Speciale
Il Classico, “eroe culturale” di Italo Calvino
Per Italo Calvino la letteratura è in primo luogo uno sguardo, un punto di vista da cui osservare, rappresentare ed essere al mondo. L’idea è esplicita già nel 1960, in una lettera all’editore francese François Wahl: «Quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare, è un nuovo modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro» (la lettera è citata da M. Belpoliti in Un modo di guardare, Prefazione a I. Calvino, Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, da lui curato per Mondadori, 2023).
In realtà il «nuovo «modo di guardare» il mondo non solo consente di “vederlo diversamente”, standoci “in mezzo”. Di più, lo interpreta, e quindi lo scrive, trasformandolo da «mondo non scritto» in «mondo scritto», secondo la formula che Calvino plasmerà vent’anni più tardi, sostenendo che «sempre scriviamo di qualcosa che non sappiamo: scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi» (I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, 1983-85). (De)scrivere il mondo significa, almeno in parte, trasformarlo. Calvino, lettore di scienziati, che elesse l’Esattezza a valore di civiltà associato alla Leggerezza, in questo è prossimo alla fisica quantistica di Niels Bohr e al principio di indeterminazione (1927) di Werner Heisenberg; al Carlo Emilio Gadda della Meditazione milanese (1928): «Procedere, conoscere è inserire alcunché nel reale, è, quindi, deformare il reale»; al Samuel Beckett (Proust, 1931): «The observer infects the observed with his own mobility».
Ragionando, nella lezione americana sulla Visibilità (1988), intorno agli elementi che «concorrono a formare la parte visuale dell’immaginazione letteraria» (soprattutto, sottolinea, nei classici più amati, «negli autori che riconosco come modelli»), ancora una volta i due momenti sono due facce di una sola realtà: «L’osservazione diretta del mondo reale, la trasfigurazione fantasmatica e onirica, il mondo figurativo trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli, e un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile, d’importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero». Calvino stesso, mentre ragiona sull’inclusione della Visibilità nell’elenco dei valori da salvare per il futuro, offre una motivazione etica e antropologica, strettamente legata all’importanza di conservare la facoltà, solo umana, di immaginare un mondo diverso, mettendo a fuoco «visioni a occhi chiusi» e facendo «scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini». La lezione si chiude con una splendida descrizione del «mondo scritto», appunto, ossia filtrato e trasposto nell’immaginazione letteraria: «Tutte le “realtà” e le “fantasie” possono prendere forma solo attraverso la scrittura, nella quale esteriorità e interiorità, mondo ed io, esperienza e fantasia appaiono composte della stessa materia verbale; le visioni polimorfe degli occhi e dell’anima si trovano contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi; pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo in una superficie sempre uguale e sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto».
La letteratura, dunque, inaugura per Calvino «un nuovo modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo», trasformandolo da «spazio bianco senza significati» (così, nel postumo La strada di San Giovanni, 1990, chiama l’ambiente naturale) in «spettacolo variopinto del mondo». Questa funzione che dà senso, valore, colore alla realtà, è in primo luogo antropologica e mitografica. Se «il mito non spiega, per un bisogno intellettuale, le cose […], ma le fonda, conferendo loro valore», come scriveva Angelo Brelich (Introduzione alla storia delle religioni, 1966), grande storico delle religioni che Calvino conobbe quasi certamente, visto che collaborò già con Pavese per la collezione viola einaudiana, allora questa energia cosmogonica caratterizza anche la letteratura, la quale ha la potenza di fondare un nuovo modo di “stare al mondo” e di “leggerlo”, trasformandolo in «mondo scritto», dunque “standoci in mezzo” e al contempo interiorizzandolo.
