Giorgio R. Cardona: lo storico, l'orco e l'umano
Il suo pensiero era una rete di ragno lieve, mobilissima: in un istante annodava e connetteva idee, parole, conoscenze e realtà distanti anni luce. Al pari degli artisti, e come il mago e lo sciamano di Ernesto de Martino, Giorgio Raimondo Cardona era «il signore del limite, l’esploratore dell’oltre, l’eroe della presenza».
Convivevano in lui Mercurio e Vulcano, divinità complementari e contrapposte: «Mercurio la sintonia, ossia la partecipazione al mondo intorno a noi; Vulcano la focalità, ossia la concentrazione costruttiva», secondo la splendida formulazione che il suo amato Italo Calvino affidò alla lezione americana sulla Rapidità. Non so se Giorgio abbia avuto il tempo di leggerla, poiché il libro uscì da Garzanti il 7 luglio 1988, e lui scomparve il 14 di agosto, stroncato con furia dal fato. Ma mi piace pensare che sì, l’abbia letta, Giorgio, quella pagina mercuriale e vulcanica: lui che di Calvino raccoglitore di fiabe aveva colto, in un saggio del 1983 su Culture dell’oralità e culture della scrittura (lo si trova nel volume postumo I linguaggi del sapere che curai nel 1990 per Laterza), alcuni tratti che sembravano i suoi riflessi in uno specchio, velato da una leggera ironia: «stilista e riscrittore, ebanista di trame e percorsi, curioso del potere evocativo di suoni e parole, generatore di una lingua armoniosa ma freddamente imperturbabile e non localizzabile».
Giorgio Cardona creava ponti fra i saperi e le pratiche culturali. Volava, attraversava fulmineo spazi e tempi in cerca dell’umano nascosto nelle “cose”, perché, ripeteva con Marc Bloch, il vero storico «somiglia all’orco della fiaba: egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Fin da giovanissimo si era imposto come un maestro favoloso (insegnava glottologia e armeno classico, ma conosceva una decina di lingue orientali, africane, amerindie), e anche come un divulgatore di classe, misurato e appassionante, seducente e rigoroso. Accendeva luce, e continua ad accenderla nel pensiero che conserviamo vivo di lui, della sua vita e della sua opera.
Indimenticabili le sue lezioni affollatissime alla “Sapienza”, ma anche le sue interviste televisive e radiofoniche, le mostre da lui curate e presentate, come quella sulla scrittura, molto originale per i tempi (Charta, dal papiro al computer, 1988), o l’altra dedicata a restituire lo spaccato storico, antropologico, memoriale di un paese, Barbarano Romano, che nel 1979 si trasformò, grazie a Giorgio, a sua moglie Barbara Fiore, a Giovanna Antongini e Tito Spini, a Piero Berengo Gardin, in un laboratorio-fucina di possente vitalità, risonante della poesia a braccio cantata in ottave, con incredibili tenzoni all’osteria fra il sindaco del paese e un pastore analfabeta, chiamato “Barabba”, il quale creando all’impronta ricordava e “usava” a memoria Dante, l’Ariosto e il Tasso. Così Giorgio scovava l’umano, lo illuminava, lo salvava nell’arca della memoria scritta.
Per Giorgio Cardona scrivere, insegnare, pensare, significava accompagnare alla pari l’Altro in impensabili attraversamenti delle frontiere e nell’invenzione di rotte e di piste mai prima tentate, intricate come labirinti eppure nitidissime nel disegno che lui riusciva a delinearne. Qualche volta (come per l’etnolinguistica, l’antropologia della scrittura, la scienza della vocalità) questo superatore dei confini diventava anche un eccellente sistematore di saperi appena sbocciati. Con solidissima e sterminata erudizione e con rigore di grande filologo-antropologo fondò campi di ricerca impensati in Italia, si addentrò in foreste culturali ancora vergini, come un Livingstone coraggioso e curiosissimo. Quei saperi, quei territori stranieri, li accoglieva nella sua riflessione innovativa, integrandoli e importandoli in una cultura sostanzialmente ferma, sul piano della linguistica e dell’antropologia, all’esplosione dello strutturalismo.
