Una nave nel deserto

21 Gennaio 2023

La Atlàntida, un bizzarro poema epico in catalano presentato ai Giochi Floreali di Barcellona nel 1877 dal prete Jacint Verdaguer (Giovanni Papini, col suo incredibile olfatto internazionale, lo fece tradurre da Carabba di Lanciano nel 1916), racconta le vicende di Ercole «che rapisce la ninfa Esperide nell’Atlantide dove quella aveva dato dodici figli ad Atlante, per fare a propria volta dei figli che popoleranno la penisola iberica».

Così ne sintetizzava la trama nel 2005 il grande storico Pierre Vidal-Naquet (Atlantide. Breve storia di un mito, Einaudi 2006), che immediatamente svelava un dispositivo letterario postmoderno, quasi fantascientifico: «A chi mai viene raccontata questa storia da un vecchio anacoreta che ha raccolto un naufrago al largo del Portogallo? A un genovese che altri non è che Cristoforo Colombo. Avendo salvato il futuro navigatore, e avendogli indicata la propria missione, il vecchio annuncia, alla fine dell’epopea, di poter morire». Insomma: come un Ulisse moderno, nei pressi della città che proprio l’eroe antico aveva fondato (Olissipona, oggi Lisbona), Colombo scampa all’annegamento per essere ribattezzato a nuova vita e riprendere il cammino verso la scoperta dell’Altro Mondo, lo stesso a cui Ulisse mirava nel suo folle volo. È un mito moderno radicato nell’epica millenaria, un po’ assurdo e con qualche tratto lievemente grottesco, ma di grande fascino teatrale: Colombo si salva per poter “scoprire l’Atlantide”.

Questa «passione della localizzazione», come la definisce Vidal-Naquet, ha fatto sì che nello snodarsi delle civiltà l’uomo abbia collocato l’Oltre sempre Altrove, in uno spazio al confine fra il reale e l’immaginario, là dove la sua fantasia riusciva a giungere coniugando la prassi con l’invenzione e dislocando le innumerevoli stirpi dei mostri ai bordi della “casa comune”, l’oikouméne vivibile. Ma allo stesso tempo su quei bordi del mondo gli uomini in carne ed ossa cercavano anche i contatti con le altre culture, attraverso il conflitto, gli scambi, il commercio.

Quando pensiamo all’universo della Grecia e di Roma istintivamente ce lo figuriamo “chiuso”: a Occidente dalle insuperabili Colonne di Ercole, e ad Oriente, appunto, dalle barriere dei monstra e dei mirabilia, entro il cerchio dell’Oceano serpentiforme che tutto contiene. D’impulso proiettiamo un’immagine della terra “percepita” dagli antichi all’incirca su quella, paradossale e fantastica, che ci hanno conservato le mappae mundi del Medio Evo (ad esempio quelle di Hereford e di Erbstorf), nelle quali lo spazio e il tempo, sacro e profano, si intersecano, e la Bibbia e la storia e la mitologia si sovrappongono a luoghi emblematici: e insieme all’Europa, oltre Gerusalemme, il Mar Rosso e la Persia appare la Torre di Babele, sui monti del Caucaso sboccia l’Arca di Noè, e ai confini dell’India svetta la Colonna con cui Alessandro Magno sigillò l’Est favoloso.

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Il viaggio verso ovest di Zhang Qian. Caverne di Mogao.

Io non sono mai riuscito a convincermi fino in fondo che il mercante veneziano Marco Polo, fra 1271 e ’95, sia davvero potuto partire per il Catai attraversando tutta l’Asia con una di quelle carte istoriate e mitografiche tra le mani. Né che come Marco, duecento anni più tardi, proprio il “naufrago” Cristoforo Colombo, nuovo Ulisse, si sia slanciato con tre fragili caravelle nell’altra direzione, «buscando el Levante por el Poniente», con tutta probabilità rappresentandosi anche lui mentalmente il mondo come uno spazio popolato di uomini, di mostri e di stranezze.

Il libro pubblicato da Maurice Sartre in Francia l’anno scorso, e appena tradotto (La nave di Palmira. Quando i mondi antichi si incontrano, Einaudi, 2022, pp. 231, € 28), senza mai dirlo in chiaro dimostra che epistéme contraddittoria fu quella antica e medioevale, resistente in maniera sotterranea ad accettare l’Alterità come tale, e invece sempre pronta a compiere l’assimilazione del Diverso mediante la moltiplicazione dell’Identico. Un esempio: sappiamo bene che il greco Pitea, nato a Marsiglia all’incirca all’epoca di Alessandro Magno, aveva superato le colonne d’Ercole spingendosi a Nord fino agli arcipelaghi delle Shetland e delle Orcadi. Però Polibio e Strabone irridono le sue affermazioni sulla Britannia: «Le loro caricature», conclude Sartre, «sono dovute principalmente alla loro incapacità di concepire un mondo diverso da quello del bacino mediterraneo. […] Pitea era arrivato troppo presto e aveva portato troppe novità per essere creduto».

