Arlecchino, l’attraversatore
Arlecchino entra in scena saltando, rotolando, e fa capriole selvagge, e poi guizza, rimbalza, ricade come un sacco dai mille colori, e fa piangere e ridere, e non smette di ciacolare parlando nel naso con quel suo accento bergamasco assunto chissà quando, nella lunga vicenda storica delle sue metamorfosi infere e terrestri. Arlecchino è «un dio improbabile, un dio al contrario, patrono della incostanza e della imprevedibilità»: condivide con Dioniso l’irruenza e il superamento di ogni confine, avendo incorporato tutti i confini nel suo modo di essere. Anche Arlecchino, come l’antico dio dell’ebbrezza e dello scatenamento, è sempre “al di qua” e sempre “al di là”, è sempre sé stesso e sempre l’Altro, giacché in lui il “proprio” e l’“altro” «sembrano coincidere in una creativa confusione», annunciata fin dall’ingresso sul palco dalla sua casacca a losanghe coloratissime, un caleidoscopio in cui si immillano le sue forme possibili. Il costume di Arlecchino, suggerisce Gian Piero Jacobelli nel suo recente Arlecchino passator scortese. In appendice Baric, «Le marionette di Arlecchino», (Luca Sossella, 2023), richiamandosi a Michel Foucault, in un libro di rara intelligenza storiografica e antropologica, e fondamentalmente epistemologica, «“fa scintillare la dispersione” che caratterizza la vita e che trova la sua “diabolica” rappresentazione sulla scena, dove tutto può accadere perché non accade davvero, anche se potrebbe accadere, mettendoci di fronte alla catartica esperienza di una realtà virtuale che sul momento appare più reale della realtà reale».
Giorgio Agamben, a proposito dei personaggi tragico e comico, ha rilevato che il primo si definisce per le azioni che compie, e non per il suo “carattere”, mentre il secondo «agisce per imitare il suo carattere»: «le azioni che compie gli sono eticamente indifferenti e non lo toccano in alcun modo». La dimensione etica del dramma sfugge dunque ad Arlecchino, che è nato diavolo (l’Hallequin che guida la chasse sauvage notturna su cavalli infernali, quando l’anno vecchio cede al nuovo), e che nella Commedia dantesca, dove è chiamato Alichino, si azzuffa con Calcabrina, finendo entrambi «cotti dentro da la crosta», ridicoli come solo un fool può essere. Ma lungo i secoli la comicità diabolica di Arlecchino prende una svolta carnevalesca, “passa” da uno stato all’altro, da un confine al successivo, fino a divenire confine del confine, forma della forma. Egli è Nessuno; non però nel senso ulìssico assunto da Adorno e Horkheimer ad emblema del soggetto borghese: «Arlecchino è Nessuno in quanto rappresenta il contorno di ogni qualcuno possibile, venendo sempre prima e dopo. Prima dell’inizio (della vita e dello spettacolo), ma anche dopo la fine, quando il sipario (della vita o dello spettacolo) si chiude e Arlecchino rifluisce nel crepuscolo delle storie personali, portando sulle spalle una gerla di piccoli Arlecchini generati per partenogenesi, come in alcune curiose incisioni del Cinquecento e Seicento» (ad esempio l’inaugurale La Arlechinaria di Tristano Martinelli, incisa nel 1600-1601).
Tra l’inizio e la fine, là dove il limite sfocia nell’illimitato e il confine sconfina nella propria alterità, si colloca dunque Arlecchino-Nessuno. «Protagonista del confine, che resta inscritto nel suo costume, Arlecchino dal confine, di spazio, di tempo, di genere, di ruolo, va e viene continuamente, anche dove non dovrebbe trovarsi. Da questo punto di vista, la maschera tanto visibile da non farsi vedere, funge da tattico espediente per restare in incognito e per potersi muovere da una parte o dall’altra senza doverne rendere conto a nessuno».
