Fisiognomica e filologia d’autore

22 Ottobre 2023

C’è stato un tempo, fino a non molti anni fa, in cui l’identità di uno scrittore veniva definita anche dalla sua scrittura. Intendo proprio la scrittura fisica, materiale, quella particolare e riconoscibile impronta grafica, quel filo più o meno continuo d’inchiostro che riempiva il bianco delle pagine e che era quasi sempre diverso da autore ad autore. Spesso molto più diverso di quanto non fossero gli stili di una scrittura, che spesso invece si assomigliano l’un con l’altro. Del resto stile ha la stessa etimologia di stilo, il bastoncino con cui si graffiavano le tavolette di cera con i segni dell’alfabeto e che solo in seguito servì a indicare in senso figurato il particolare modo di espressione linguistica – lessicale, grammaticale, sintattica o argomentativa – di un autore, o di un genere, di una tradizione o di un’epoca letteraria. 

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Circa quarant’anni fa, la scrittura grafica e materiale anche dei documenti letterari ha iniziato rapidamente a lasciare il campo alla scrittura digitale e, in un certo senso, immateriale dapprima dei personal computer e, via via, a seguire dei sempre più familiari device per produrre testi. Verso la fine del Novecento, Armando Petrucci, un celebre studioso di storia della scrittura, e in particolare della scrittura antica, la paleografia, parlando della scrittura epistolare, ovvero di quel mondo di carta e di parole che per secoli aveva tessuto una rete di relazioni pubbliche e private, sentimentali e diplomatiche, commerciali e creditizie, sosteneva che stavamo per assistere, solo qualche anno dopo la caduta della cortina di ferro, alla caduta di una cortina di carta. Era un passaggio epocale: nel processo scrittorio la mano non avrebbe lasciato più impronte riconoscibili attraverso la grafia personale e la pratica digitale di produzione dei testi avrebbe reso, alla vista, un autore simile all’altro.

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Per secoli la filologia aveva lavorato, ancor prima che sui segni dei caratteri a stampa, sulle scritture dalla tradizione manoscritta e, in alcuni casi fortunati, sugli autografi degli scrittori. E ne aveva scrutato e decifrato le forme grafiche a volte limpide e leggibili come una tipografia bodoniana, il più delle volte ingarbugliate come gomitoli o irte e scorbutiche come roveti. Maria Corti, grande filologa che degli strumenti della filologia aveva saputo fare buon uso per esplorare, con inesauribile curiosità associata a tenace scrupolo, anche altri nuovi territori della critica, alla fine degli anni Sessanta aveva iniziato a raccogliere e conservare materiali autografi di scrittori amici che le avevano fatto dono di carte preparatorie delle loro opere: Eugenio Montale, Romano Bilenchi, Carlo Emilio Gadda… Passarono un po’ di anni prima che, nel 1973, si costituisse il Fondo manoscritti dell’Università di Pavia, diventato poi in seguito il Centro per gli Studi della Tradizione Manoscritta di Autori Moderni e Contemporanei. Nel 1997 la Corti, nel libro Ombre dal fondo che racconta in forma di narrazione quasi romanzesca le vicende di quella sua personale avventura di ricerca e di relazioni umane che è la storia del Fondo, rendendosi conto di un tempo che improvvisamente stava accelerando un processo ormai irreversibile, scriveva questo: «forse la gente del futuro pagherà il biglietto di ingresso e andrà nei musei della scrittura a guardare i manoscritti come ora alle mostre dei codici miniati [e] una guida allora spiegherà [che la scrittura] proteggeva sul bianco della pagina l’individualità di chi aveva la penna in mano e produceva una personale propria grafia».

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Oggi, noi, «gente del futuro», a distanza di un quarto di secolo da quella premonizione, possiamo dirci fortunati: non solo perché non paghiamo il biglietto ma anche perché non abbiamo neppure bisogno di una guida che ci spieghi l’auto-evidente felicissima riuscita della mostra che l’Università di Pavia ha dedicato al patrimonio autografo raccolto in questi cinquant’anni di attività del Centro manoscritti. S’intitola SCARTAFACCE. Le mani, i volti, le voci della letteratura italiana del ’900 nelle collezioni del Centro Manoscritti dell’Università di Pavia ed è ospitata nelle sale del cortile di Palazzo del Broletto, dal 10 al 29 ottobre, con questi orari: dal martedì al venerdì, ore 15-19; sabato, ore 10-19 e domenica, ore 15-19.