Era nato il 7 gennaio 1943, e quindi proprio oggi compirebbe 80 anni, se il destino spietato non se lo fosse preso nel cuore della maturità, a 45 anni. Ma in realtà gli anni continua a compierli, vivo anche se invisibile, ogni volta che si legge una sua pagina, che si rammenta il suo pensiero. Ricordarlo significa soprattutto richiamarne lo spirito calorosamente ironico, l’entusiasmo per la ricerca e per l’insegnamento, la curiosità inesauribile. E questo in primo luogo per i più giovani che non lo hanno conosciuto di persona e che non sempre, ormai, hanno la possibilità di leggere i suoi libri meravigliosi, ancora di grande originalità nei nostri tempi di neuroscienze e di multidisciplinarità.
C’è assoluto bisogno di ripubblicare opere sue introvabili, come I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza e La foresta di piume. Manuale di etnoscienza, usciti insieme nel 1985 da Laterza. Un grande studioso lontano dall’orizzonte disciplinare di Giorgio quale Cesare Segre, in Notizie dalla crisi (1993), riprendendo l’idea fondativa di questi libri, che vede «il corpo umano come struttura fondamentale della condizione umana», salutò con piena adesione le sottili riflessioni di Cardona sul nesso «fra l’orientamento del corpo nello spazio e le preposizioni» e sulla «specularità fra l’uomo e il mondo», sull’«antropomorfizzazione del mondo e delle cose». E non a caso Giorgio si richiamava all’adorato Leonardo del Codice Trivulziano: «Ogni omo sempre si trova nel mezzo del mondo e sotto il mezzo del suo emisperio e sopra il centro d’esso mondo»: la postura eretta dell’Homo sapiens era già, per lui, l’Homo copernicanus che sfora con la testa oltre le nuvole, pronto a misurare anche l’immisurabile.
Io vorrei che i giovani potessero cercare in libreria, ripubblicata da qualche editore intelligente, anche la splendida Storia universale della scrittura (Mondadori, 1986), dove sbocciano fra l’altro, con strepitosa invenzione davvero calviniana, «la scrittura corporea» (oggi anche in Occidente il tatuaggio è diventato «un messaggio scritto» di forte connotazione sociale), «la scrittura colorata» («la nostra è un’epoca colorata quanto altre mai», rilevava Cardona), «la scrittura sognata» (mirabile la storia del sultano Njoya che sogna l’invenzione dell’alfabeto e così diviene l’eroe mitico di Fumban), addirittura «la scrittura inesistente» (un fantastico fuoco d’artificio di sapienza e di geniale serendipity).
Si può trovare di nuovo, per fortuna, l’Antropologia della scrittura (1981), riedita nel 2009 nella collana di Utet diretta da Vincenzo Matera, con una prefazione di Armando Petrucci, uno dei più grandi paleografi del nostro tempo. E quando leggiamo, dedicate a Cardona, le parole in cui Petrucci condensa il valore dell’esistenza di un uomo totale, non possiamo non pensare anche a lui, così vicino a Giorgio, che alla scrittura dedicò l’intera vita di studioso, con uno spirito radicalmente civile e politico: «Nessuno poteva seguirlo attraverso la fitta trama delle sue molteplici competenze, tutte apparentemente centrifughe e fra loro lontane; tutte, in realtà, centripete e guidate dalla sua suprema capacità di sintesi, verso un grumo unitario consistente nel confronto e nel rapporto fra attualità linguistico-grafiche e società». Entrambi, il maturo rifondatore della paleografia come scienza umana e il giovane maestro di linguistica come disciplina antropologica, ci hanno insegnato a ripercorrere a ritroso il movimento che va, nell’evento della scrittura, dalla mente alla mano, traducendo l’idea in azione e cosa, in testimonianza e eredità. Entrambi hanno messo in luce i più segreti aspetti antropologici, sociologici, letterari, artistici, celati nei sistemi di comunicazione grafica, facendo risaltare l’importanza del rapporto fra il pensiero istantaneo e il lento moto della mano che, inseguendo quel flusso sfolgorante, crea semplici manufatti e opere d’arte, allinea lettere per dare alle idee corpo vocale di parola.
