Javier Marías negli interstizi del Tempo

14 Settembre 2022

«Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta fra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome. Nessuno pensa mai che qualcuno possa morire nel momento più inopportuno anche se questo capita di continuo, e crediamo che nessuno se non chi sia previsto dovrà morire accanto a noi. Molte volte si nascondono i fatti o le circostanze: i vivi e quello che muore – se ha il tempo di accorgersene – spesso provano vergogna per la forma della morte possibile e per le sue apparenze, e anche per la causa. […] A volte per suscitare l’ilarità basta che il morto sia uno sconosciuto, della cui disgrazia inevitabilmente ridicola leggiamo sui giornali, poveretto, si dice in preda alle risate, la morte come rappresentazione o come spettacolo di cui si dà notizia, tutte quante le storie che si raccontano o si leggono o si ascoltano percepite come teatro, c’è sempre un grado di irrealtà in ciò di cui ci informano, come se niente accadesse mai per intero, nemmeno quello che capita a noi e che non dimentichiamo. Nemmeno quello che non dimentichiamo».

Dimenticare, non dimenticare: è uno dei dilemmi su cui si impernia la scrittura di Javier Marías, che ruota per intero intorno al Tempo (Negra espalda del tiempo, del 1998, – trad. it. Nera schiena del tempo, Einaudi 2019, – è un magnifico romanzo non-romanzo sul “dorso oscuro” della temporalità, sul tempo che cogliamo solo nel suo “nero rovescio”, quando sta sfuggendo). Alla memoria del lettore ritorna oggi, fulminante (nella versione mirabile di Glauco Felici, che Marías amò e volle sempre come suo traduttore, fino alla sua scomparsa nel 2012) l’incipit di quello che a me continua a sembrare il suo capolavoro, Mañana en la batalla piensa en mí (1994; trad. it. Domani nella battaglia pensa a me, Einaudi, 2014 ).

Ora che se lo è portato via un virus ridicolo e selvaggio trasformato in Polmonite, capace di diventare «rappresentazione» e «spettacolo» universale e al contempo di «suscitare l’ilarità» di alcuni irresponsabili negazionisti, Javier Marías, che certo «uno sconosciuto» non era, a cui anzi spetta il titolo di più celebre e premiato fra gli scrittori in lingua spagnola del nostro tempo, diventa un personaggio dei suoi romanzi: uno di quei fantasmi che vanno e vengono stretti a un nome, intorno ai quali aleggia «un grado di irrealtà», come se niente di ciò che li riguarda «accadesse mai per intero». Proviamo a restituire ascolto al coro polifonico delle voci che emergono, cozzano, si intridono, sfumano l’una nell’altra, in questa scrittura che sembra imperniata sempre sulla dýnamis, la potenza, e mai sulla sua “realizzazione”, sull’atto: scrittura della potenza, soprattutto della potenza del non, del non fare, del non accadere, del non pensare, del non essere.

In costante squilibrio fra realtà e irrealtà, accadimento e finzione, ogni gesto dei suoi protagonisti sembra riprodursi senza tregua come in un sogno, nella «ripetizione o il riverbero infiniti di ciò che una volta fecero o di ciò che ebbe luogo un giorno: infinito, ma ogni volta più stanco e tenue». E di libro in libro, in un immenso puzzle che sembra pensato tutto contemporaneamente, prima ancora di venir composto in forma di testi, ritornano non solo “le cose”, “i personaggi”, “le idee”, “i giorni”, ma in primo luogo le parole, come mantra attraverso i quali si cerca di fermare il tempo riconoscendo il suo eterno ritorno. In questo senso si può intendere l’idea di Isabel Cuñado che quella di Marías sia una «realidad narrativa aglutinadora».

Così in Mañana en la batalla piensa en mí, dall’inizio alla fine, in un gioco di rispecchiamenti a dir poco allucinatorio: «…perché questo giorno, questo mese, questa settimana, un martedì di gennaio o una domenica di settembre, mesi antipatici e giorni che non si scelgono, che cosa è a decidere che si fermi ciò che era in movimento senza che intervenga la volontà, o forse sì, sì, interviene facendosi da parte, forse è la volontà ciò che a un tratto si stanca e tirandosi indietro ci porta la morte, non voler più volere e non volere niente, neppure curarsi, neppure uscire dalla malattia e dal dolore in cui si trova per mancanza di tutto il resto che questi stessi cacciano via o forse usurpano, perché fino a quando sono qui è ancora no, ancora no, e si può continuare a pensare e si può continuare ad accomiatarsi. Addio risate e addio offese.

