Monterosso / Paesi e città

27 Aprile 2011

Le prime case di Monterosso furono costruite, circa mille anni fa, da genti che venivano dal mare e avevano, tra gli altri, il problema di nascondersi. Si arroccarono sulle colline a strapiombo sull’acqua e nelle valli. Passavano la giornata a lavorare la terra e a scrutare l’orizzonte, per essere pronti a respingere gli attacchi di chi avesse ripercorso le loro stesse rotte e delle navi pirata che incrociavano quel tratto di mare in cerca di bottino.

Il Gigante, invece, fu voluto e poi realizzato, centinaia di anni dopo, da chi aveva intenti del tutto opposti. Vale a dire, farsi notare.

 

L’avvocato Giovanni Pastine era nato a Monterosso. Poi era emigrato in Argentina dove aveva fatto fortuna, si era sposato ed aveva avuto due figlie. Tornato a Monterosso negli ultimissimi anni dell’ottocento, per celebrare il suo successo aveva deciso di costruire una grande villa all’inizio della collina che si protendeva verso Punta Mesco, dunque sul lato occidentale del Golfo delle Cinque Terre, a circa un chilometro dal paese.

Il sogno dell’avvocato era diventare Senatore del Regno e la villa, oltre a raccontare il suo successo come uomo d’affari, avrebbe dovuto rappresentare l’importanza dell’incarico pubblico che Pastine s’immaginava di svolgere a breve.

 

Il 10 giugno del 1901, per la somma di 975 lire, acquistò il terreno sul quale la villa sarebbe sorta. Diede incarico di sviluppare il progetto a un architetto e a uno scultore e, per paura di sbagliare, li scelse noti. L’architetto era Rolando Levacher, italiano ma probabilmente conosciuto da Pastine in Argentina, dove aveva progettato e costruito, nell’ultimo ventennio del secolo appena concluso, oltre cento edifici. Lo scultore era Arrigo Minerbi, molto famoso ai tempi per aver lavorato a servizio di Gabriele D’Annunzio. A Minerbi, Pastine chiese, in particolare, di realizzare una gigantesca cariatide che sorreggesse, sulle spalle, una terrazza a forma di conchiglia.

Così nacque il Gigante, un Nettuno in origine provvisto anche di tridente, impegnato non solo nello sforzo di sostenere la grande conchiglia, ma anche in quello di fronteggiare il Libeccio, vento che da quelle parti entra senza incontrare ostacoli e solleva onde alte e violente che si abbattono su tutto ciò incontrano.

 

 

Così nacque, anche, la grandiosa villa liberty, che alle spalle del Gigante sorgeva in tutta la sua magnificenza. Ecco come la descriveva Eugenio Montale: “… tre piani alti più di cinque metri ciascuno, con una torre e terrazze e una loggia a colonne e un ponticello e un lastricato decorato come un tappeto turco e le panchine in finto legno e una grande scalinata in marmo di Carrara a tre rampe e perfino un’improponibile copia della Statua della Libertà… e poi le arcate che sorreggevano la scalinata ricoperte di finta roccia e il giardino pensile antistante la villa… un sogno o, per l’architettura razionalista, un delirio!”

 

Le cose, però, non andarono come l’avvocato Pastine aveva sperato.

Al ballottaggio per la poltrona di Senatore fu sconfitto da un signore di Levanto. A questo smacco seguì un dolore ben più grande. Sua moglie rimase incinta di un maschietto, che però nacque malato nel corpo e nella mente e che i monterossini soprannominarono, impietosamente, il Gigante. Alcuni dicono che l’avvocato Pastine morì di crepacuore, altri di febbre spagnola. Sta di fatto che abbandonò questo mondo prematuramente o almeno, come capita a molti, prima di quanto non avrebbe desiderato. La sua famiglia lasciò Monterosso in cerca di una fortuna che non trovò più. Le ingenti ricchezze dell’avvocato furono dilapidate velocemente. La villa liberty e la statua del Gigante, abbandonate a se stesse, giorno dopo giorno perdevano il loro splendore. Erano state concepite per descrivere il successo di un uomo, finivano invece per rappresentare, in maniera altrettanto efficace, la sua tristissima sorte.

 

Nei primi anni sessanta, la ormai fatiscente villa liberty fu abbattuta dal nuovo proprietario di quel terreno: il genovese Luigi De Andreis. L’architetto Claudio Andreani, che si era occupato della ricostruzione di Recco, progettò la nuova villa. In accordo con la proprietà, della vecchia struttura decise di conservare soltanto l’ossatura della torre. Il nuovo edificio, La Meridiana, le cui linee eleganti ed essenziali possono essere ammirate ancora oggi, era concepito non tanto per dominare la natura circostante quanto invece per mimetizzarsi in essa. Proprio come le prime case del paese, quelle costruite nelle valli secoli e secoli prima, con il preciso scopo di sorvegliare il golfo senza essere avvistate da chi viaggiava per mare.

 

Il Gigante era malconcio. Un colpo di mortaio, durante l’ultima guerra, gli aveva fatto saltare la gamba destra e tutte e due le braccia e anche un pezzo di naso. Nemmeno la conchiglia c’era più. Luigi De Andreis non sapeva cosa fare. Come gli aveva confermato lo scultore Francesco Messina, suo buon amico, il Gigante non aveva alcun valore artistico, anzi, se fosse finito in mare non sarebbe stata una gran perdita. Tuttavia, abbattere quella statua così mal ridotta gli sembrava come sparare a un ferito rimasto indietro. E poi il paese, e persino il Comune di Monterosso, si schierarono a fianco della cariatide. Luigi De Andreis, allora, propose una sottoscrizione per salvare la gigantesca scultura e diede l’esempio versando il primo milione di lire. Ma Monterosso, anche allora, si trovava in Liguria: nessun altro versò una lira, men che meno il Comune. Trovandosi da solo in mezzo al guado, De Andreis decise di andare avanti e dedicò alla ristrutturazione del Gigante altri sette milioni. Prima di tutto vennero tamponati i moncherini, per isolare l’armatura in ferro dagli agenti ossidanti. Poi s’ispezionò la spina dorsale e si scoprì che Minerbi aveva saggiamente alleggerito la struttura, inserendo all’interno una specie di ciminiera di mattoni. La statua venne fissata alla parete scogliosa con due travi di ferro. Il posto della vecchia conchiglia fu preso da alcune aiuole, ben più leggere, di piante grasse.

 

Dal 1973, anno in cui la ristrutturazione si concluse, ad oggi, non è cambiato molto. Il Gigante, nonostante i colpi del Libeccio, è sempre lì, incastrato nella roccia senza braccia e con una gamba sola. Ha ancora il capo leggermente inclinato verso il basso e la bocca, ammaccata, pare contratta per lo sforzo. Eppure, sulle sue spalle, non si appoggia più quell’enorme conchiglia. Al massimo, ogni tanto, qualche gabbiano.

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