Vita, parole e gentilezza di Gianni Clerici

8 Giugno 2022

È morto a Pescallo – poche case discoste con discrezione dalla leziosa Bellagio – Gianni Clerici. Se n’è andato, a poco meno di 92 anni, in riva al suo lago ma in vista Grigna, ramo di Lecco, e non di Como, dove era nato il 24 luglio del 1930, figlio di una ricca famiglia di industriali.

Delle sue origini alto borghesi non ha mai dissimulato il privilegio, anzi. Nel mondo giornalistico del secondo dopoguerra in cui essere dotati di buona cultura, di occhio attento e di penna svelta poteva diventare un formidabile ascensore sociale – lo era stato per Brera, per certi versi un suo maestro –, Clerici vestiva i panni del “giovin signore”, del gentleman colto dai modi british epperò innervati talvolta dalla sapidità del dialetto lombardo, idioma d’elezione confidenziale, e sentimentale. E con questa parte gli piaceva giocare.

In un’intervista fattagli da Giorgio Gandola, per @ltroPensiero.net, in occasione dei suoi 90 anni, esordiva così:

«Chiariamo subito, non ho mai lavorato neanche un giorno. Ero allergico alle polveri sottili della tipografia».

In realtà era una posa. Gianni Clerici iniziò a firmare pezzi sulla Gazzetta dello Sport nel 1951, quando non aveva ancora compiuto vent’anni. Il direttore della Rosea in quegli anni è proprio Gianni Brera: lo era diventato “a furor di popolo” nel 1949, dopo aver accompagnato con i suoi pezzi la strepitosa cavalcata di Fausto Coppi al Tour de France. Fu un punto di svolta per la storia del giornalismo sportivo italiano. Prima di allora chi scriveva di sport non sapeva di sport e, per di più, attingeva a una scrittura post-dannunziana, incline, come diceva lo stesso Brera, a «gonfiare il muscolo della retorica». Al contrario, chi sapeva di sport, ovvero chi conosceva gli aspetti tecnico-atletici, non sapeva scrivere. Nei primi anni Cinquanta, in via Solferino Brera, il più giovane direttore della storia della Gazzetta, iniziò a rivoluzionare il modo di raccontare lo sport: la sua cifra stilistica era inimitabile, tant’è vero che chi ha provato a “prendergli la ruota”, senza avere lo stesso passo e, soprattutto, la stessa resistenza, ha finito quasi sempre per esporsi al ludibrio di un’involontaria e comica parodia. Ma chi, tenendosi lontano dallo scimmiottarne lo stile, di quel modello ha saputo cogliere l’istanza più profondamente divulgatrice, vale a dire usare il “cavallo di Troia” dello sport per parlare al pubblico di lettori anche d’altro – dalla letteratura alla politica, dall’arte alla geografia, dalla storia all’enogastronomia –, ha lasciato a sua volta un segno indelebile nella storia della scrittura sportiva. Tra questi spiccano, proprio perché non strettamente epigoni del Gianni maior, gli altri due Gianni: Mura e, appunto, Clerici.

Gianni Clerici

L’esperimento Gazzetta continuò poi al Giorno, quando Brera, nel 1956, fu chiamato a dirigere per il nascente quotidiano dell’ENI di Enrico Mattei la più formidabile redazione di sport della storia del giornalismo italiano: Mario Fossati al ciclismo, Giulio Signori all’atletica, Franco Grigoletti al basket, e poi Gian Mario Maletto – poi straordinario critico di jazz – Pilade Del Buono e, appunto, al tennis – ma non solo, come si vedrà – Gianni Clerici. Così, sempre attivando l’inconfondibile filtro dell’understatement, Clerici raccontava quegli anni a Enrico Currò, autore di una biografia su Mario Fossati (Bolis Edizioni, 2018), che è anche un raro e prezioso saggio sulla storia del giornalismo sportivo in Italia nella seconda metà del Novecento:

«Ho firmato sul numero 6 del Giorno, mentre il mio primo pezzo lo scrissi a vent’anni per la terza pagina della Gazzetta, quando ancora ero un volonteroso universitario tennista. Brera l’avevano mandato via dalla Gazzetta e si era fatto un anno semisabbatico, un po’ in America e un po’ a Sport Giallo, che era un settimanale, un Guerin Sportivo meno perverso. Aveva trovato un paio di ammiratori-finanziatori. Il giornale lo facevamo tutto noi due. Sport Giallo non produceva certo grandi attivi. Gli altri collaboravano da fuori e firmavano, penso, con pseudonimi […] Andammo in gruppo al Giorno, appesi alla coda di Brera. […] Io ci sono andato, ma non è che volessi fare il giornalista. La mia carriera è un grande equivoco, in quella che viene misteriosamente ritenuta la redazione di riferimento del giornalismo italiano: sarà perché le molte redazioni sportive di tutti i tempi sono di livello scoraggiante».