I molti viaggiatori medioevali, specie francescani, diretti in Cina (Sinica Franciscana, 1929), apportarono un passo dopo l’altro notizie concretamente attendibili: tuttavia l’idea del mondo restava sghemba, incompleta, paradossalmente “chiusa” e “aperta” allo stesso tempo, e per “compierla” si partiva in cerca dell’Aldilà. Il frate minore Giovanni da Monte Corvino, che arriva a Pechino quando Marco Polo la sta lasciando (1294), mette insieme dati e informazioni geografiche preziose, che cambiano il modo di pensare quelle lontananze. Ma l’universo in cui vive, pensa, cammina, scrive, rimane tutto di carta: la sua relazione in volgare mostra che, mentre attraversa paesi e deserti reali, non smette di cercare anche ragguagli sui mostri e sul Paradiso Terrestre; finché sconsolato deve ammettere: «Delli omini da maravigliare, cioè chotraffatti da gli altri, e delli animali, e del paradizo terestro, mouto adimandai e cierchai; alcuna chosa trovar none potti».

Per secoli in quell’Oriente che restava favoloso anche quando lo si toccava con mano si proiettò l’Atlantide, ossia lo spazio fuori dello spazio, il mondo delle meraviglie a cui però ci si poteva avvicinare con la lenta marcia dei cavalli e dei cammelli, con i carri commerciali meglio che con le legioni armate. Sulle piste polverose i mercanti ritrovavano allo stesso tempo le memorie e le utopie collettive di un’Europa avida di trovare l’Altro, le rovine degli immensi imperi di un passato glorioso, del tutto separato da quello dell’Occidente, ma anche le moderne capitali di un commercio strepitoso per ricchezza, per varietà, per lusso sfrenato. Ma in realtà, Chi era l’Atlantide di Chi?

Il grande vettore di comunicazione fu chiamato per secoli la Via della Seta. Prima del libro di Sartre, nel 2019, Einaudi ha pubblicato un magnifico volume curato da Susan Whitfield, Le Vie della Seta. Popoli, culture, paesaggi, che insieme a una quantità di splendide immagini fornisce un’informazione mirabile sulle miscele e le contaminazioni fra culture e lingue, etnie e abitudini antropologiche, senso estetico e interessi economici, che hanno silenziosamente tessuto il tappeto delle relazioni fra Europa e Asia. Quella Via è uno sconfinato, inimmaginabile percorso, è il sovrapporsi di tracce umane e animali, l’accumularsi di passi incalcolabili l’uno sull’altro in millenni di viaggi anonimi, che s’inoltra verso Oriente raccogliendo sentieri, valicando steppe e deserti, legando con fili invisibili capitali mitiche e sperduti caravanserragli, come «istanti separati da intervalli», sequenza mai dichiarata di «segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie».

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Nave di mercanti arabi in viaggio nell'Oceano Indiano (XIII sec.)

Gli Arabi frequentavano i mercati delle Indie, e a loro volta viaggiatori indiani si inoltravano fino all’Egitto. Nonostante le scoperte archeologiche e l’interpretazione dei documenti ci conducano sempre più lontano e ad epoche sempre più antiche, istintivamente noi occidentali resistiamo a pensare che i Romani avessero scambi ben oltre quei confini, in terre impensate, con mediatori quali i Sogdiani, i Kashmiri, i Tibetani, da cui soprattutto l’ambizione modaiola e i palati sofisticati di Trimalcione e degli altri neoricchi e oligarchi del tempo traevano sfrenate soddisfazioni, con sete preziose e leccornie prelibatissime.