Non vi vedrò più, né voi vedrete me. E addio ardore, addio ricordi»; e poi nell’ultima pagina del romanzo, imbevuto, fin dal titolo, della memoria del Riccardo III shakespeariano: «Quando le cose finiscono ormai hanno un loro numero e il mondo dipende allora dai suoi relatori, ma per poco tempo e non del tutto, non si esce mai del tutto dall’ombra, gli altri non finiscono mai e c’è sempre qualcuno per cui si racchiude un mistero. […] E quanto poco rimane di ogni individuo nel tempo inutile come la neve scivolosa, di quanto poco rimane traccia, e di quel poco tanto si tace, e di quello che non si tace si ricorda dopo soltanto una parte minima, e per poco tempo: mentre viaggiamo verso il nostro sfumare lentamente per transitare soltanto alla schiena o al rovescio di quel tempo, dove non si può continuare a pensare se non si può continuare a prendere commiato: “Addio risate e addio oltraggi. Non vi vedrò più, né voi mi vedrete. E addio ardore, addio ricordi”».

La schiena scura e lunga del Tempo stende già il suo profilo nero, anni prima, nello sfumare di una scrittura nell’altra, di un “io” nella sua ombra rovesciata. Protagonista fondamentale dei romanzi di Marías è proprio la Morte, o forse il suo continuo rinvio attraverso la scrittura, visto che Lei è sempre avvolta come in un sudario entro spirali vaste e sinuose di sintassi che si riverberano per intere pagine, dall’inizio alla fine di ogni libro, quali leitmotive ricorrenti, in forma di onda. Questa sintassi ha il respiro sospeso di un’apnea spinta oltre il limite concepibile, là dove il fiato sta per mancare mentre le idee si spalancano, disponendosi in un ordine straordinariamente teso e limpido.

Una sintassi simile, lacerata fra l’asma e la glossolalia pentecostale, protesa per pagine ininterrotte a evitare la fine, seppe tessere Thomas Bernhard, non a caso adorato da Marías. Anche quella di Marías è una sintassi ricamata per allontanare, per dar voce allo Spirito e respingere la Morte: la trattiene per pagine e pagine di splendide frasi-volute dal fastoso slancio barocco che inganna lo sguardo e la mente con la sua geometria insieme rigorosa e sghemba. La avviluppa, sfugge al suo sguardo di Medusa occhieggiandola dalla negra espalda del tiempo.

Oppure quest’arcata stilistica rarefatta come la stratosfera (difficilissimo “tagliare” una citazione, in Marías!) la dichiara subito, la Morte, negandola attraverso una strepitosa ricostruzione a ritroso, quasi il riavvolgersi della pellicola che smonta e rimonta con uno stupefacente ralenti i minimi dettagli degli eventi impliciti nell’esito subito esposto, come nell’incipit appena rammentato di Mañana en la batalla piensa en mí o in quello di Corazón tan blanco (1992; trad. it, Un cuore così bianco, Einaudi, 2014): «Non ho voluto sapere, ma ho saputo che una delle bambine, quando non era più una bambina ed era da poco tornata dal suo viaggio di nozze, entrò nel bagno, si mise davanti allo specchio, si aprì la camicetta, si tolse il reggiseno e si cercò il cuore con la bocca della pistola del padre, il quale si trovava in sala da pranzo in compagnia di parte della famiglia e di tre ospiti.

Quando si udì lo sparo, più o meno cinque minuti dopo che la bambina si era allontanata da tavola, il padre non si alzò subito, ma rimase per qualche secondo paralizzato e a bocca aperta, senza osare masticare né ingoiare e meno che mai sputare il boccone nel piatto […]». All’estremo opposto del libro, verso la fine, il «non sapere» riemerge come leitmotiv ossessivo, insieme con il «parlare» e il «tacere»: «Chi non ha mai sospettato? In presenza di sospetti si possono adottare due misure, entrambe inutili, chiedere e tacere.

