Capodanno

30 Dicembre 2011

Guardava i peli sulle dita, strette intorno al volante, e si chiedeva cosa ci facesse lui, Raimondo Brazzi, su quel camper. Era vestito come quando insegnava. Più precisamente, come quando portava i suoi studenti dell’Istituto Superiore di Educazione Fisica all’aperto. Un cappello di lana in testa, un maglione a collo alto per proteggere la gola e sopra il maglione la giacca della tuta. Poi pantaloni della tuta e scarpe da ginnastica. La strada era dritta e lunga e sembrava ancora più lunga perché si perdeva nella nebbia. Il vetro gocciolava umidità all’interno del camper. Ogni tanto, il professor Brazzi tirava su con il naso da una narice sola, la destra, e gli tornava in mente la sua vecchia cura, invincibile, contro il raffreddore. Un bel bicchiere di vino rosso scottalingua e poi subito sotto le coperte, ma quelle di un letto vero, in cui lo avrebbe raggiunto, pochi minuti dopo, sua moglie. Mia moglie, pensò, mentre attraverso gli occhiali spessi guardava la strada e anche se la vedeva benissimo teneva gli occhi socchiusi.

 

Non poteva essere un albero della Val Padana, né uno spaventapasseri. Non stanno in mezzo alla strada. Quella figura lontana e grigia, mezza nascosta dalla nebbia e martoriata dalla pioggia dell’inverno, era con ogni probabilità un essere umano.

Il professor Brazzi, per alcuni secondi, non prese nemmeno in considerazione l’idea di fermarsi. Se quello davanti a lui era un essere umano era di certo un pazzo o un vagabondo, chi altri sarebbe stato così, fermo in mezzo alla strada. Ora che era più vicino, il professore vide che aveva un borsone scuro a tracolla, un giaccone scuro, dei pantaloni rossi. Quando fu a venticinque metri vide anche che aveva baffi e pizzetto e capelli lunghi, neri e bagnati. Quando fu a dieci metri si accorse, attraverso il vetro del camper e quello degli occhiali, che quel ragazzo in mezzo alla strada lo stava guardando negli occhi.

Probabilmente non voleva frenare, eppure lo fece. Anche se il camper andava forse a sessanta all’ora, per via della frenata decisa le ruote scivolarono sulla strada e il sedere del camper si spostò un po’ di sbieco. Il ragazzo in mezzo alla strada non si era mosso di un centimetro e lo guardava. Aveva un’aria allegra e un bel sorriso, pareva che stesse aspettando Raimondo Brazzi in quel posto da un sacco di tempo e che fosse sinceramente felice di vederlo.

Raimondo tirò giù il finestrino: “Ma lei è pazzo. Cosa ci fa in mezzo alla strada? Vuole che qualcuno la investa?”

“No” rispose l’altro senza perdere il sorriso. “Non voglio che qualcuno m’investa. Voglio solo che qualcuno mi dia un passaggio.”

“Ma non lo sa che è vietato, chiedere passaggi?” ribatté il professore, disorientato.

Il ragazzo si mosse e, quando staccò i piedi dall’asfalto, Raimondo notò che la strada, sotto le scarpe, era ancora asciutta: c’era proprio la forma delle suole disegnata sull’asfalto grigio chiaro. Chissà da quanto tempo stava lì fermo. Arrivò vicino al finestrino. Avrà avuto venticinque anni, gli occhi marroni molto vicini, le sopracciglia nere, foltissime.

“Lo so che è vietato” disse “ma basta che non lo diciamo a nessuno e nessuno lo saprà.”

 

Raimondo guardò la strada, finalmente libera davanti a sé. Erano scomparsi, con la pioggia, perfino i segni delle suole sull’asfalto. Poteva spingere l’acceleratore e lasciare quel tizio fradicio lì dove lo aveva trovato. Invece vide la sua stessa mano allungarsi verso la leva della portiera, senza che lui potesse farci niente. Vide le sue dita pelose e vecchie tirare la leva e la portiera aprirsi. E mentre una voce dentro di lui urlava No, un no lungo e disperato, quel tizio saliva sul camper e si sedeva lì accanto.

“Piacere, Marco” disse il giovane allungando una mano che Raimondo strinse, gelida e bagnata, nella sua.