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Il titolo è un divertente riferimento alla polemica che, nell’immediato secondo dopoguerra, si accese tra la sbrigativa definizione con cui Benedetto Croce, in un intervento del 1947, liquidava quell’approccio critico-filologico che studiava i manoscritti d’autore seguendone la genesi creativa, dai primi incerti abbozzi alle successive redazioni zeppe di correzioni e ripensamenti, fino alla versione data alle stampe (ma spesso non esente anch’essa da annotazioni correttorie che rimettevano in discussione il processo di elaborazione del testo). A don Benedetto questa acribia su «scartafacci» che non avrebbero visto la luce della benedizione tipografica sembrava attività vana e senza senso: in sostanza una sorta di diversivo per coloro che «non sapevano far né critica né storia». L’anno seguente gli rispose per le rime Gianfranco Contini in un articolo che fin dal titolo lanciava il guanto di sfida: La critica degli scartafacci. L’assunto di base della replica continiana era che l’opera letteraria non andava considerata solo nella forma del suo punto di arrivo ma che l’analisi delle varianti d’autore sarebbe servita a comprendere meglio come lavora uno scrittore sul testo, rivelandone importanti scelte di metodo e di stile. In questo senso, proprio la mostra pavese diventa un illuminante, e divertente, viaggio nell’officina della scrittura di alcuni dei più importanti autori del nostro Novecento.

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I curatori dell’allestimento – e del catalogo, pubblicato da Interlinea – , ovvero Giovanni Battista Boccardo, Federico Francucci, Federico Milone, Giorgio Panizza e Nicoletta Trotta, hanno selezionato dalla vasta collezione del Centro materiali che sono stati articolati in sette sezioni-percorsi che hanno il pregio di essere tanto eleganti quanto agili nel saper catturare l’attenzione del visitatore curioso con pochi ma precisi documenti, accompagnati da testi brevi ed efficaci prodotti da un team di ottimi giovani studenti: Luca Ballati, Francesco Cerulo, Eva Corbari, Alice Dacarro, Roberto Galleran, Noemi Nagy, Irene Soldati, Lies Verbaere, Raffaele Vitolo. Si vede che su tutti e tutto ha aleggiato benefico il genius calviniano – e del resto come non poteva in questi giorni di anniversario – se infatti la scansione delle sezioni si ispira semanticamente alle sei Lezioni americane: Esattezza che si focalizza sull’importanza di scegliere la parola giusta, la precisione espressiva e sul percorso di approssimazione a quell’ideale di esattezza testuale; Visibilità che accende la curiosità su quei divertissement grafici – disegni, schizzi, ghirigori… – che contornano come in una nuvola figurativa il corpo del testo; Rapidità che raduna tutti quei documenti che esprimono l’impellente necessità da parte dell’autore di fermare sulla carta un’idea, una suggestione, un giro di frase; Leggerezza che sta a indicare come l’autore in alcuni casi catturi al volo un’immagine, una parola e la fissa sui supporti cartacei più eterogenei e improvvisati; Coerenza che s’incentra sul tema del lavoro preparatorio alla produzione di un testo, fatto di elenchi, mappe, scalette, indici; e infine Molteplicità che introduce nell’affascinante dimensione delle infinite possibilità che conducono alla gestazione, elaborazione e quindi definizione ultima di un testo letterario attraverso due esempi diversissimi: il percorso scrittorio e creativo di Hilarotragedia di Giorgio Manganelli e quello di Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern. Anticipa il tutto una sezione introduttiva che spiega, sempre con agile incisività, come Maria Corti sia arrivata a concepire questo archivio di memorie letterarie. A corredo dell’allestimento documentale un’affascinante mostra fotografica di ritratti di scrittori di cui il Centro conserva autografi, negli scatti di Carla Cerati, anche questi appartenenti al patrimonio del Fondo pavese. Oltre ad alcune testimonianze audio: un’intervista di Maria Corti e frammenti di voci di scrittori che leggono le proprie pagine.