Se si chiede e si costringe può darsi che si arrivi a sentirsi dire “Io non c’entro”, e bisognerà far caso a tutto ciò che non parla, al tono, agli occhi sfuggenti, alle vibrazioni della voce, alla sorpresa e all’indignazione magari false; e la domanda non si potrà più rifare. […] Se si tace bisogna neutralizzare il sospetto e annientare la domanda, o altrimenti alimentare il primo e preparare la seconda con estrema cautela, quel che risulta impossibile è confermare il sospetto, nessuno sa niente di ciò cui non ha assistito, […] la gente mente allo stesso modo in cui muore, sembra impossibile ma niente si può mai sapere. […] E il mondo intero si affanna senza sosta a raccontare e, fatto questo, si affanna senza sosta a occultare, solo quel che non si dice non si racconta né si occulta. Ma questo, quel che si tace, si trasforma in segreto, e a volte arriva il giorno che si finisce col raccontarlo. […] C’è sempre qualcuno che non sa qualcosa o non vuole saperla, e avanti così in eterno».

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Una delle pagine più geniali di Marías, in Negra espalda del tiempo, con uno splendido scivolamento di metafore sulla luce che mi ricorda l’armonioso, largo gesto stilistico di certi scrittori contemplativi del Medio Evo (Riccardo di San Vittore) o del barocco (Juan de la Cruz, Miguel de Molinos), è dedicata all’impercettibile scarto temporale, al «limite illusorio» fra la notte, l’alba e la piena luce del giorno, fra l’esserci-ancora e il non-esserci-più, come nell’Impero della luce di René Magritte, a cui probabilmente Marías pensò: «Tutto è più misterioso, è piuttosto un prolungamento artificiale, attenuante e inerte di ciò che ormai è cessato e un rifiuto protocollare a cedere il passo o a indicare l’inizio di ciò che arriva, come quei lampioni che rimangono accesi ancora per un po’ quando ormai ha fatto giorno nelle grandi città e nei paesi e nelle stazioni ferroviarie e nelle fermate vuote, e rimangono ancora occhieggianti e diritti di fronte alla luce naturale che avanza e li fa diventare superflui. […] Quelle luci elettriche fingono che sia ancora notte e che la loro partecipazione sia ancora necessaria, si comportano come se non si rendessero conto della fine del loro regno, e a sua volta la luce del giorno finge di non vederle e le tollera, ben sapendo che quelle luminosità dilavate non sono più una minaccia, e sembra perfino arrestarsi un po’ nel suo dispiegarsi come se concedesse loro il tempo per abituarsi all’inutilità ormai giunta e all’idea della fine […]».

Marías è uno scrittore interstiziale. L’interstizio, appunto, l’intermittenza, la fenditura fra i tempi, sono il suo territorio, ove prendono forma «il rovescio o quella nera schiena attraverso la quale scorre la voce capricciosa e imprevedibile che tuttavia conosciamo tutti, la voce del tempo quando ancora non è passato né si è perduto e forse per questo non è neppure tempo, quella voce che sentiamo in modo permanente e che è sempre fittizia, credo, come sempre lo è e lo fu e lo sarà fino alla sua fine quella che qui sta parlando». Fra i grandi precursori di questo essere-fra, dopo il Dostoevskij del podpól’e (che superficialmente si usa tradurre con “sottosuolo”) e il Kafka della tana, è Fernando Pessoa, il quale nelle poesie esoteriche inventò un King of Gaps, Re degli interstizi, «signore di ciò che sta fra cosa e cosa, / degli intraesseri, di quella nostra parte / che sta tra veglia e sonno, / tra silenzio e parola», e nel Libro dell’inquietudine scriveva che «la vita è [...] un intervallo, un nesso, una relazione, ma una relazione tra ciò che è successo e ciò che succederà, intervallo morto tra la Morte e la Morte».

