Asor Rosa: alla radice delle cose
Ora che questo Maestro, partendo per sempre, ci ricorda d’improvviso che anche i Grandi Vecchi hanno un corpo, e dunque un tempo, mentre noi senza neppure pensarci li sentivamo immortali come i Classici, mi torna alla mente una pagina che amo molto, e che Alberto Asor Rosa scrisse esattamente trent’anni fa per Genus italicum (1992). Le idee che fissa con una prosa nitidissima, com’era sul foglio il suo tratto in punta di stilografica, chiaro e ordinato come una pagina di Calvino, sono alla base di molti suoi studi. Vi scandisce anzitutto una definizione originale del classico, che è stato fra i suoi temi di studio più vivi, ma anche una misura di quell’antropologia della civiltà letteraria che fu peculiare della sua ricerca: «I grandi classici sono sempre degli scrittori “radicali”, nel senso proprio del termine, in quanto, appunto, “vanno alla radice delle cose”, esplorano, sommuovono le profondità dell’essere, come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto. […] In ogni grande classico l’elemento barbarico, primitivo, è almeno altrettanto forte di quello che esprime la civiltà e la cultura. Dioniso sta dietro ad Apollo, ed è da lui che viene la forza primigenia del grande autore: prima di prendere forma, prima di assumere l’involucro armonico che più facilmente scorgiamo, c’è uno sconvolgimento tellurico che cambia la forma del territorio e inonda di lava gli ordinati assetti dei letterati comuni, dei prosecutori, dei continuatori e degli esegeti. Chi vede solo Apollo, vede solo una metà del classico, e non sempre quella più significativa. […] I grandi classici […] sono esperti, più che della regolarità e della sistemazione, del “caos” e del “disordine”. Sono degli specialisti di “situazioni originarie”. Siccome l’“essere in sé”, cioè l’“origine”, si presenta come un caos e un indistinto, i grandi classici trovano le “parole”, cioè la “forma comunicabile”, per “dire” questo stato di caos e di disordine».
«Andare alla radice delle cose» per poter «esplora[re], sommuov[ere] le profondità dell’essere, come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto». L’Essere è come il ventre della madre terra, da cui l’uomo trae nutrimento sommuovendolo: il lampo della formidabile metafora agricola è un’allegoria pre-istorica, metafisica, anche se contiene una grande forza storiografica e, appunto, antropologica. Asor Rosa impernia su questo andare «alla radice delle cose» il mito di un passaggio dal caos al cosmo, dal disordine all’ordine, dall’informe al formato. In una simile prospettiva non solo il Classico è riconosciuto nel suo ruolo di pilastro dell’edificio secolare della tradizione letteraria, ma viene assunto al rango di eroe culturale, cioè di fondatore mitico della storia collettiva quale condivisione dei valori accumulati, selezionati, rideterminati nel tempo. Soprattutto è notevolissima la messa a fuoco del punto nodale: la forza del Classico non è limitata entro lo spazio della civiltà letteraria di un popolo, di una nazione, di un'età, ma consiste nella sua capacità di essere «radicale», ossia di «rovesciare radicalmente» la visione del mondo e della vita condivisa dall’intera civiltà umana.
D’altra parte la categoria ermeneutica dell’antropologia applicata in sede letteraria è evocata esplicitamente dallo stesso Asor Rosa poche pagine prima, nella Premessa antropologica, in cui l’aggettivo «italiano» viene declinato (già con richiamo esplicito alle «radici») «nel senso di schiettamente e radicalmente “italica” – con una fortissima connotazione stilistica e antropologica e un inconfondibile accento linguistico». Non «italiano», ma «italico» sarà dunque il «genus» che grazie ai suoi eroi culturali, i Classici, ha preso forma costituendosi nel tempo e nello spazio, offrendosi all’ermeneutica multipla di una geografia e storia della civiltà italiana.