“Raimondo Brazzi” disse lui. “Dove vai?” Senza accorgersene era passato al tu.

“Dove mi porti” ribatté il giovane che, ormai era chiaro, aveva uno strano senso dell’umorismo, che confinava quasi sempre con l’irritazione altrui.

Raimondo lo guardava attraverso i suoi grandi occhiali da vista, appannati dall’umidità. Non riusciva a vederlo bene.

“In realtà andrei a Roma” proseguì Marco “Tu dove vai?”

“Io vado a Noto” rispose Raimondo.

“Noto in Sicilia?” chiese Marco.

“Noto in Sicilia. Perché, ne conosci un’altra?”

“No, no. È che hai un bel pezzo di strada da fare e quella strada passa giusto da Roma. O sbaglio?”

Raimondo non rispose. Purtroppo quel tipo non si sbagliava e adesso non poteva più mollarlo in mezzo alla brughiera lombarda. Ossia, poteva, ma gli costava troppa fatica. Avrebbe dovuto portarselo dietro almeno altre dieci ore. Guardò il ragazzo, cercava di asciugarsi i capelli bagnati con le mani. Erano movimenti approssimativi, imprecisi, le mani parevano le zampe di un orso. Le unghie delle dita erano consumate. Come fossero tutte graffiate. Questo colpì molto Raimondo, perché suo nonno, il pescatore, aveva la stessa malattia. Erano quarant’anni che non vedeva le mani di suo nonno.

 

Entrarono in autostrada senza parlare. Marco, attraverso lo specchietto di cortesia, guardava l’ordine maniacale del camper, il letto perfettamente rifatto, la piccola cucina senza nemmeno un piatto in vista, giusto un maglione appeso a una parete.

“Perché vai a Noto?” disse Marco rompendo il silenzio.

Raimondo si voltò con il sorrisetto ebete di quando, a scuola, la maestra gli chiedeva qualcosa che proprio non sapeva. Come allora, rispose la prima cosa che gli venne in mente.

“Perché sono nato lì”.

“Sicuro?” chiese Marco.

“Certo, vuoi che non sappia dove sono nato?”

“No. Dicevo: sicuro che vai a Noto solo perché sei nato lì?”

Il professor Brazzi era abituato a farle lui, le domande. Forse per questo sapeva riconoscere quelle fatte bene da quelle fatte tanto per chiedere qualcosa. Tirò ancora una volta su con il naso e poi disse: “Vado a Noto, perché è l’unico posto dove posso andare. E adesso inizia la risposta vera. Quella che ti darei se tu mi chiedessi ancora perché e ti risparmio volentieri la fatica.”

Dopo tante ore di lezioni, Raimondo Brazzi aveva imparato a raccontare. Per questo fece una pausa. Lasciò, per pochi istanti, che a parlare fossero solo il motore del vecchio camper, la pioggia sui vetri e il tergicristallo che la spazzava via.

“Dieci anni fa ero un uomo felice, Marco. Ero appena andato in pensione, dopo aver insegnato per trent’anni all’Istituto Superiore di Educazione Fisica. L’ISEF. Avevo una moglie che mi amava e che amavo. Due figli bravissimi. Mi aspettava una vita, o insomma un pezzo di vita, che non faceva una grinza. La mia casa a Roma, la mia famiglia, qualche lettura, molte passeggiate. La vita che avevo sempre sognato mentre lavoravo.”

“E invece” disse Marco sentendo vicino, vicinissimo, l’angolo in cui la storia avrebbe preso una direzione diversa ed essendo totalmente incapace di aspettare in silenzio.

“Invece conobbi un’altra donna, molto più giovane di me. Cecilia. Per un po’ fummo amanti. Poi, quando lei trovò un posto di lavoro a Torino e se ne andò da Roma, decisi di mollare tutto e correrle dietro.”

“Un uomo come te?” disse Marco, ma non per metterlo in difficoltà, solo perché quelle parole gli uscirono dalla bocca così.

“Un uomo come l’uomo che pensavo di essere, vorrai dire. Perché a quel punto, se fossi stato un uomo, non avrei permesso alla mia vita di farmi ciao ciao e andare a rotoli.”