Quanto al mito della competenza di quella redazione sportiva del Giorno, Clerici, sempre nel libro di Currò, gioca un’ironica smorzata delle sue:

«La competenza? A dire la verità, io ho fatto due Giri d’Italia ed ero il presunto competente di tennis. Poi un giorno ho detto che avevo giocato a basket al liceo e sono diventato il competente di basket».

Ma il «volonteroso universitario tennista» a tennis, in effetti, ci aveva giocato davvero e a buoni livelli: campione italiano juniores nel doppio, in coppia con Fausto Gardini, nel 1947 e nel 1948, nel 1950 arrivò in finale di categoria nel singolo, anno in cui vinse la Coppa de Galea. Due anni dopo, al Montecarlo New Eve Tournament ottenne il suo più prestigioso successo di una carriera che presto farà i conti con il gap tecnico e atletico nei confronti dei campioni della sua stessa generazione: oltre a Gardini (1930), Beppe Merlo (1927), Orlando Sirola (1928), Umberto “Bitti” Bergamo (1930) e di Nicola Pietrangeli (1933), l’unico che Clerici si vantava di aver battuto. Calcò anche l’erba di Wimbledon nel 1953 – memorabile, e ripetuto all’infinito, con mille varianti e divagazioni, il racconto del suo viaggio in 500 da Como a Londra – e il rosso del Roland Garros nel 1954, sempre eliminato al primo turno.

Fece molta più strada, indubbiamente, riempiendo taccuini e cartelle da 1800 battute con l’Olivetti portatile. E non solo sulle pagine dei giornali – alla lunga stagione del Giorno, 1956-88, succedette, fino a pochissimi anni fa, quella a La Repubblica e L’Espresso –. La vena narrativa si manifestò infatti fin dagli anni Sessanta. Del 1966, per i tipi di Vallecchi, è il romanzo Fuori rosa, ambientato sorprendentemente nel mondo del calcio. Sorprendentemente perché proprio dal football, che a partire dal secondo dopoguerra diventerà in Italia lo sport egemonico, Clerici volle sempre prendere le distanze.

Il perché lo spiegava, da par suo, in un pezzo del 2002 su la Repubblica:

«Credo che il mio ultimo servizio sul calcio, umile secondo di GioanBrerafuCarlo, risalga ad un Inter-Liverpool, a San Siro, quando ancora Suarez aveva i capelli, e Peirò sottrasse una incredibile palla ad un gnocco di portiere inglese. Scrissi, come sempre ispirandomi a miei maestri di sense of humour, specialità poco praticata da noi. Il giorno dopo, ricevetti una telefonata di alcuni tifosi dell'Inter, che mi minacciavano di bruciare il bosco – vivo in un bosco – e di uccidermi i cani – ho sempre avuto cani –. Chiesi di occuparmi di sport meno cruenti, e fui esaudito».

L’articolo s’intitolava Vecchio nemico pallone forse c’è ancora speranza ed era nato dall’occasione, il 5 maggio 2002, in una pausa degli Internazionali di Roma, di andare ad accompagnare dei colleghi all’Olimpico a vedere Lazio-Inter, ultima di campionato, che tutti si aspettavano dovesse consacrare Ronaldo e compagnia nerazzurra campioni d’Italia. Sappiamo che andò in modo diverso. Lo sguardo quasi antropologico di Clerici – condito di lombardissima, disincantata ironia, che curiosamente ha qualcosa da spartire con quella con cui Delio Tessa, improvvisato inviato a San Siro per L’Ambrosiano, descrisse un Italia-Inghilterra del maggio del 1939 – quella partita la raccontava così:

«Che la Lazio non avesse molte buone ragioni per vincere [me lo assicuravano] gli esperti che mi addottrinavano: mostrandomi, a conferma, addirittura articoli stampati da giornali, diciamo così, prestigiosi. Tale sorprendente tesi mi apparve confermata dal comportamento delle due tifoserie. La curva sud, prenotata dai milanesi, ribollente di entusiasmi, scritte, striscioni, gonfaloni, lenzuola e quant' altro. L'altra, dei laziali, mezzo vuota sino a pochi minuti dall' inizio, muta, e ravvivata soltanto da una sorta di speakerdoberman, che in un tentativo di alfabetismo latrava la formazione. Mi disponevo quindi ad assistere all'incredibile spettacolo di un match regalato, e il primo intervento del portiere Peruzzi appariva tanto goffo da confermare le più nere previsioni. Ancor più sorpreso che scandalizzato, mi andavo dicendo che il mondo d'oggi non era più il mio, quando giungeva il pareggio. Esultavo, per quella indiretta smentita, ma venivo presto deriso in seguito al nuovo vantaggio dell'Inter. Il pareggio della Lazio, e il suo successivo dominio, lasciavano muti i profeti di machiavello, e mi incoraggiavano a pensare che, pure in uno sport tanto degradato, non tutto è perduto. Mentre i tifosi delle due fazioni sfollavano, egualmente delusi, un altro vecchio scriba, Lino Cascioli, pronunciava l'epitaffio della vicenda: «Mai visto un funerale con ottantamila dolenti».