In questa dimensione più di un elemento di affinità filosofica, ma addirittura apocalittico-messianica, si può riconoscere fra Arlecchino e Pulcinella, altra maschera di natura infera (bianco come un fantasma e con il volto affoscato dal fumo). Su di lui Giandomenico Tiepolo, figlio del grande Giambattista, ha dipinto gli affreschi nella sua villa di Zianigo (oggi a Ca’ Rezzonico), fra 1793 e 1797, anno della caduta della Repubblica di Venezia, accompagnandoli nello stesso ’97 con la pubblicazione di uno splendido album di disegni, il Divertimento per li regazzi.
Giorgio Agamben, che agli affreschi e all’album ha dedicato un libro di altissimo ingegno (Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Nottetempo, 2015; vedi la recensione di Riccardo Ferrari), rileva che Pulcinella condivide con i satiri una natura semiferina, e che al pari del Socrate dal volto silenico del Simposio di Platone, anche Pulcinella «è un personaggio filosofico». Come il Filosofo e l’Artista, questa maschera ha rapporti con l’essenziale dell’esistenza: con la vita e con la morte, con il pianto e con il riso. Per questo Pulcinella è maschera del filosofo: «Che la filosofia abbia a che fare tanto con il riso che con il pianto», scrive Agamben, «è testimoniato da un’antica tradizione iconografica, che rappresenta Democrito ridente ed Eraclito piangente. Il riso e il pianto sono, infatti, i due modi in cui l’uomo fa esperienza dei limiti del linguaggio. [...] Che il linguaggio sia, che il mondo sia – questo non si può dire, se ne può soltanto ridere o piangere (non si tratta, dunque, di un’esperienza mistica, ma di un segreto di Pulcinella). Per questo i due filosofi sono rappresentati insieme: non soltanto il riso e non soltanto il pianto, ma entrambi nello stesso tempo. Lo spettatore dovrebbe ridere e piangere insieme».
Agamben ci svela qual è, da un punto di vista etico e conoscitivo, il “segreto di Pulcinella”: al pari della vita, «Pulcinella non è un sostantivo, è un avverbio: egli non è un che, è soltanto un come». In parallelo agli eroi tragici, e più autenticamente di loro grazie alla sua natura comica, Pulcinella ha a che fare con la vita e anche con la morte, la annuncia, la penetra incorporandola nel suo gesto buffo e spesso assurdo: «Egli vive accanto alla sua morte, è in luogo della sua morte. [...] Il segreto di Pulcinella è che, nella commedia della vita, non vi è un segreto, ma solo, in ogni istante, una via d’uscita». Ubi fracassorium, ibi fuggitorium: «dove si dà il caos dell’esistenza, lì si trova la via d’uscita». Questo è il motto di Pulcinella, che «vive “all’improvviso”», conducendo, proprio come il Filosofo, l’Artista, il Critico, una vita «essenzialmente inoperosa». E per parte sua, «Arlecchino non è quello che fa, ma fa quello che è». Per questo una maschera della Commedia dell’Arte, un Saltimbanco, possono spartire con l’artista e il suo pensiero poetante qualcosa di eccessivo, di animalesco e insieme di spirituale (Socrate, il “Sileno di Alcibiade”, ma anche Diogene, e i “cani” che per i contemporanei erano i “cinici”), e si dimostrano perfetti compagni di strada nel ricercare attraverso il gesto del pensiero la “via d’uscita” per una prassi che lo soffoca.
Non si è mai parlato di un segreto di Arlecchino. Ma forse laggiù negli inferi i due, il Bianchissimo e il Tuttocolorato, un segreto lo hanno condiviso. Suppongo che il segreto di Arlecchino sia proprio quello di Pulcinella: trovare sempre una via d’uscita, cambiare per rimanere sé stessi, fare di ogni metamorfosi una forma, fino a conquistare la forma delle forme, che è la «nientità» di molto pensiero mistico. Così Arlecchino lungo i secoli riscatta il proprio originario ruolo diabolico rinunciando alla maschera, «dispositivo per nascondersi», e diventando Maschera, «dispositivo per mostrarsi». Questa ambivalenza di Arlecchino, legata alla sua corporeità eccessiva, l’aveva già intuita Bachtin nello studio su Rabelais e il carnevalesco: «il ruolo più importante nel corpo grottesco è affidato a quelle sue parti e luoghi dove esso va oltre sé stesso, esce dai limiti prestabiliti, comincia la costruzione di un nuovo (secondo) corpo: il ventre e il fallo ».