 

Stava per calare la sera. Era il momento in cui le macchine, in autostrada, accendevano i fari e i profili delle colline iniziavano a confondersi con il buio che scendeva dal cielo.

“Mi trasferii a Torino, ma la storia con Cecilia finì subito dopo. Non sarebbe nemmeno dovuta iniziare, lo sapevo benissimo. Ma fu più forte di me. Come sapevo benissimo che non ti volevo dare un passaggio e invece eccoci qui.”

Marco si fece una bella risata. Raimondo rispose alzando un angolo della bocca, ma così poco che non si capiva se fosse o meno l’inizio di un sorriso.

“Dunque, con Cecilia andò tutto per aria e mi ripresentai a casa. Peccato che una casa non l’avevo più. Mia moglie e i miei figli non mi aprirono nemmeno la porta. Per un po’, aspettai. Poi decisi di comprare questo camper, usato ma come vedi in buono stato, e andarmene in giro. Per confondere il dolore con il movimento.”

“E Noto?”

“A Noto ci sono nato, è lì che voglio tornare ed è anche, come ti dicevo e ora sai perché, l’unico posto in cui ormai mi sento di andare. Sono stanco di girare come uno zingaro. A forza di fuggire dal dolore, mi sono perso.”

“Ma a Roma avrai degli amici, dopo tanti anni.”

“Erano amici miei e di mia moglie, della coppia, non di ciascuno di noi. Ti sembrerà strano, ma è così. Non uno che mi abbia telefonato, da quando me ne sono andato. E poi la vita a Roma costa cara. Non ti sto a raccontare i sacrifici di un uomo separato, di un professore di Educazione Fisica, ma di sicuro a Noto me la caverò meglio.”

“Hai fratelli o sorelle che vivono lì?”

“Una sorella, ma non sono sicuro che voglia vedermi.”

“Perché?”

“Era molto amica di mia moglie.”

“Ma è anche molto tua sorella.”

In quell’istante, un rumore sordo investì il camper che sbandò da un lato. Raimondo frenò, cercando di non perdere il controllo del mezzo. Poi accostò e scese. La ruota anteriore destra aveva sbattuto su una grossa pietra in mezzo alla strada e si era bucata. Scese anche Marco. Raimondo chiuse bene la giacca a vento e si avviò verso il retro del camper. Marco lo seguì. Sganciarono la ruota di scorta e la portarono vicino a quella bucata. Le macchine, sull’autostrada, passavano veloci e vicine. Svitarono i bulloni della ruota da cambiare, sollevarono il camper con il cric. Inserirono la ruota di scorta. Proprio in quel momento, mentre stavano per riabbassare il camper sulla strada, due grandi fasci di luce li illuminarono. I fari di un tir. Il bestione passò a non più di quindici centimetri dal fianco del camper che tremò per lo spostamento d’aria. Marco, d’istinto, tirò la testa dentro le spalle e s’ingobbì. Raimondo no. Rimase dritto come un condannato alla fucilazione, mentre quel mostro ruggente gli andava quasi addosso e poi correva via e in quell’istante ebbe la sensazione che il confine della vita fosse un muro invisibile e molto irregolare.

Qualche minuto più tardi, erano di nuovo in viaggio. Aveva ricominciato a piovere, ma piano.

 

“E tu?” chiese, “Tu che ci facevi in mezzo a una strada, tutto bagnato?”

“Io studio a Milano, Architettura, ma lavoro a Roma. Stavo facendo l’autostop.”

“Hai un buffo modo di fare l’autostop. Invece di usare il pollice, per fermare le macchine usi tutto il corpo.”

Marco rise.

“Che lavoro fai?” chiese Raimondo.

“Il pubblicitario. Ho cominciato da poco.”

“E che pubblicità hai fatto? Magari le ho viste” ma mentre sentiva le parole uscirgli di bocca si rendeva conto che non avrebbe mai potuto vederle, le pubblicità di Marco, perché nel suo camper non c’era la televisione.

Comunque Marco gliele raccontò ugualmente, gliele descrisse tutte nei dettagli, tanto che Raimondo perdeva spesso il filo, il discorso d’insieme. Gli piaceva, tuttavia, quel racconto pieno di parentesi. Gli piaceva il suono che aveva la voce di Marco, lo cullava, lo faceva sentire altrove.