Lo stesso ritmato alternarsi fra il sapere e il non sapere, fra la nascita e la morte, fa di ogni romanzo di Marías (se poi davvero la parola “romanzo” riesce a contenere la sua scrittura cosmica, stellare) un ampio giro di danza, uno sconfinato ruotare planetario. Fino alla fine, alla coppia di libri speculari su un amore impossibile fra la moglie Berta Isla (2017; trad. it., Berta Isla, Einaudi, 2019) e il marito Tomás Nevinson (2021; trad. it. Tomás Nevinson, Einaudi, 2022), straordinario esempio di moltiplicazione dei punti di vista da cui si può raccontare l’«intraessere», «ciò che sta fra cosa e cosa». Così si apre Berta Isla, in cui riecheggiano, oltre che le citazioni da classici (in genere da Shakespeare, come in tutti i libri, e soprattutto nei titoli di Marías), anche gli avvii di Mañana en la batalla piensa en mí e di Corazón tan blanco: «Per molto tempo non avrebbe saputo dire se suo marito era suo marito, in modo simile a come non saprebbe dire, nel dormiveglia, se sta pensando o sognando, se ha ancora il controllo della propria mente o se lo ha già perduto per lo sfinimento.

A volte pensava di sì, altre volte di no, e a volte decideva di non pensare e di continuare a vivere la sua vita con lui, o con quell’uomo che assomigliava a lui, più vecchio di lui. Anche lei del resto era invecchiata, per conto suo, in sua assenza, era molto giovane quando lo aveva sposato». E così, 460 pagine più tardi, la storia si chiude, pronta a ribaltarsi e a riprendere nello specchio di Tomás Nevinson: «Per un certo periodo non fui sicura che mio marito fosse mio marito, o forse avevo bisogno di non esserne sicura e per un po’ giocai a non esserlo. A volte credevo di sì, che lo fosse, a volte credevo di no, e a volte decidevo di non credere né una cosa né l’altra e di vivere la mia vita con lui o con l’uomo che assomigliava a lui ma trasformato, più vecchio, tornato da chissà quale nebbia senza che fosse mai stato nel mondo dei morti. Quindi di lui non si poteva dire: “Noi moriamo con quelli che muoiono: ecco, se ne vanno, e noi andiamo con loro”. Però si poteva dire: “Noi nasciamo con i morti: ecco, essi tornano, e ci portano con loro”. Ma anch’io ero invecchiata per conto mio, in sua assenza».

Il ritmo organico-narrativo di Marías ha ereditato qualcosa del fatale “tempo curvo” di Cent'anni di solitudine, fra l’irruzione di un “dopo” senza un “prima” del celebre inizio («Muchos años después…») e l’istante ancora futuro che sigilla il romanzo, quando Aureliano Babilonia «acabara de descifrar los pergaminos» in cui si racchiude il destino. In Marías non si dà l’incantesimo liberatorio del “realismo magico”, l’invenzione sterminata di un intero universo sospeso nel tempo, secondo un percorso che Italo Calvino nelle Lezioni americane (Molteplicità) così sintetizzava: «La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là di ogni possibilità di realizzazione».

Nella Lezione precedente (Visibilità) aveva già insistito su questa soglia della concreta realizzabilità: «La fantasia dell’artista è un mondo di potenzialità che nessuna opera riuscirà a mettere in atto; quello di cui facciamo esperienza vivendo è un altro mondo, che risponde ad altre forme d’ordine e di disordine; gli strati di parole che s’accumulano sulle pagine come gli strati di colore sulla tela sono un altro mondo ancora, anch’esso infinito, ma più governabile, meno refrattario a una forma». In Marías mi sembra resistere una ritmicità musicale del tempo come nel Valéry dei Cahiers («La mia “ispirazione” non è verbale. Essa non procede per parole – piuttosto per forme musicali»), ed anche un’idea della letteratura più astrattamente intellettuale, tutta mentale, già viva in Pessoa («Il mio destino naturale di contemplatore senza fine e appassionato delle apparenze e delle manifestazioni delle cose») e in Borges («Io affermo che la Biblioteca è interminabile»): quella della finzione.

Gli scrittori di questa razza non possono che essere calati in una vita in potenza; e in certo modo si identificano, così, con la potenza della vita, e la portano alla luce. La loro scrittura è figura della mente, e la Mente (come ha scritto Giorgio Agamben, Bartleby o della contingenza, 1993), è «non una cosa, bensì un essere di pura potenza»: e «ogni potenza di essere o di fare qualcosa è […] sempre anche potenza di non essere o di non fare».