L’attore principale di un così titanico processo di ri-creazione mitica del mondo attraverso la letteratura è il Classico. Il Classico è auctor perché auget, “aumenta” il mondo, l’universo di cui l’uomo cerca il segreto. A metà dell’Ottocento, domandandosi, nelle Causeries du lundi, Qu’est-ce qu’un classique?, il grande critico francese Sainte-Beuve rispondeva che «un vero Classico è un autore che ha arricchito lo spirito umano, che ha realmente aumentato il suo tesoro, che gli ha fatto fare un passo in più». Anche per Calvino la forza di augēre il mondo, rendendolo più vasto e più comprensibile, fa del Classico un vero e proprio eroe culturale, generatore e portatore di memoria collettiva, di fondazione identitaria, di radicamento storico: «I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. [...] D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura. [...] Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. [...] I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio e nel costume). [...] I classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili per confrontarli agli italiani» (Perché leggere i classici, Garzanti 1981).
Il Classico serve a capire, consente di inoltrarsi nel mondo (anche se Calvino precisa subito che non si deve credere che «i classici vanno letti perché “servono” a qualcosa»; l’unica ragione, paradossale e tautologica, è che «leggere i classici è meglio che non leggere i classici». Dal momento che condensa in sé le innumerevoli impronte degli sguardi che lo hanno percorso prima di noi, il Classico ci fa sentire meno soli nella vita, nella storia, nell’universo. Ogni Classico offre il “suo” universo al presente e al futuro, accrescendo la realtà con «uno dei tanti mondi possibili, un’isola in un arcipelago, un corpo celeste in una galassia», scelto nell’interminata «molteplicità delle storie possibili, che si rovescia nella molteplicità del vissuto possibile». Così Calvino stesso appuntava in Cominciare e finire, scheggia del lavoro preparatorio per le Lezioni americane, datato 22 febbraio 1985 e ritrovato da Mario Barenghi nel riordino delle molte carte preparatorie di quell’ultimo, fondamentale progetto: secondo la testimonianza di Esther, la vedova, avrebbe dovuto essere l’ottava, definitiva lezione. In queste note preliminari, però, piuttosto che sull’idea di concludere Calvino insiste sul momento antipodico del dare principio, antropologicamente decisivo: «l’atto di individuazione come rito canonico per cominciare un romanzo».
È straordinaria questa profonda sensibilità di antropologo con cui Calvino coglie e illumina l’importanza dell’avvio del discorso, che trasforma l’apertura di una narrazione nell’evento di fondazione mitica di un mondo reale, per così dire “ritagliato”, “determinato” nell’universo infinito delle potenzialità, nella vita di ogni giorno, «dove vediamo che la molteplicità delle storie possibili si rovescia nella molteplicità del vissuto possibile», mentre «l’unicità del racconto che inizia diventa l’unicità delle giornate che ci tocca di vivere, decisa al risveglio, nel distacco dall’indeterminatezza del sonno». Il ruolo dello Scrittore, e in primo luogo del Classico, è di fondare un tempo-spazio per così dire “determinandolo”, strappandolo all’infinità potenzialità e dandogli consistenza di cosa reale: «Ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare questa sera; per il poeta l’allontanare da sé un sentimento del mondo indifferenziato per isolare e connettere un accordo di parole in coincidenza con una sensazione o un pensiero» (Cominciare e finire).
Da questo punto di vista cominciare, dare inizio, è l’attività del Creatore che connota anche l’Uomo. Il fondatore del pensiero occidentale, Agostino d’Ippona (Confessioni, XIII, 9, 10; De Genesi ad litteram, VIII 34), insiste sul nesso tra fatica della “creazione” umana, inquietudine del “dare inizio a qualcosa”, reciprocità del riposo del Creatore e delle creature. E Roberta de Monticelli, commentando le Confessioni e riprendendo un’idea di Hannah Arendt, mette in luce questa mirabile condizione speculare: «Fu creato, dunque, l’uomo, perché fosse un inizio. Oppure, perché ci fosse inizio. Ci fosse un inizio, ci fossero inizi. Insomma, perché ci fosse il nuovo. […] Allora, forse, fu creato perché si desse storia? […] Creazione è ciò che dà il carattere di temporalità, vale a dire di finitezza e temporalità, ma anche di grado di partecipazione al divino, a ogni cosa, atto, evento umano» (R. De Monticelli, L’allegria della mente, Bruno Mondadori, 2004).
