Speciale
Cesenatico, Gran Fondo Nove Colli
Sulla griglia di partenza, tra centinaia di uomini che somigliano a cavalli pronti allo sparo. E’ presto, fa fresco. Sono l’unica donna nei paraggi. Ho quarant’anni e sono ridicola. Mia madre mi ha detto: “ Tu inizi quando le altre finiscono”.
Le divise dei ciclisti hanno scritte come i manifesti delle sagre, che raccontano di piccole imprese artigianali, di negozietti di periferia. Fermento tra i gruppi: ci si parla in dialetto, ci si chiama coi soprannomi e con battute da circolo. Si tendono i muscoli senza ragione affinché tu che guardi capisca subito con chi hai a che fare. Anche se partiamo da una griglia di cicloamatori, vedi corridori tirati come campioni, con le sopracciglia rifatte, altezzosi e distanti, pronti solo allo scatto.
Avevo dieci anni; seguivo mio padre con la mia bici gialla. Lungo salite estive in cui non passava nessuno, lui davanti mi guidava in silenzio. Ci fermavamo a salvare un calabrone capovolto, o a cogliere ciliegie. Io diventavo la scaglia di mare nel sole, lui la collina che fumava a valle, il monte chiaro che si faceva cielo. Alla processione del paese, fermi lungo il ciglio, contavamo tra i piedi dei fedeli le formiche che passavano coi semi di grano sul dorso. Fermi pure ai passaggi a livello, tra lucertole che riposavano, cicale che brillavano. Non come oggi, che si passa sotto le sbarre chiuse per arrivare prima, per raggiungere il nemico davanti. I miei compagni mi dicono “ Non mettere il piede a terra, dai! Stai percorrendo le strade di Pantani”. Ed io, esausta: “Si vede la fine che ha fatto”. Di corsa, sempre. Alla partenza, migliaia di ruote suonano come una pioggia a tratti spezzata da un applauso, da un nome chiamato tra la folla. Poi, pedali e osservi.
La bici da corsa è uno strumento delicato e potente che ti insegna tanto della vita, se sei disposto ad interpretare ogni tratto del percorso. Al pari del cibo e del sesso, ti dice molto anche di chi la guida. Se vuoi capire di un ciclista che uomo è ogni giorno, basta osservare come tiene le mani sul manubrio, come evita le buche, come affronta o subisce un sorpasso. Da qui, puoi decidere se raccogliere o meno gli inviti all’amicizia sempre troppo facili che si fanno durante le uscite. Io in bicicletta ho imparato che la discesa è più faticosa della salita. Se c’è vento devi pedalare. Se la discesa è ripida devi stringere i muscoli contro il telaio per contenere le vibrazioni, chiuderti ad uovo per limitare l’opposizione al vento, tenere i freni tirati, ma pure capire quando allentarli un poco; devi distinguere con prontezza l’ombra di una foglia da una buca. I muscoli di mani ed avambracci cominciano a dolerti. Parabola perfetta di quanto poco di buono, di solito, nasca dalle cose facili. Al contrario, in salita, se tieni il passo agile e costante, il respiro regolare, se capisci quando dare il colpo di reni, puoi affrontare qualsiasi pendenza. Incontri molti che, senza calibrare le energie, si affrettano a sorpassarti ai primi chilometri. Loro saltano, tu arrivi.
Durante la gara, conto decine di ciclisti maleducati, di donne agguerrite, brutte, troppo simili agli uomini. Un tizio mi confessa di fare questa gara da dieci anni, e di non essersi mai accorto del paesaggio intorno; sempre gli occhi sull’asfalto, le gambe a motore. Io, invece, vado piano per osservare le distese di grano e di papaveri, e strade eleganti come serpenti. Nei tratti più duri del Ciola, ci ritroviamo tutti in silenzio. Solo respiri affaticati, grilli, un tuono lontano. Chiusi i ventagli della baldoria, eccoci uguali, ciascuno con la propria fatica, lungo spazi sciolti nell’oceano del mal tempo vicino. Soli come lo si può essere nell’amore e nella morte. “Stiamo in gruppo, diamoci il cambio, cerchiamo di arrivare insieme.” Dei miei compagni non vedo più nessuno. Con me è rimasta la bicicletta, come quando da bambina, cavalcando un ramo, ero certa fosse un destriero che mi avrebbe condotta ovunque. Tutti presi a farsi la guerra, li vedo in lontananza come gli altri che non conosco, ognuno col proprio racconto di vene e di memorie, di piccole luci accese qua e là nel buio.
Le mie ruote corrono velocissime. Una cavalletta è rimasta attaccata ad un raggio per chilometri, viva, senza impazzire. Lontano, il profumo dell’erba, il tepore della terra bagnata dalla pioggia, il filo radioso di un aereo che sale. Nei tratti più violenti della salita, ho immaginato mio padre che mi aspettava in cima con le braccia aperte; mio padre morto, il sorriso pensieroso, il viso coperto dai semi lanosi dei pioppi. Solo così ce l’ho fatta. All’arrivo, una giovane hostess mi ha dato un fiore finto e una medaglia. Poi, migliaia di ciclisti sudati, seminudi, con piatti di plastica pieni di pasta serviti sotto tende da campo, come dopo una catastrofe. Tra la folla degli amici e dei parenti accorsi a salutare i campioni, non ho fatto la brava in un’inutile prova di agilità. Ho messo il piede a terra, la bicicletta sotto di me come il ramo di una volta. La festa, il chiasso, gli altoparlanti, tutto si è sciolto in una scia rapidissima, come quella che immagino un uomo debba vedere prima di partire.
Qualcosa nei colori del paesaggio fuori città mi ha ricordato le canzoni di Mina, l’ironia severa di mio padre, che se avevo pedalato bene mi diceva che non avevo pedalato benissimo. Persino l’aria aveva il profumo della casa di un tempo. Da nord, il fumo di erbe che bruciano mi ha ricordato, in pieno maggio, l’autunno che aspetta sempre dietro le ruote. La fuga e la lentezza: non si cerca che la pace, come ogni cosa l’espansione, come il calore l’altezza.