“Raimondo, ma che ore sono?” chiese il ragazzo.

Che ci faceva una domanda, in tutto quel fluire di parole dentro altre parole?

“Scusa, non volevo disturbarti mentre mi ascoltavi” andò avanti Marco. “È che a mezzanotte finisce l’anno. Non vogliamo mica perderci la fine dell’anno, vero?”

Raimondo non lo sapeva, che era capodanno. Chissà da quanti giorni non sapeva che giorno era. Nel suo camper, perdeva completamente il senso del tempo e gli andava benissimo così, a maggior ragione durante le vacanze di Natale, perché mai come allora si sentiva solo. Guardò il suo orologio da polso. Ventitré e cinquantotto.

“Ventitré e cinquantotto? E me lo dici così?” fece Marco. “Tra due minuti è il 2008 e tu me lo dici così, come se fossero le tre e mezzo di un giorno qualunque?”

 

Raimondo accostò. Sull’autostrada, ormai, non c’era nessuno. Andò a frugare nel frigorifero, ma non c’era niente da bere, solo mezza bottiglia d’acqua. Allora gli venne in mente che forse, dentro a una vecchia giacca a vento, poteva esserci una fiaschetta con della grappa o del whiskey. Guardò l’ora. Ventitré e cinquantanove. Frugò nel piccolo armadio del camper e trovò la giacca. Sì. Nella tasca c’era la fiaschetta ed era ancora mezza piena.

Tornò al suo posto e subito Marco disse: “Presto, usciamo.”

Scesero dalla macchina e istintivamente si guardarono intorno, in cerca delle luci più vicine. Le trovarono a mezz’aria, dovevano essere le luci di un paesino, chissà quale, sospeso sulle colline della Toscana. Pochi istanti dopo videro qualche petardo esplodere proprio lì, all’altezza del paesino, e subito dopo ne sentirono il rumore.

“Auguri Raimondo” gridò Marco e mentre lo diceva lo abbracciava, lo sollevava da terra.

Raimondo se ne stava lì, con le braccia aperte, e la fiaschetta stretta in pugno, mentre Marco lo sbatacchiava qua e là gridando auguri e i petardi esplodevano lontani. Finché chiuse le braccia anche lui, sulle spalle di quel ragazzo che conosceva appena e lo strinse a sé. Le piccole luci del paesino gli ballavano davanti agli occhi umidi e apparivano e scomparivano dietro i capelli di Marco, proprio come le luci della terra apparivano e scomparivano dietro le onde le notti in cui, da bambino, suo nonno lo portava a pescare.

 

Alle prime luci dell’alba furono a Roma. La città, dopo la notte di festeggiamenti, era completamente deserta. Raimondo accompagnò Marco fin sotto casa, un bel palazzone umbertino in Piazza Vittorio. Scesero dal camper. Raimondo si sgranchì le gambe e si tirò su i pantaloni della tuta. Marco si stirò inarcando la schiena all’indietro.

“Eccoci qua” disse Marco, avvicinandosi al suo compagno di viaggio. “Ora che sai dov’è casa mia, se passi da Roma devi venire per forza a trovarmi”.

Raimondo guardò il grosso palazzo umbertino e poi i fiorai cingalesi che attrezzavano i banchetti in piazza, a pochi passi da loro.

“Contaci” rispose andandogli incontro. Si abbracciarono e si baciarono sulle guance. Poi Marco gli disse, così mentre camminava via: “Mi raccomando, quando arrivi a Noto, salutami tanto tua sorella”.

Raimondo sorrise. Perché una frase come quella sarebbe anche potuta sembrare un’offesa, invece era un atto di affetto, un suggerimento travestito da una frase qualunque, detto di schiena in modo da non essere riconosciuto.

Marco si avvicinò a un portone di legno scuro e tirò fuori dal suo borsone un enorme mazzo di chiavi. Trovò subito quella giusta ed entrò. Il professor Raimondo Brazzi aspettò finché il portone si chiuse, poi aprì la portiera del camper e salì. Mentre metteva in moto, uno dei fiorai cingalesi si voltò verso di lui. Lo guardò qualche istante e poi lo salutò, come si saluta qualcuno che forse si conosce e forse no, muovendo appena le labbra.

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