Questa formula dionisottiana è decisiva proprio nell’applicazione di una nuova forma di critica letteraria avviata da Asor Rosa negli anni Novanta. In questa luce la spiegazione della categoria di «genus», nella nota al testo di Genus italicum (1997) diviene ancor più significativa, se la si ripensa nella prospettiva dell’intero progetto della Letteratura italiana che, fra 1982 e 2000, diresse per Einaudi: «Insieme con il tema delle “origini” e della “genesi” in questo libro ricorre continuamente il tema del rapporto tra il “géne” e la “lingua”: come si può capire, si tratta di due temi profondamente interconnessi fra loro. […] Se dai termini astratti dell’“identità nazionale” si passa […] ai concreti “modi d’essere” degli italiani nel tempo, si scoprono differenze ma anche relazioni assolutamente insospettabili in precedenza. Anche in questo caso l’antropologia sopperisce ai molti buchi nella storia». Il tema dell’«origine» e delle «origini», del «sostrato», del «genus» come fondazione di una lingua, di un modo di essere e di pensare, e insomma a una serie di dispositivi collettivi condivisi, pertiene a un’indagine di natura archeologico-genealogica; però si coniuga con un punto di vista trans-storico, addirittura metafisico, quello della ricerca dell’«essere in sé» che il Classico coglie e arricchisce, esattamente secondo l’etimo di auctor, (dal verbo latino augēre, “aumentare”, “far crescere”) recuperato da Asor Rosa grazie a un bel passo di Sainte-Beuve: «Un vero Classico è un autore che ha arricchito lo spirito umano, che ne ha effettivamente aumentato il tesoro, che gli ha fatto fare un passo in più».
Non esiterei a definire moralistica, nel senso storico-culturale del termine, l’adesione di Asor Rosa a una scrittura insieme allegorico-metaforica e radicalmente etica (s’intenda con chiarezza: uso il termine «moralista» proprio nel senso storiografico con cui Giovanni Macchia ideò la formula «moralisti classici» per Montaigne e i suoi successori). Ad esempio, quando recupera dalle Lezioni americane la bella immagine del valore dell’essere umano, e della letteratura quale forma altissima della sua creatività, come «un “ponte” gettato tra un millennio e l’altro», riconoscendo che «l’espressione era già presente significativamente in Campana», derivata dallo Zarathustra di Nietzsche: «Quel che è grande nell’uomo è che egli è un ponte e non un fine: quel che si può amare nell’uomo è che egli è un passaggio e un trapasso».
Per questa via in anni recenti Asor Rosa recupera anche, come maestro di sospetto, di «Illuminismo negativo» e di «dimensione critica ed esplorativa», il «Nietzsche sistematico e profetico» di Così parlò Zarathustra e di Al di là del bene e del male, che non era entrato nel suo cànone personale nelle letture degli anni Sessanta e Settanta: Umano, troppo umano, Aurora, La gaia scienza, La nascita della tragedia. L’autobiografia intellettuale consegnata nel 2011 a Le armi della critica la genealogia spirituale lo conferma: «A me interessava il Nietzsche critico della morale e del “sistema” borghese ottocentesco, nel quale non era difficile ravvisare tratti che lo avvicinavano al nostro, ed eventualmente moralista lui medesimo». Proprio Nietzsche è ricordato fra i pochi intellettuali che hanno «gettato lo sguardo più profondo sul nostro tempo», accanto solo a Karl Marx (restituito alla «grande storia della “filosofia classica tedesca” […] e […] alla demistificazione del “mondo moderno”, il mondo, cioè, in cui nonostante tutte le evoluzioni e modificazioni, noi continuavamo a vivere e a tentare di guardarci intorno per capire») e a Giacomo Leopardi («l’amico lontano, il coetaneo fraterno» che aiuta a capire il senso di una lunga e profonda «attesa», pur «nella inconscia premonizione di una ancor più grandiosa disillusione»).
La riflessione di Asor Rosa su questa allegoria dell’uomo come ponte apre verso una direzione epistemologica molto interessante circa «il valore mediatorio, intermediario e inevitabilmente maieutico» della critica letteraria. In un universo complesso ma depauperato di «simbolico», a cui si riduce «quella che siamo abituati a pensare nel suo complesso come la civiltà democratico-occidentale» in piena «crisi di dissoluzione, e al tempo stesso d’identità, di auto-riconoscimento e di nuovo radicamento», la critica letteraria (al pari della letteratura) si rivela, in pieno senso antropologico, un dispositivo di mediazione interculturale.
A proposito dell’immagine del ponte Asor Rosa così commenta: «È un’immagine che in questo momento mi affascina. Suggerisce un’idea di “funzione”, che corrisponde perfettamente al ragionamento che sto cercando di fare. Se il sistema culturale democratico-occidentale è tutto in movimento, può essere utile stendere sulle fessure e sui crepacci che si vanno aprendo una serie di passerelle e di trampolini, che consentano ad un intero continente che si va sganciando di mantenere una trama di relazioni con il proprio passato. Mercurio, anche se non ha le capacità aeree di un Angelus novus, ha ali per volare, anzi, meglio, per balzare agilmente da un punto all’altro dell’arcipelago in cui il vecchio continente si sta frantumando. In questo senso niente di meglio della critica letteraria, disciplina tipicamente intermediaria, per svolgere tale funzione».