A rileggerlo adesso viene il rimpianto che il Clericus Comacinus – come lo chiamava il Clericus Papiensis Brera, andando fiero che la grandezza di Milano, in saecula saeculorum, l’avessero fatta i provinciali come loro – non abbia frequentato un po’ di più gli agoni pallonari.

Tornando alla bibliografia extrapubblicistica, e in particolare a quella narrativa, la lista è ricca, e giustifica ampiamente il neologismo di “giornatore” (giornalista+scrittore) che Clerici coniò per se stesso. Alla raccolta di romanzi brevi Quando viene il lunedì (Mondadori, 1974, che contiene, oltre al precedente romanzo di Vallecchi, anche Altri clown e I gesti bianchi) seguirono negli anni Cuor di gorilla (Mondadori, 1988), la trilogia I gesti bianchi (Baldini e Castoldi, 1995, che contiene, con il titolo Costa Azzurra 1950, il testo pubblicato ventun’anni prima da Mondadori, in mezzo agli altri due Alassio 1939 – ripubblicato autonomamente nel 2004 – e Londra 1960), Il giovin signore (Baldini e Castoldi, 1997), Erba rossa (Fazi, 2004), Mussolini. L’ultima notte (Rizzoli, 2007), Australia Felix (Fandango, 2012); a cui si aggiungono le raccolte di racconti Zoo. Storie di bipedi e di altri animali (Rizzoli, 2006) e Una notte con la Gioconda (Rizzoli, 2008), quelle di poesie, Postumo in vita (Sartorio, 2005) e Il suono del colore (Fandango, 2011), e numerose opere per il teatro, alcune originali, altre riduzioni da titoli narrativi. Ma per chi volesse inoltrarsi nel singolare mondo di uno scrittore prestato allo sport, il consiglio è quello di cominciare da quella sorta di auto-etero-biografia che s’intitola Quello del tennis. Storia della mia vita e di altri uomini più noti di me (Mondadori, 2015).

Resta il fatto che «Quello del tennis» rimane un narratore inarrivabile, per competenza di merito – a lui si deve “la Bibbia” 500 anni di tennis, pubblicata per la prima volta da Mondadori nel 1974 e poi continuamente aggiornata fino al 2013, oltre alla biografia dell’amatissima Suzanne Lenglen, Divina, Corbaccio 2004 – e per originalità di interpretazione del gesto e dell’animo dei suoi protagonisti.

Fuori dalle righe di giornali e libri, dalla fine degli anni Ottanta, Clerici formò con l’amico e collega Rino Tommasi una coppia di telecronisti perfettamente complementare: fabulatorio e divagante l’uno – per Tommasi Clerici era, con uno straordinario calembour, “il Dottor Divago” –, intelligentemente statistico l’altro. I due per oltre vent’anni dimostrarono che le telecronache potevano diventare un perfetto strumento di entertainment e di apprendimento.

Gianni Clerici e Rino Tommasi

Sono molti i ricordi che in queste ore omaggiano la memoria di questo grande narratore di sport. Ma io vorrei affidarmi a quella di Peppino Bracchi, per trent’anni dimafonista al Giorno, che mi pare una delle più schiette e utili a capire la grandezza di Clerici. I dimafonisti, per chi non lo sapesse, erano gli addetti a trascrivere al telefono i pezzi dettati dagli inviati, in un’epoca – non poi tanto lontana – in cui le telecomunicazioni era molto meno digitali e molto più umane.

«Negli anni Ottanta ero un giovane dimafonista – mi racconta al telefono il mitico “Peppin Bracchetto” da Treviglio –. Clerici era un gran signore. Sempre gentile, sempre cordiale. Mi ricordo che Mario Fossati, un altro grandissimo, era invece facile all’incazzatura. Una volta sollevò di peso un dimafonista che gli chiese di fargli lo spelling di Merckx. Clerici, al contrario, era sempre cordiale, e pronto a scherzare: a me mi prendeva in giro, dicendo che ero un meticcio, mezzo bergamasco, mezzo lodigiano… Lui poi era il migliore a dettarci i pezzi al telefono. Non sbagliava una parola, una pausa, una punteggiatura. Anche quando capitava che dettasse a braccio l’articolo, veniva fuori perfetto. Una volta mi dettò un pezzo su una partita della Navratilova. Io, devo dire, non è che capissi molto di tennis, ma la Martina, coi suoi gesti, le sue espressioni, il suo corpo – ricordo che aveva scritto che i suoi capezzoli, da sotto la maglietta sudata, pungevano come punte di spillo – prendeva poco per volta forma dalle parole che mi dettava. Alla fine del pezzo, mi sembrava di conoscere la Martina meglio di mia sorella».

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Gianni Clerici

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