La Via della Seta fu la strada sconfinata che unì l’Estremo Occidente con l’Estremo Oriente, addirittura fino ai territori indiani sul Golfo del Bengala e con la Cina. Mortimer Wheeler (Roma oltre i confini dell’Impero, 1955; trad. it. Res Gestae, Milano 2016) ha seguito l’espansione dei mercanti di Roma al di là dei limiti geografici e politici controllati dal potere centrale, al Nord oltre la Germania e ad Oriente fino a Ceylon e giù giù, al Golfo del Siam (oggi la chiamiamo Thailandia). Nelle vicinanze di P’ong Tuk, sul Mekong, a quaranta miglia dalla costa, mischiata a resti di reliquari buddisti databili fra il II e il VI secolo d. C. e a sculture di sicura influenza indiana, è stata scavata «una lampada romana di bronzo di notevole interesse», con il manico formato da «una palmetta tra delfini» e il coperchio che «reca in rilievo una testa di Sileno con una corona d’edera». E poi, piatti e vasi romani in vetro sono stati scavati in Asia centrale, ma anche in Corea e in Cina. E gli Annali Han «attribuiscono all’epoca di Marco Aurelio l’arrivo di un’ambasciata di “An-tun” (Marco Aurelio Antonino) alla corte cinese e l’inizio di rapporti con Ta-ts’in (l’Impero romano)».

Il nuovo libro di Maurice Sartre si impernia con meravigliosa ricchezza di documenti proprio sull’incontro fra le civiltà, sulla «mobilità degli antichi» e sugli «anelli di congiunzione di questi mondi diversi». In tempi di globalizzazione è di immenso interesse scavare nei secoli e portare alla luce una visione dello spazio polifonica, pluralistica, multidimensionale: «che cosa si sapeva nel mondo mediterraneo a proposito del resto del mondo? E l’India e la Cina cosa conoscevano dei paesi d’Occidente?». Interessi politico-economici e curiosità di ricerca si mescolano, in alcuni «luoghi privilegiati dove vengono a contatto aree culturali profondamente diverse»: il più straordinario è «il Mar Rosso, “cerniera” fra mondi». Un intreccio di mediazioni multiple, di rotte marittime e di carovaniere terrestri, di scambi e di arricchimenti, ma specialmente di mutue manipolazioni d’immagine, viene ricostruito da Sartre in un affresco di sorprendente ricchezza, che mette in luce una globalizzazione arcaica e segreta, un universo unitario formicolante di sguardi reciproci, che vogliono dire reciproca contaminazione culturale, percezione fluida del Mondo Altro, che consente di credere alle favole teratologiche e al contempo di impiantare mercati e vie di scambio frequentatissime.

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Palmira, Tempio di Bel, bassorilievo del III sec.

Restiamo un momento su quell’incredibile ambasceria di Marco Aurelio a Pechino, di cui parla anche Sartre. Trascrivendo il nome in Andun, Sartre riferisce la delusione di Fan Ye, l’autore della monumentale Storia degli Han Posteriori composta nella prima metà del V secolo d. C. (diciamo, per capir meglio, all’incirca quando l’Impero romano «cadeva senza rumore», secondo la celebre formula di Arnaldo Momigliano), di fronte ai doni “banali” che gli inviati romani offrirono all’imperatore cinese: «zanne di elefante, un corno di rinoceronte e un guscio di tartaruga». Fan Ye è irritato, e «considera questi doni indegni dell’imperatore della Cina. Naturalmente, non riesce a immaginare nessun’altra ragione per una tale “ambasceria”» (commenta Sartre) «se non un tributo dei Romani al suo signore cinese». Invece gli storici vanno convincendosi che «gli “ambasciatori” di Andun fossero tuttalpiù dei mercanti romani che si erano presentati come emissari dell’imperatore per avere accesso alla corte imperiale nella speranza di trarne un qualche vantaggio. Ma l’epiteto di ambasciatore di Andun potrebbe anche essere stato un’invenzione della stessa corte cinese per aumentare il prestigio del sovrano: questo imperatore lontano non poteva che mandare i suoi ambasciatori a giurare fedeltà al Figlio del Cielo! Del resto, non dovremmo intendere il nome dato a questo lontano Occidente, “Grande Cina” (Da Qin), come l’affermazione che l’impero del Figlio del Cielo si estende fin là?». Ecco il mondo narrato “dalla parte dell’Altro”: così avviene nel misunderstanding fra Romani e Cinesi, in quel reciproco fiutarsi e scrutarsi e reinventarsi da lontano, creando gerarchie ideologiche di cui non restano che ombre deglutite dalla storia, ma che restituiscono il profilo di persone e di culture reali.

Dalla Geografia di Tolomeo e da altre fonti antiche Sartre estrae un nome che sa di casa, Cattigara, con cui si indica invece l’estremo luogo pensabile per gli antichi: «Non credo di essere molto lontano dal vero nell’associare il nome di Cattigara all’Indocina nel suo complesso, che segna la fine del mondo conosciuto dai popoli del Mediterraneo, il punto estremo del mondo abitato verso est». L’Indocina era dunque la finis mundi per gli Occidentali dell’Impero, mentre, per gli abitanti di Pechino o della Mongolia, Roma si chiamava Da Qin, la Grande Cina. E se mai se ne seppe laggiù, le fortificazioni erette in Scozia e nell’Africa settentrionale dai pretoriani con i fasci littori in braccio venivano ripensate dall’alto della Muraglia cinese, sia pur fra le nebbie deformanti delle moltissime culture di mediazione, come il limite a ponente del territorio su cui dominava del Figlio del Sole.