Ancora una volta la critica letteraria, insieme con la letteratura, è chiamata in causa da Asor Rosa come visione complessa del mondo, sguardo conoscitivo sulla realtà, coerentemente con l’assunto etico-politico ed epistémico che lui stesso definisce antropologico, peculiare di una scienza dell’umano espresso attraverso la complessità della parola letteraria: non a caso la grande opera da lui diretta si intitolò Letteratura italiana, e non Storia della letteratura italiana. È in questa prospettiva che la ricerca di Asor Rosa mi pare accostabile (ovviamente senza pensare a una derivazione diretta) a quella di Edward W. Said, il quale ha saputo coniugare lo sguardo antropologico con la filologia, riconoscendo a entrambe la «funzione» di «ponte», di «passaggio», di «trapasso» fra i tempi, gli spazi, le civiltà, gli schemi identitari: «Quando la smetteremo di pensare all'umanesimo come a una forma di autocompiacimento invece che come una sconvolgente avventura nei territori della differenza, tra tradizioni alternative, in testi che richiedono una nuova decifrazione in un contesto molto più ampio di quello che è stato finora loro assegnato?»; «L’umanesimo ha a che fare con la lettura, con l’individuazione di una prospettiva, e […] con i passaggi da un campo o un’area dell’esperienza umana all’altra. Riguarda anche la pratica delle identità […]. Noi dispieghiamo un’identità alternativa alla nostra quando leggiamo e mettiamo in relazione differenti parti del testo tra loro, oppure quando allarghiamo il campo di interesse fino a includere ambiti di pertinenza sempre più ampi».
Nel lavoro di Asor Rosa riconosco una solidarietà profonda tra la riflessione sulla letteratura, quella etico-politica, e la scrittura creativa in cui le emozioni prendono parola e forma letteraria. Già nelle pagine aforistiche di L’ultimo paradosso (1985) si colgono sottili considerazioni intorno all’essenza della vita come sostrato «originario, primitivo», «primordiale», e al rapporto fra memoria e progetto di futuro: «Ciò che siamo. Forse la storia non è che una corsa affannosa alla conoscenza di ciò che siamo, ossia di ciò che fummo, poiché ciò che fummo è ciò che siamo. Forse il sogno della storia è di cogliere l’essenza della vita, cioè il suo carattere originale, primitivo. Ma primitivo è sinonimo di primordiale. Forse, allora, tutto si risolverebbe se riuscissimo ad immaginare anche solo per un istante il guizzo balenante nella mente di un lontano progenitore, la prima volta in cui accadde all’uomo o di progettare o di ricordare (o le due cose insieme). Ma poiché questo sembra impossibile, bisognerà accontentarsi anche per il futuro di una mezza-conoscenza, di una conoscenza imprecisa e approssimativa».
E così pure, aprendo L’alba di un mondo nuovo con una sezione dal titolo esplicitamente hegeliano, La luce del crepuscolo (2002), ma con più di un richiamo al tema dello “sguardo” approfondito da Italo Calvino, è sulla memoria che lo scrittore/saggista si ferma: «La memoria è la facoltà più singolare della mente umana», per cui «“capire” e “fare” (“intelligenza” e “azione”) […] sono contraddistinti da uno svolgimento sostanzialmente lineare. […] Ma la memoria è molto meno prevedibile e molto meno motivata da una necessità di tipo razionale. […] L’immaginario umano è in gran parte un frutto della memoria: e tra realtà e irrealtà, nell’immaginario, la differenza non è grande, il confine non è né preclusivo né insormontabile. […] La memoria […] crea: essa è tutt’altro che ripetitiva; non è un calco della nostra storia. […] Il tempo della memoria è il crepuscolo, e il suo sentimento è la malinconia. […] Si ricorda per restare il più a lungo possibile davanti allo specchio, per continuare a guardarci: è un modo, alla portata di tutti, per fronteggiare l’irrimediabile che sta lì in attesa dietro l’angolo».
È significativo che la dimensione della ricerca intorno al «genus» e all’«origine», all’inizio, e di conseguenza alla probabile fine apocalittica, senza ritorno, maturi pienamente in Asor Rosa attraverso un confronto solidale e davvero «radicale» con la prospettiva mitico-antropologica circa la letteratura espressa dal più razionale e geometrico dei nostri scrittori, Italo Calvino. Asor Rosa condivide il suo punto di vista sulla letteratura come sguardo profondo e oggettivo insieme, strumento di conoscenza della realtà, visione del mondo capace di indicare non solo lo stato attuale, ma i percorsi da progettare per il futuro: «Quello cui io tendo, l'unica cosa che vorrei poter insegnare, è un nuovo modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro» (così Calvino in una lettera a Mario Socrate del 1961).