Canta, ironica, una filastrocca infantile: «Arlecchino scappa fuori col vestito a più colori, salta, balla e corre via sempre pieno di allegria». In questa verità da bambini, come intuisce acutamente Jacobelli, consiste la sapienza ermetica di Arlecchino, del suo pensiero del fuori (la formula è foucaultiana): «“scappa fuori”, cioè “scappa dentro”, facendo una grande confusione, perché solo dalla confusione dei vecchi assetti teorici e pratici può nascere qualcosa di teoricamente e praticamente nuovo».
Nel suo mirabile Ritratto dell’artista da saltimbanco (1970), che io stesso tradussi e commentai per Boringhieri nel 1984, Jean Starobinski riconosceva in Arlecchino la sorte dei clowns e dei personaggi ermetici, maestri di iniziazione rituale che fanno passare i trapassati (nel doppio senso di “morti” e di “coloro che sono passati per un ostacolo, lo hanno superato”): questi passeurs, soprattutto, fanno passare al senso e quindi trasgrediscono i confini dei luoghi comuni. Come scrisse Guillaume Apollinaire a proposito degli Arlecchini ermetici del suo amico Picasso, la «difficile agilità» del clown e dell’acrobata diviene «l’ardua impresa gnoseologica» di coloro che “fanno passare al senso” l’insensatezza della vita. Quei fantasmi, quelle maschere, li “fanno passare”, li trasformano dentro di noi, proprio in quanto significanti liberi: «La gratuità, l’assenza di senso è […] la loro aria natale. Soltanto a prezzo di questa vacanza, di questo vuoto primario, essi potranno passare al senso che abbiamo scoperto per loro. Essi hanno bisogno di un’immensa riserva di non-senso per poter passare al senso» (Starobinski).
Lo spirito del passatore contiene veleno, è malefico perché “attraversa” il limite fra la vita e la morte, l’oltranza che separa l’assurdo e il significato: la natura di Arlecchino è la stessa che Ernesto De Martino, nel Mondo magico (1948) ideò per definire il mago: «il signore del limite, l’esploratore dell’oltre, l’eroe della presenza». «Nel corso dei secoli», dice ancora Starobinski, «la rappresentazione teatrale e la parodia esorcizzeranno il suo maleficio e questo demone che ha attraversato i confini dell’inferno per venire a tormentarci sarà trasformato in una figura comica, il cui carattere essenzialmente trasgressivo si volgerà verso i tabù dell’ordine sociale e della disciplina dei costumi». Arlecchino si moltiplica e si annienta, va e viene oltre ogni confine, dal momento che, «ballando e cantando, trasforma il mondo in un confine, per poterlo oltrepassare come una specie di Ercole diviso tra la Virtù e il Vizio».
A pieno titolo Arlecchino è signore del limite, come Ercole e Hermes, come tutte le figure psicopompiche. I limiti, i confini che separano e uniscono li fondano (le “colonne d’Ercole”) e li attraversano (Hermes è per definizione l’“attraversatore”). Opportunamente Jacobelli ricorda un gesto mentale decisivo di Ernesto De Martino, il quale individuò nella nekýia, nella discesa agli inferi della psyché, «la condizione per attivare “lo slancio della valorizzazione, l’ethos del trascendimento”, precisando che “a noi tocca ridiscendere agli inferi, se nell’ora che volge vogliamo consolidare il potere dei superi». Il passaggio rituale trasforma in forma quello che De Martino chiama «rischio di non esserci», che non si presenta secondo un contorno definito, dentro limiti stabili per cui possa essere appreso come oggetto: il suo limite è travagliato da infinite possibilità sconosciute, che accennano a un oltre carico di angosciante mistero».