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Insomma c’è davvero da perdersi nello scrutare la minuta calligrafia di Montale nei famosissimi versi di Ho sceso dandoti il braccio… o il coacervo gliommerico di una pagina della gaddiana Madonna dei filosofi; le fitte e minute correzioni dell’incipit di La speculazione edilizia di Calvino e una copia, smembrata e postillata di foglietti a scrittura colorata, del romanzo L’anonimo Lombardo di Arbasino. Ma anche le liste lessicali preparatorie di L’isola del giorno prima di Umberto Eco, gli appunti presi da Guido Morselli per la stesura di Divertimento 1889 su un calendario di un’azienda di filati, tessuti e resine di Borsano di Busto e quelli di Luigi Meneghello sul retro di pacchetti di sigarette, alcuni frammenti di versi da Gli strumenti umani di Vittorio Sereni vergati sui blocnotes della Pirelli; o ancora il “piano di scrittura” di Danubio di Claudio Magris con inchiostri multicolori. Ovviamente più di tutto ad attirare l’attenzione sono i disegni che abitano le carte: un autoritratto capovolto di Flaiano sulla scaletta per il romanzo Il Messia; le stupefacenti silhouettes di mandarini nel diario di viaggio in Cina di Franco Antonicelli; i Profili di Luigi Malerba, sorta di oggetti-calligrammi; i bestiari di Montale nei biglietti destinati alla governante Gina Tiossi; i pennini e le forbici che contornano i versi di Franco Fortini; e le fantasmagoriche grafiche di Dino Buzzati, vero maestro del pennino oltre che della penna.

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Magris, appunti per Danubio.

Altrettanto illuminanti della personalità di uno scrittore sono le lettere di accompagnamento che gli autori indirizzavano a Maria Corti, all’atto della generosa donazione dei loro scartafacci. Attirano l’attenzione due documenti su tutti, di poeti vicini per ragioni anagrafiche, ma assai distanti per temperamento e consapevolezza di sé e del proprio essere autori letterari. Nel gennaio 1969 Franco Fortini invia il manoscritto autografo del poemetto La poesia delle rose – che è tutto un florilegio di penne e pennini a contorno del testo battuto a macchina – e l’accompagna con un commento di tono involontariamente simil-alfieriano: «Rammento di aver lavorato con grande intensità tutta l’estate, in una condizione ossessiva nella quale non cessavo tutto il giorno di accanirmi su delle varianti […] fino a cadere di sonno; e ricominciare la mattina dopo appena sveglio». Nel maggio del 1970 Vittorio Sereni fornisce con ben più pragmatico understatement le istruzioni per l’uso e l’interpretazione dei manoscritti della lavorazione della raccolta Gli strumenti umani: «Tieni presente che i casi sono diversi tra loro. A volte ci sono appunti già elaborati rispetto a un appunto precedente che era rimasto mnemonico o che, riprodotto su un foglietto o una busta poi gettati o strappati, è stato semplicemente trascritto e poi ripreso più volte. Altre volte trovi successive copiature di uno stesso testo già a buon punto e di cui non esiste (e magari non è esistita mai) una precedente e seppur grezza stesura: in questi casi c’è sempre qualche ritocco o aggiunta o modifica intermedia. In altri casi ancora trovi su più fogli trascrizioni di versi isolati o di nuovi gruppi di versi appartenenti a poesie diverse: si tratta di trascrizioni “pro memoria”».

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Volponi, appunti per Il pianeta irritabile.

Come ricorda Giuseppe Antonelli, presidente del Centro manoscritti di Pavia, al termine della sua prefazione al catalogo della mostra, Maria Corti «era una scrittrice e una studiosa luminosa: nel senso che nella sua scrittura abbondano immagini e metafore che attingono al campo semantico della luce e dei lumi, anche in senso filosofico e intellettuale». Ed è seguendo questa luce di modello e di magistero che il visitatore nella mostra pavese si inoltra alla scoperta delle ombre fantasmatiche degli scrittori del Fondo e delle loro esili o esibite tracce scrittorie che sembrano appartenere ormai a un’epoca storicamente non poi così distante ma culturalmente lontanissima. Che forse è finita, scomparsa come Ombrosa, la foresta di alberi e segni del Barone rampante che tanto assomiglia a quel «filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi si intoppa, e poi ripiglia ad attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito».

SCARTAFACCE. Le mani, i volti, le voci della letteratura italiana del ’900 nelle collezioni del Centro Manoscritti dell’Università di Pavia, Palazzo del Broletto, dal 10 al 29 ottobre, con questi orari: dal martedì al venerdì, ore 15-19; sabato, ore 10-19 e domenica, ore 15-19

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