Speciale

Nowhere fast

28 Novembre 2012

Stamattina, dopo giorni di secca, si esce col gruppo. Il gruppo, poi: ma quale gruppo? Sembriamo superstiti dopo l’impatto con un meteorite. Fino all’anno scorso avevamo uno sponsor che usciva in bici con noi. Non lo sopportava nessuno, e alla fine se n’è andato. Nei mesi successivi, ho capito che niente come l’odio tiene uniti. Quando era tra noi, esisteva una squadra che faceva scudo contro l’estraneo sbruffone, il cafone arricchito. Lui organizzava un giro coi suoi Bravi, noi altri boicottavamo la direzione; e se 60 eravamo, in 60 partivamo. Ma adesso che il nemico è scomparso, il frutto ha perso il nocciolo, il camino la brace, e tutto si è sgranato nelle approssimative spianate del bene. Chi deve fare una cosa, chi deve tornare prima, chi si è creato un sottogruppo di due o tre amici per uscite ad insaputa degli altri. La nostra divisa è ormai diventata una bandiera senza Paese.

 

 

Stamattina, per esempio, siamo solo in sei. Andiamo in Costiera, direzione Amalfi. È una bella giornata, fa caldo e non tira vento. Io sono un po’ più allenata degli altri solo perché esco ogni giorno. Glie lo dico sempre ai miei compagni che in bici è inutile darsi tante arie, che non ci vuole un dono di Dio né un’intelligenza sopraffina; basta pedalare, ed ecco che un genio e un fesso un poco si somigliano. Uno si lamenta perché, dice, è fermo da mesi, e ha perso tutto quello che aveva raggiunto. Gli rispondo che se ha perso, niente aveva raggiunto; che investire nella vita solo sugli allenamenti in bici è un po’ come per uno sprovveduto spendere tutti i soldi in auto di lusso e abiti costosi. L’anno dopo, l’auto non vale niente, e gli abiti ancora meno. Solo lo sprovveduto, sprovveduto era e sprovveduto resta.

 

Meglio un libro, un tragitto spirituale, gli faccio notare. L’amico mi guarda con un ghigno e non risponde. Sto antipatica ai miei amici, lo so. A volte vado più forte di loro, e mi metto pure a pontificare. Ad un certo punto uno di loro mi affianca e dice: “Sono le 12: non dovresti andare a casa a cucinare?”. Di risposta, metto il 50 e lo semino, lasciandolo alla sua misura di figura piccina. Intanto, da sola, posso godermi la Costiera, che da queste parti, di sabato, solo in bici puoi guardare con attenzione. Ecco le città lontane, riassunte in una striscia di bianco pastoso, l’odore di vernice delle barche sulla sabbia, il mare sulle pietre, il suono dell’acqua contro la chiglia dei gozzi a riva, il pesce fritto nei vicoli della piazza, le ombre azzurre dei passanti sulla calce dei muri, la brezza tra pini e cipressi. Le case lungo la roccia hanno il bianco del sole meridiano, il rosa tenue delle aurore, il giallo della crema al limone, il turchese del cielo che vola basso sull’acqua.

 

 

Capo d’Orso: salita lunga. Ora basta guardare. Mi affianca un ciclista di un altro gruppo, dicendomi le solite banalità cui non vorrei mai rispondere perché, in salita, l’importante è respirare. Ma poi capisco perché mi ha avvicinata. Era dietro, io avanti, e non stava bene. Così mi ha rivolto la parola per dimostrare che, anche a quelle pendenze, poteva parlare senza un filo di soprafiato. Altri due ancora mi superano, senza dire nemmeno ciao. Io, intanto, mi concentro sulla pedalata. In discesa, penso alle controindicazioni della velocità: lo scarabeo che si salva dalla ruota davanti, finisce schiacciato sotto quella di dietro. Anche una cavolaia che urta contro il casco, muore col rumore di un sasso.

 

Ritorno. La velocità aumenta. A fine giro si tirano le somme di quanto vali, e più il giro è stato duro, più la prova è cattiva. Mentre cerco di evitare fossi e piccoli accidenti, che a 40 km/h diventano fatali, prego Dio: “Non farmi cadere, non farmi morire”. Alla fine ce la faccio: alla rotatoria arrivo seconda.

 

“Ciao. Buona Domenica. Buon appetito”. Quando gli altri se ne vanno, io mi sento come una che si è tolta i tacchi a spillo per un paio di infradito.

 

Vado piano, adesso. Guardo la campagna di Settembre, una luna delicata come un’unghia in pieno mattino, la montagna sciolta nella luce dell’Est, uccelli migratori in composte forme mutevoli. Lenta, vuota. Mai stata più felice.

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