Per Cardona, come per Petrucci, la scrittura non è solo un’invenzione tecnica destinata alla comunicazione e alla conservazione, appunto, di parole e idee: ma una struttura complessa, di valore anche ideologico e simbolico, su cui le società edificano e controllano i sistemi di conoscenza e di manipolazione della realtà. Studiare una scrittura cogliendone le valenze gnoseologiche, sacrali, magiche, divinatorie, significa apprezzarne il radicamento entro una civiltà, nella sua visione del mondo. Come dice in Antropologia della scrittura, il ricorso all’atto di scrivere si collega immediatamente all’acquisizione da parte della civiltà umana di «un collegamento tra pensiero e simboli materiali; per la prima volta la specie veniva a istituire un rapporto simbolico tra operazioni mentali e simboli esterni, eseguiti volontariamente. Se il rapporto tra pensiero e utensile è un rapporto sostanzialmente operativo (lo strumento non solo rendeva possibili certe operazioni, prima soltanto pensate, ma ne permetteva anche altre, prima non pensabili), quello tra pensiero e immagine è eminentemente simbolico: l’immagine viene caricata di un significato che essa restituirà in un qualsiasi momento, non appena riconsultata. L’attività grafica rappresenta quindi un ampliamento delle capacità conoscitive, ed è anche una caratteristica esclusiva della specie homo sapiens, visto che né il linguaggio né lo stesso uso di utensili lo sono».
Ho ricordato poco fa Marc Bloch, maestro di pensiero della storia come storia dell’umano. Nella dedica a Lucien Febvre dell’Apologia della storia Bloch indicava la rotta dell’umanesimo di ogni ricerca storica: «A lungo e concordemente abbiamo lottato per una storia più ampia e più umana». E Cardona, insieme con Petrucci e i loro comuni allievi, condivise nei fatti la definizione del lavoro di storico che lo stesso Bloch cesellò con grande umiltà: «il memento di un artigiano che ha sempre amato meditare sul proprio compito quotidiano, il taccuino di un operaio che, pur avendo a lungo maneggiato tesa e livello, non si crede, per ciò, un matematico». Cardona e Petrucci, facendo convergere le loro discipline, la paleografia e la linguistica, in dimensioni mai in precedenza esplorate, ci insegnarono a risalire sempre dalle tracce ai loro produttori, dalle testimonianze ai tempi, ai luoghi e alle condizioni in cui esse hanno preso forma. Su questo orizzonte vale per loro la splendida autodefinizione di Henri Pirenne riferita da Bloch: «“Se io fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma io sono uno storico. È per questo che amo la vita”». E tanto più il commento di Bloch: «Questa capacità di afferrare il vivente, ecco davvero, in effetti, la qualità sovrana dello storico».
«Afferrare il vivente» è lo scopo dello storico, dell’antropologo, del linguista, del paleografo, in misura somma di studiosi dalla natura mercuriale e vulcanica come Giorgio Cardona: cercare di percepire, ancora pulsante dopo secoli di immobilità e di silenzio o nascosti nelle pieghe di una civiltà lontana e diversissima, il «fremito della vita umana».
