegnato, una parola che secondo me non è molto lusinghiera perché il pensiero prima di essere engagé deve essere coerente con una certa aderenza alla realtà.

 

E da questo punto di vista Serge è qualcuno che è stato capace nell’evoluzione delle sue opere di ripensamenti e adeguamenti. La mia formazione antropologica mi fa vedere ombre e tagli che a Serge mi sembra spesso sfuggano: tutto l’ambito delle motivazioni per cui la gente, la società, i poteri economici e politici si muovono come si muovono. Credo che se c’è qualcosa per cui a volte non sono d’accordo con il pensiero della decrescita è per la poca attenzione antropologica di questo pensiero. L’antropologia insegna che per cambiare il mondo bisogna prima capire come si muove. Non basta dirgli di cambiare, o costringerlo a cambiare, ma occorre capire perché non cambia e come nei processi reali che affondano nelle motivazioni individuali e collettive insistano le forze che vorremmo contrastare. Nel discorso della decrescita c’è un “dover essere” della società che non corrisponde a come si muovono le forze in essa. E a mio parere c’è ancora una visione che non ha assorbito né fatto i conti con l’elaborazione foucaultiana e deleuziana del potere stesso.

 

Direi, e già vedo la sua faccia contrariata, che la lettura del sociale che Serge fa è ancora molto affetta da un certo post-marxismo e da una lettura un po’ nominalista del nemico (so che lui non è d’accordo e probabilmente io mi riferisco a una parte del suo pensiero che anche lui giudica superata). Ma mi sembra che alcune categorie come capitalismo e sviluppo sono ancora troppo essenzialiste, direbbero gli antropologi, cioè definite come entità compatte e quasi “personali”, come se fossero degli esseri con intenzioni coerenti e indipendenti. Al pari di entità come “stato”, “globalizzazione”, “liberalismo”. Per altro Serge Latouche ha in Italia un’audience molto più agguerrita che in Francia proprio grazie al nostro legame con una certa storia della sinistra romanticamente marxista. Ecco, sono già scomodo e antipatico abbastanza, lo sento dalla reazione di voi che mi ascoltate. 

 

Ph Michael Wolf.

 

Vorrei ribadire che io sono per buona parte d’accordo con quanto Latouche ha scritto. Rimangono però le mie perplessità rispetto a come leggere la realtà in cui viviamo. Certamente l’economia è qualcosa, come il capitalismo e la globalizzazione, che possiamo “toccare” in personaggi malefici, tra cui Kissinger di cui Serge parla spesso. Però è anche vero che tutto ciò che ci accade dalla rivoluzione industriale in poi ha avuto bisogno di complici e spesso di complici convinti. A un certo punto l’idea dello sviluppo è stata un’idea sostenuta dalle sinistre e dalla classe operaia. Quando io ho cominciato a militare contro le centrali nucleari o come non-violento contro le industrie di armi, venivo attaccato violentemente proprio da coloro che dicevano di fare gli interessi della classe operaia. Dicevano: come si fa a essere contro lo sviluppo? Il mito dello sviluppo è stato il mito della sinistra fino ad almeno dieci anni fa e in alcuni posti lo è ancora. Questo per dire che coloro che sostengono l’economia come è adesso non solo solo i cattivoni della finanza e i capitalisti. Illich, con cui ho lavorato e litigato per vent’anni, questo lo aveva capito già chiaramente a metà degli anni ‘80.

 

Quando scrive “lavoro ombra” già capisce che il tarlo dello sviluppo è incuneato proprio dentro coloro che dicono che la soluzione è il “self-help”, l’economia alternativa, l’autonomia dal mercato. Spesso in queste forme c’è un’ulteriore “mossa” del capitale: la gente si “auto-sfrutta”, sostituisce il proprio lavoro a quello che le istituzioni dovrebbero fornirgli come servizio. Illich se la prende con le soluzioni dell’“altra economia” perché gli sembrano troppo semplici. E dal quel momento si concentrerà in maniera più radicale sulle radici malate del presente, l’omologazione del mondo femminile e di quello maschile, la distruzione della convivialità dovuta al suo assorbimento ideologico nelle istituzioni. Da quando dirige il “Dizionario dello sviluppo” con Wolfgang Sachs, e siamo dopo il 1989, cioè la caduta del muro e il mondo ridotto a globalizzazione, capisce che la critica allo sviluppo non basta.