In questo senso il diavolo-Arlecchino è capace di trasformarsi in mago, in esploratore dell’oltre e signore dei confini. La sua è una «feconda diabolicità», capace di «rappresentare tutto e il contrario di tutto», dal momento che Arlecchino, al pari del suo avatar mitico Ercole, porta con sé, nel lungo e variegato percorso secolare attraverso le civiltà, «tanto un ponte tra le due rive, quanto le due rive e ciò che simboleggiano nella loro separazione, nel trovarsi l’una di fronte all’altra, nel corrispondersi e contrapporsi». Al pari di Ercole, anche Arlecchino è «protagonista del confine», e «dal confine, di spazio, di tempo, di genere, di ruolo, va e viene continuamente, anche dove non dovrebbe trovarsi». Passatore e sconfinatore, Arlecchino è, nella finissima lettura di Jacobelli, «il “divenire”, il “passaggio” stesso, personificato in un personaggio la cui caratteristica resta appunto quella di essere “uno, nessuno e centomila”».
In Francia Ercole rappresenta l’eroe mitico, il capostipite della dinastia, fra Enrico II e Luigi XIV; e a Madrid Carlo V fa decorare la facciata del suo palazzo nell’Alhambra di Granada con due fatiche di Ercole, l’Idra e il Toro cretese. La «Nientità» di Ercole coincide con la sua metamorfosi permanente, che è anche una «mediamorfosi», visto che prima di calcare il palcoscenico Ercole-Arlecchino attraversa campi del sapere e della rappresentazione collettiva assai diversi. L’analisi che Jacobelli fa del variegato, complesso ruolo direi di collettore mitico-antropologico, assunto nella civiltà europea dal «“passatore” Ercole, in piena consonanza con il “passatore” Arlecchino che ne eredita le spoglie», è di grande eleganza: «Ercole, “passando” nello spazio e nel tempo si porta appresso tutto quanto casualmente incontra, miti e riti locali, fungendo da catalizzatore delle sintesi di civiltà che costituiscono la matrice originale della cultura mediterranea. In altre parole, un autentico “passatore” che, nel suo “passare”, fa passare anche gli altri». Arlecchino, confrontato da Jacobelli (per contrasto) anche con Pinocchio, rappresenta il passatore che non smette mai di passare, perché non raggiunge mai “lo” stato definitivo della metamorfosi, di per sé imprendibilmente necessario: «Arlecchino costituisce una metafora simbolica del passaggio che consente di passare in quanto mantiene sempre aperta la porta del passaggio nella sua consistenza trascendentale. Una conferma del fatto che non si può non passare – non si può non diventare adulti, non si può non cambiare di stato e di condizione, non si può morire senza essere vissuti – e però [...] per passare passando davvero bisogna continuare a passare, affrontando responsabilmente le tante crisi con cui dobbiamo misurarci ogni giorno e conferendo a queste crisi un senso tanto escatologico quanto palingenetico, per rientrare in sé con una diversa consapevolezza della propria mutevole, ma volta a volta consistente e coerente vocazione identitaria».
Questa intelligente lettura «anamorfica» di Arlecchino come passaggio permanente e sempre in mutazione, su cui ruota la ricchissima ricerca di Gian Piero Jacobelli, mi evoca una fra le pagine più intense degli appunti preparatori per il Passagenwerk di Walter Benjamin, dedicato al passage parigino come non-luogo onirico: «Nell’antica Grecia venivano indicati dei luoghi attraverso i quali si scendeva agli inferi. Anche la nostra esistenza desta è una regione da cui in punti nascosti si discende agli inferi, ricca di luoghi per nulla appariscenti ove sfociano i sogni. Ogni giorno vi passiamo davanti incuranti, ma non appena arriva il sonno, torniamo indietro a tastarli con mossa veloce, perdendoci in questi oscuri cunicoli. Gli edifici delle città sono un labirinto che alla luce del giorno assomiglia alla coscienza: di giorno i passages (sono queste le gallerie che conducono alla loro esistenza dimenticata) sfociano inavvertiti nelle strade. Ma di notte, il loro buio compatto spicca spaventoso fra le masse di case: il passante della tarda ora vi passa davanti in gran fretta, a meno che non l’abbiamo incoraggiato al viaggio attraverso le vie anguste» (Passagenwerk, sez. C, 1a, 2).
Quel diavolo d’un Arlecchino: forma fluens, che c’è sempre e già da sempre non “c’è” mai, perché è in ogni momento e in ogni luogo il proprio altrove.