Un’altra riflessione di Cardona nell’Antropologia della scrittura ribadisce che l’attività grafica di ogni scrivente costituisce la modellizzazione primaria non tanto della parola, quanto appunto del pensiero: ed è questo lo scopo finale dell’antropologia della scrittura. «La comprensione della funzione grafica [è] per noi seriamente limitata dal presupposto che si debba partire dalla codificazione della lingua. Considerando questa la prima e più importante funzione della scrittura, ci si impedisce di cogliere all’opera la funzione grafica come modellizzazione primaria del pensiero». E ancora: «La scrittura fornisce a chi la possiede anche un modello organizzativo e classificatorio delle conoscenze, una sorta di casellario in cui disporre le cose da ricordare. […] È […] abbastanza ovvio che per noi studio, applicazione mentale, sforzo intellettuale siano sinonimi soprattutto di parola scritta, di righe di testo con cui ci si confronta per molte e molte ore della propria vita. Questa simbiosi con la forma scritta è per noi ormai così avanzata che, salvo in rarissimi casi, l’organizzazione stessa di un contenuto mentale […] richiede che i nostri pensieri assumano forma scritta per potervi riflettere. […] Così anche l’attività mentale, speculativa, raziocinante, analitica, è, in buona parte e per molti, riflessione in margine a un testo scritto, sia pure da noi stessi prodotto, e lo spostare una virgola o sottolineare una parola ha per noi il valore di un atto di pensiero e di riflessione. Dunque buona parte delle nostre attività conoscitive e mentali in genere ha come punto di partenza il riferimento al modello della scrittura».
Insomma: pensiamo come scriviamo, e scriviamo come pensiamo. Il moto del pensiero, ondulatorio e desultorio quanto si voglia, viene per così dire messo in riga nell’esecuzione dell’atto conoscitivo, quasi fosse una scrittura. Al di là dei tantissimi specialismi che dominava, Giorgio desiderava sopra ogni cosa fare esperienza diretta della mente umana. Voleva penetrare il suo macchinismo e il suo organismo, cogliere la struttura-base del suo funzionamento, del suo agire, delle sue forme. Come pensa l’uomo? Qual è la forza, quali sono i modelli che plasmano e muovono il pensiero, fra la sperimentazione del mondo e la sua conoscenza ordinata? Il tema e il modo del ricercare in Giorgio si inseguivano, si corrispondevano esattamente. Avanzava la forza limpida della sua argomentazione, proprio come fluisce liquido il pensiero nel solco della scrittura.
Andando a caccia dell’«organizzazione stessa del pensiero», Giorgio Cardona capì, dieci o vent’anni prima di Oliver Sacks, Gerald M. Edelmann e António Damásio, che la mente non è solo linguistica, ma visiva, emozionale, passionale: i segni linguistici, diceva in La foresta di piume, «non ci danno automaticamente l’immagine del campo noetico corrispondente, perché non tutti i nuclei concettuali devono necessariamente trovare riflesso in un segno; tra il piano noetico soltanto e quello linguistico non c’è necessariamente isomorfismo». Il titolo del libro parla chiaro: il linguaggio “poggia” sul pensiero, lo plasma, prende forma in esso, lo indirizza e lo fa fluire. Ma non coincide con esso, così come un albero può essere coperto di uccelli senza mutare la sua natura, ma accogliendo, sostenendo, i volatili che vi si posano.
Come «la scrittura sognata», che unicamente il suo acume poteva scovare, il pensiero stesso si rivela prosa del mondo, «messa in forma dei significati del mondo che abbiamo cercato e desiderato nella veglia, e che solo nel sogno prende contorni e suddivisioni» (Storia universale della scrittura). E questo dare contorni, suddividere, articolare la realtà, è l’opera del linguaggio, «elemento primario nella vita di una comunità, strumento fondamentale dell’interazione tra uomo ed uomo» (Introduzione all’etnolinguistica, 1976, riedita per UTET da Vincenzo Matera, con una introduzione di Marco Mancini, nel 2006).
Fra gli strumenti più fini, quasi invisibili, di controllo e di interazione sociale Giorgio Cardona individuava i giochi di parole, i proverbi, gli insulti, i richiami, gli indovinelli: stili di pensiero, ritmi musicali che la voce innesta nel tempo quotidiano ritagliandovi la sospensione della prosa, e facendovi balenare il tempo del mito, il fulmine della poesia.