Marías, scrittore interstiziale, va in cerca dell’intercapedine fra il possibile e il reale, fra la Storia che “è stata” e la narrazione in quanto storia che “non è stata finché non la si è scritta”. In Negra espalda del tiempo l’invenzione romanzesca è definita paradossalmente come «l’orrore di ciò che sembra esistere finché lo leggiamo […] e che pure non è mai stato». Ma c’è un rovescio luminoso anche per questo orrore del “non essere mai stato”; ed è Marías stesso a delinearne un ritratto stupendo. Quando a Caracas, il 2 agosto 1995, ricevette il Premio Rómulo Gallegos come miglior narratore in lingua spagnola, Marías pronunciò un magnifico discorso, Lo que no sucede y sucede, nel quale sintetizzava alcune idee venute luminosamente a galla nei primi libri.

Anzitutto la definizione drastica, borgesiana: «Oggi il romanzo è ancora la forma più elaborata di finzione, o così credo». E poi, una vera e propria teoria quantistica della letteratura come sistema dei sistemi e loro negazione, potenza di dire e di essere e al contempo potenza di non dire e di non essere. Credo che Werner Heisenberg avrebbe ammirato questa pagina cosmogonica e potenziale, che duella con il desiderio di Perfezione cercando così di allontanare la Morte, e quindi accoglie in un solo abbraccio tutto ciò che è stato e tutto ciò che avrebbe potuto essere: «In fondo, tutti abbiamo la stessa tendenza, vale a dire quella di vederci nelle diverse fasi della nostra vita come risultato e compendio di ciò che ci è accaduto e di ciò che abbiamo ottenuto e di ciò che abbiamo realizzato, come se fosse soltanto questo ciò che costituisce la nostra esistenza.

E dimentichiamo quasi sempre che le vite delle persone non sono soltanto questo: ogni percorso si compone anche delle nostre perdite e dei nostri rifiuti, delle nostre omissioni e dei nostri desideri insoddisfatti, di ciò che una volta abbiamo tralasciato o non abbiamo scelto o non abbiamo ottenuto, delle numerose possibilità che nella maggior parte dei casi non sono giunte a realizzarsi – tutte tranne una, alla fin fine –, delle nostre esitazioni e dei nostri sogni, dei progetti falliti e delle aspirazioni false o deboli, delle paure che ci hanno paralizzati, di ciò che abbiamo abbandonato e di ciò che ci ha abbandonati. Insomma, noi persone forse consistiamo tanto in ciò che siamo quanto in ciò che siamo stati, tanto in ciò che è verificabile e quantificabile e rammemorabile quanto in ciò che è più incerto, indeciso e sfumato, forse siamo fatti in ugual misura di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere».

I romanzi, per Marías, «succedono per il fatto che esistono e vengono letti e, a ben vedere, con il passare del tempo ha assunto più realtà Don Chisciotte che qualunque altro dei suoi contemporanei storici della Spagna del XVII secolo; Sherlock Holmes è successo in misura più ampia che non la regina Vittoria perché continua ancora a succedere ininterrottamente, come fosse un rito». Lo que no se ha cumplido si intitolava un breve scritto legato a El hombre sentimental (trad. it. L'uomo sentimentale, Einaudi, 2016), che Marías inserì nel 1993 nella raccolta di saggi Literatura y fantasma. È il tema centrale di tutta la sua poetica: l’incompiutezza, l’irrealizzabilità, la potenzialità, il “succedere” di ciò che “Non è successo” nella Storia grazie all’esperienza della letteratura.

Esiste una pagina mirabile di Italo Calvino, nel Castello dei giardini incrociati (1969), che probabilmente ispirò a Marías alcune di queste riflessioni. Mi piace pensare a un Javier Marías che legge e medita quel libro borgesiano e strutturalistico, ricordando che, sia pure su un diverso piano di stile e di pensiero, Calvino coniugò la leggerezza «con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso»: «È in cielo che tu devi salire, Astolfo, […] su nei campi pallidi della Luna, dove uno sterminato deposito conserva dentro ampolle messe in fila […] le storie che gli uomini non vivono, i pensieri che bussano una volta alla soglia della coscienza e svaniscono per sempre, le particelle del possibile scartate nel gioco delle combinazioni, le soluzioni a cui si potrebbe arrivare e non si arriva».

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