La letteratura, per Calvino e per Asor Rosa, insegna a «guardare» la realtà, a «essere in mezzo al mondo»: ma soprattutto a scavarlo, a rovesciarlo in cerca delle radici su cui far fruttare una dimensione nuova, una diversa forma dell’esistenza nella civiltà del futuro. La letteratura, in questa prospettiva, svolge lo stesso ruolo del mito: la fondazione di una nuova realtà. Parlando delle Lezioni americane, ma in una prospettiva assai più ampia, Asor Rosa riconosce con acume e fermezza come «al fondo della letteratura» per Calvino (e assolutamente in parallelo anche per lui stesso), risieda «una sostanza mitica, che ha a che fare con la parte più profonda, germinale, della natura umana […]. Il mito si compone di vari elementi, ognuno dei quali fa riferimento ad un aspetto particolare dell’esistenza umana […]. Ma il mito non è soltanto per Calvino, junghianamente, una proiezione fantastica dell’immaginario collettivo: è anche un modo per organizzare la difesa dell’umano contro il disumano, il bestiale, il mostruoso. […] La creazione del mito serve dunque non a cancellare l’inferno e il mostro, ma a difendersene con gli unici strumenti a disposizione dell’uomo, e cioè fantasia e ragione. […] Ma il mito costituisce già una proiezione culturale del profondo. La letteratura invece spinge le sue radici ancora più giù, là dove l’insopprimibile tendenza umana alla comunicazione e all’espressione si prolunga e si perde nel buio dei tempi. […] È a questo filo millenario, il quale attraversa tutta la storia dell’uomo, che si riallaccia la letteratura dei nostri tempi».
Quando Asor Rosa, citando Sainte-Beuve, parlava di un «arricchimento», di un «aumento» spirituale offerto dal Classico, pensava a un processo di cosmicizzazione, di formazione-nel-tempo, esercitato su quel «caos e indistinto» che per Asor Rosa è appunto l’«essere in sé». L’inventio di una forma di civiltà, di una visione del mondo, riordina l’«indistinto» in cultura attraverso le forme dell’arte: il caotico conquista un nuovo equilibrio quando «i grandi classici trovano le “parole”, cioè la “forma comunicabile”, per “dire” questo stato di caos e di disordine». Il Classico è dunque l’eroe culturale che fonda una civiltà cosmicizzandola: egli assume così un carattere pienamente mitologico. La sua natura si rivela la stessa degli eroi mitici che trasformano il cháos in kósmos.
Nella lettura di Asor Rosa, ben al di là delle frontiere che ogni civiltà assegna alla letteratura, il Classico è uno sconfinatore, un avventuriero dello spirito che osa entrare in diretto contatto con il caos, il disordine originario che precede gli stati di equilibrio di ogni cultura. Il Classico sa accompagnare nell’attraversamento dei confini e nell’invenzione di rotte e di piste mai prima tentate, intricate come labirinti eppure nitidissime nel disegno che ne delinea. Anche il Classico, come il mago e lo sciamano studiati da un maestro dell’antropologia quale Ernesto de Martino, è «il signore del limite, l’esploratore dell’oltre, l’eroe della presenza». Questo mi sembra il lascito più solido e radicale di Alberto Asor Rosa: la scoperta che il Classico è, secondo il modello che Dante concentrò nel De vulgari eloquentia, un «eroe illustre» portatore di luce: un eroe della luce conoscitiva offerta all’intera umanità, luminoso ordinatore cosmico della storia comune.
Ora che Asor ci ha lasciato, riesco a capire meglio il conclusivo aforisma eponimo di L’ultimo paradosso (1985), sullo sfondo del quale mi pare di poter individuare un sottotraccia inespresso che rinvia a Palomar di Calvino (1983), in particolare alle pagine finali dedicate alla possibilità di «conoscere un’onda», esperienza fisico-gnoseologica che si concretizza solo nell’attimo della morte del protagonista: «L’ultimo paradosso è che uno sa tutto quello che gli serve per vivere nel momento in cui ha già vissuto: la mia esperienza si compie dunque sul già fatto; per ciò che devo fare, esperienza ancora non c’è; quando ce ne sarà, non ci sarà più da fare. […] La morte coincide dunque con il momento di massima esperienza dell’uomo, perché dopo di essa – come è persino ovvio, banale – non potrà essercene altra. Ma questo momento di massima esperienza arriva esattamente quando non c’è più modo di valersene: allora sappiamo tutto quanto c’era da imparare, ma questa facoltà ci è data unicamente perché allora non c’è più nulla da imparare».