 

Ci vuole una radicale revisione delle nostre motivazioni profonde, della nostra maniera di gioire e di soffrire. Diciamo che non crede più che la via d’uscita sia un’“altra economia”. Fa un po’ come Foucault un’archeologia del nostro “male” a partire dalle sue radici nel modo con cui la Chiesa e poi le Istituzioni, Stato, Professioni, Servizi hanno reso la gente dipendente. Per lui il consumismo è il sintomo della rinuncia a essere persona e invece l’accettazione di essere definiti come luogo di bisogni elaborati da altri. Ovviamente il tutto è molto più complesso di come lo sto sintetizzando, ma questo per dire che Illich, al pari di Foucault è difficilmente utilizzabile come semplice “critico dello sviluppo” almeno dalla fine degli anni ’80 in poi. 

 

Io credo che la situazione disastrosa in cui siamo abbia anche a che fare con ciò che Isaiah Berlin si chiama “il legno storto dell’umanità”. Io faccio l’antropologo di mestiere e so che l’umanità non è perfetta, visto che nell’illusione dello sviluppo l’umanità ci è caduta pienamente. Ci hanno illuso, ma ci siamo anche illusi da soli che questa cosa fosse la migliore cosa che potessimo vivere, che alla fine tutto si sarebbe sistemato. Che alla fine i poveri sarebbero stati meno poveri, che la natura l’avremmo aggiustata e che questa accumulazione di ricchezza avrebbe fatto del bene a tutti. Tutti noi siamo ancora molto illusi da questo sviluppo e dai suoi vantaggi. La mia domanda a Latouche allora è questa:

 

Quello di cui tu parli, è qualcosa per cui dobbiamo aspettare che le cose e le risorse finiscano?

Cioè, stiamo andando verso il disastro, la catastrofe e la fine delle risorse; quindi cosa facciamo, aspettiamo che finisca tutto? oppure in qualche modo è possibile fare qualcosa, e in questo fare qualcosa ipotizzo e ti chiedo se secondo te si possa pensare a un progetto politico di uscita dallo sviluppo o se solamente dobbiamo immaginare una soluzione come una scelta etica, se quello di cui tu parli è in qualche modo qualcosa che solo poche persone nel mondo, particolarmente sensibili come in Chiapas o altri posti, possono attuare uscendo per primi dall'illusione del sistema di sviluppo?

Allora ti riassumo le tre ipotesi:

1) La prima ipotesi o chiamiamola ipotesi alla Marx: “Lo sviluppo finirà perché ha una sua fine, per un suo naturale collasso”.

2) La seconda ipotesi, quella antropologica: “È possibile convincere molte persone che c’è un’altra strada? Come si fa a convincere milioni di persone in Africa, in Asia, in Cina a seguire un’altra strada rispetto a quella dell’Occidente?”.

3) La terza ipotesi è quella cattolica: “Dobbiamo essere tutti più buoni; se siamo tutti più buoni le cose si sistemeranno. Diciamo la scelta etica, su scala individuale in cui soltanto alcuni nel pianeta cominciano a consumare meno, inquinare meno, spendere meno, essere contro la globalizzazione, usare meno le risorse”.

 

Quindi ricapitolando: la prima ipotesi è “aspettiamo e finisce da sola”, la seconda è “possiamo forse fare qualcosa che non è soltanto di minoranze ma anche e soprattutto che coinvolga le masse” e infine l’ultima: “questo è un discorso morale ed eticamente connotato e su scala individuale”.

 

Da Serge Latouche, Invertire la rotta! Ecologia e decrescita contro le politiche autoritarie. Una conversazione con Franco La Cecla, Meltemi 2017.

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