Il rito di distacco-identificazione descritto da Calvino è alla lettera la creazione di un universo, nel momento in cui il Classico lo “determina” con leggerezza di artista e con esattezza scientifica: «L’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente diverso: un mondo verbale. Fuori, prima dell’inizio c’è o si suppone che ci sia un mondo completamente diverso, il mondo non scritto, il mondo vissuto o vivibile. Passata questa soglia si entra in un altro mondo, che può intrattenere col primo rapporti decisi volta per volta, o nessun rapporto». È di grande interesse la conclusione a cui Calvino giunge ragionando sull’inizio come «luogo letterario per eccellenza»: «studiare le zone di confine dell’opera letteraria è osservare i modi in cui l’operazione letteraria comporta riflessioni che vanno al di là della letteratura ma che solo la letteratura può esprimere».
L’idea di un’interferenza fra le vite e le storie vissute e quelle non vissute, con richiamo esplicito a Ludovico Ariosto, il Classico che Calvino più ama insieme a Galilei, anche lui grande conoscitore del Furioso, è già mirabilmente sintetizzata nella Storia di Astolfo sulla Luna: «È in cielo che tu devi salire, Astolfo, […] su nei campi pallidi della Luna, dove uno sterminato deposito conserva dentro ampolle messe in fila […] le storie che gli uomini non vivono, i pensieri che bussano una volta alla soglia della coscienza e svaniscono per sempre, le particelle del possibile scartate nel gioco delle combinazioni, le soluzioni a cui si potrebbe arrivare e non si arriva» (Il castello dei destini incrociati, Einaudi, Torino 1973).
In questa prospettiva il Classico, o meglio l’intera genealogia dei Classici, diventa un Teatro della Memoria, in cui la storia “avvenuta” e le innumerevoli storie “potenziali” si conservano e si pareggiano. L’immaginazione è, per Calvino, un «repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere» (Lezioni americane, Visibilità). La condivisione dell’idea di «infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengano realizzate in tutte le combinazioni possibili», elaborata da uno dei più alti Classici moderni quale Borges, è esplicita nel discorso tenuto da Calvino a Roma in occasione della consegna del premio Balzan 1984 allo scrittore argentino. Una delle 14 definizioni discusse nel saggio del 1981 Perché leggere i classici, la n° 10, suonava già: «Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente all’universo, al pari degli antichi talismani».
La più vicina al punto di vista di Calvino è senza dubbio la magnifica lettura che Alberto Asor Rosa offre del Classico come radicale esploratore dell’essere: «I grandi classici sono sempre degli scrittori “radicali”, nel senso proprio del termine, in quanto, appunto, “vanno alla radice delle cose”, esplorano, sommuovono le profondità dell’essere, come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto. […] In ogni grande classico l’elemento barbarico, primitivo, è almeno altrettanto forte di quello che esprime la civiltà e la cultura. […] I grandi classici […] sono esperti, più che della regolarità e della sistemazione, del “caos” e del “disordine”. Sono degli specialisti di “situazioni originarie”» (A. Asor Rosa, Il canone delle opere, 1992, in Genus italicum. Saggi sulla identità letteraria italiana nel corso del tempo, Einaudi, Torino 1997). Non a caso come esempio Asor Rosa sceglie l’Ariosto, in cui Calvino aveva per primo portato alla luce la forza segreta del movimento, la capacità di stendere ad ogni canto «sotto l’occhio del lettore la mappa del mondo» (Italo Calvino legge l’Orlando Furioso, Einaudi 1970).
Su questo orizzonte il Classico è anche per Calvino uno sconfinatore, un avventuriero dello spirito che osa entrare in diretto contatto con il caos, il disordine originario che precede gli stati di equilibrio di ogni cultura. La sua natura si rivela la stessa degli eroi mitici che trasformano il cháos in kósmos. È l’eroe culturale che fonda una civiltà cosmicizzandola. Come il mago e lo sciamano studiati da un maestro dell’antropologia quale Ernesto De Martino (Il mondo magico, Einaudi 1948), il Classico è «il signore del limite, l’esploratore dell’oltre, l’eroe della presenza». Apre mondi per noi, li esplora, dà loro inizio e fine. Li definisce e li protegge, e così ci protegge.
giovedì 26 ottobre ore 11
Biblioteca Sandro Onofri
Classici
con Corrado Bologna
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