È proprio vero, come dicevano i vecchi: “tutto il mondo è paese”. Nei secoli in cui Gerusalemme, occupata dai Mori, era irraggiungibile, si andava in pellegrinaggio a Santiago di Compostela, finis terrae: lo Spazio è un’entità simbolicamente plasmabile, in cui un Luogo si può dislocare mentalmente e culturalmente. Leggere, tradotte da Maurice Sartre, le descrizioni di Roma e del suo Impero offerte da Fan Ye ai suoi “compaesani”, è un’esperienza che ricorda un poco Alice attraverso lo Specchio. Da loro a noi arrivavano sete lievi e spezie costosissime, e tutte le merci superlative che Marco Polo e gli altri mercanti elencavano nei loro scritti; ma da noi a loro partivano ceramiche, cristalli, bronzo, vini, stoffe, manifatture speciali, di cui in Oriente si apprezzava l’eleganza. E le molte monete romane ritrovate in India mostrano come quel metallo prezioso sia servito anche «per transazioni locali fra commercianti indiani»: un reticolo strettissimo, un termitaio vibrante senza interruzione. «I due mondi mantengono relazioni deboli, e attraverso intermediari: Seri/Tocari, Kushana, Sogdiani o Indiani. Ma tanto basta per rimanere connessi. E tramite questi intermediari, i prodotti transitano da ovest a est in maniera durevole».

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Reliquiario di Bimaran (I sec. d. C.), Afghanistan orientale.

Insieme con il commercio nascono dunque «confronto e concorrenza», mescidanze e ibridazioni. Le civiltà si intridono l’una nell’altra, rilasciano e ricevono caratteristiche, abitudini, beni. A me sembra, però, che quel «rimanere connessi» individuato da Sartre come il cuore pulsante dello spazio eurasiatico abbia qualcosa di antropologicamente affine alla “connessione in rete” che ci permette oggi di “navigare” senza limiti. Gli antichi erano «connessi» da «relazioni deboli» sulle Vie della Seta; disperatamente «connessi» nell’etere sono i moderni che alle relazioni sostituiscono una rete invisibile, umanamente debolissima, ma onnipresente e onnipotente.

La proposta più curiosa e innovativa di Maurice Sartre consiste nella raccolta e nel commento di alcune iscrizioni in latino, in greco, in aramaico, che ci conservano la viva voce di soldati, di mercanti, di marinai occidentali in isole sperdute fra Arabia meridionale, India e Africa orientale. La più formidabile è quella che dà il titolo al libro (La nave di Palmira), illustrata nel capitolo VIII, La nave di Honainu. A Palmira, nel tempio di Bel e nell’agorà, sono stati scavati un bassorilievo del III secolo d. C. rappresentante una nave mercantile del genere di quelle che navigavano nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano, e un’iscrizione bilingue, greca e aramaica, databile al 157 d. C., che menziona Honainu, sulla cui nave viaggiavano i mercanti provenienti dal nostro mare chiuso fino all’India nord-occidentale. Che cosa ci stanno a fare il racconto e l’immagine dell’Oceano nel cuore del deserto? Mettendo insieme questi due minimi oggetti, Sartre riporta in vita memorie individuali e collettive di uomini oscuri, travolte nell’oceano dell’oblio, e ricostruisce il ruolo fondamentale che svolgeva Palmira, distante 200 chilometri dal Mediterraneo e più di 1000 dal Golfo Persico, nel collegare i confini orientali dell’Impero romano e i porti indiani.

Il libro di Sartre è un eccellente esempio di indagine sulla memoria collettiva ricostruibile dai minimi dettagli delle vite di esseri umani, fatte riemergere soffiando via la sabbia che li ha coperti nello sterminato deserto della storia. Le orme che ricalca sono quelle di Maurice Holbwachs (Les cadres de la mémoire, 1925) e di Marc Bloch (Apologie pour l’histoire, 1942-43). In questo libro geniale, epicentro di un nuovo modo di pensare una storia antropologica, Bloch riconosceva l’idea che sostiene la ricerca di Sartre: «sono gli uomini che la storia vuol afferrare. […] Il bravo storico somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda».

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