In bicicletta. Da Udine al Carso, passando per Cividale
Stamattina a Udine il cielo era azzurro di un azzurro di stoviglia e la piazza Libertà s’illuminava dei suoi marmi e delle sue pietre candide e rosate. La fontana, il leone stilobate, Florean e Venturin, la loggia del Lionello, la torre dell’Orologio, l’arco del Palladio che porta alla salita del Castello erano tutti lì a ricordarmi che di piazze così belle in Italia forse non riesco a contarne più di tre o quattro. Che è già un bel partire.
Ma prima di partire, in bicicletta, verso i Colli orientali, vuoi non salire sul punto di più alto della città e guardarti intorno? Non consigliava di farlo anche Goethe, appena si arriva per la prima volta in una città? A Udine non è la prima volta che ci vengo, ma salire sul colle del Castello è una cosa cui sarebbe sciocco rinunciare. E poi c’è una novità: pare che recenti sondaggi archeologici sulla parte sommitale del colle stiano per confermare quella che si credeva, fino a poco tempo fa, una favola: cioè che l’altura del castello non sia affatto un rilievo naturale, ma che sia stata eretta per mano dell’uomo, in un’epoca ancora non ben identificata.
Magari non sarà proprio stato Attila, come vuole la leggenda, a far erigere artificialmente l’altura, dicono per poter assistere, da lontano, al gigantesco incendio che seguì al saccheggio di Aquileia, nel 452. Più probabilmente il colle dove poi sorse il primo castello non è altro che un tumulo megalitico, qualcosa di simile al tumulo di Sant’Osvaldo, che si trova nel pras de Tombe, alla periferia sud della città, e risalente all’età del bronzo, ovvero intorno al 2000 a.C.
Poi magari sarà una cosa metà e metà: nel senso che c’è uno spuntone di roccia che vien su, non chiedetemi come, nel bel mezzo della pianura, e a poco a poco, era dopo era, gli uomini pensano che là sopra, alla fine, si stia meglio che in basso, fanno un bel montarozzo intorno e poi ci salgono per guardare l’orizzonte o le stelle o, forse, dentro loro stessi.
Stamattina non c’erano le stelle e l’orizzonte, nonostante l’azzurro smaltato del cielo, di lontananza non regalava le visioni violette delle montagne, dal Piancavallo allo Smeta Gora. Però, come tutte le altre volte, lì in cima, a me sembra sempre di sentire qualcosa di speciale. Quelle cose che uno prova al centro di un teatro greco o all’ombra di un chiostro romanico. Fremiti. Avvertimenti. Saranno forse quelle poche gocce di sangue longobardo che ancora mi scorrono nelle vene a farmi sentire nel posto giusto tutte le volte che arrivo da queste parti. Forse Paolo Diacono era un mio remotissimo cugino…
E chissà se della famiglia Zilli, di cui si espongono i tre bei ritratti – Ettore, la moglie Liliana Chiochiatti e il figlio piccolo Tiziano – realizzati negli anni Cinquanta da Silvio Maria Bujatti, fotografo udinese del Novecento, nella sua mostra temporanea (10 giugno-10 luglio), allestita nella Casa della Confraternita del Castello, è lontana parente Gloria Zilli, moglie di Osman Batistuta e mamma di Gabriel Omar Batistuta, di cui, per una buffa coincidenza, in questi giorni sto scrivendo il capitolo di un libro. Perché i Batistuta, forse Battistutta, o Battistutti, come del resto gli Zilli, erano friulani emigrati in Argentina già prima della Grande Guerra.
A mattina inoltrata ci si lascia Udine alle spalle, partendo nella periferia est della città, dal parco del Torre, tra i campi di girasole. Si perde quasi il conto dei corsi d’acqua attraversati nella tappa di oggi, destinazione Collio goriziano e poi il Carso. Dopo il Torre, è la volta della roggia Cividina, poi del torrente Malina, quindi a Cividale il celeberrimo ponte del Diavolo scavalca le acque grigio-indaco del Natisone; ancora il torrente Corno, e poi lo Judrio. Infine, il fiume Isonzo, che sembra l’unico a essere ancora generoso di acque, in questa terribile estate secca.
Ecco, anche a Cividale mi sento come a casa. Come si sentiva a casa il protagonista di Vedrò Singapore?, l’ultimo romanzo di Piero Chiara (Mondadori, 1981). Protagonista che come quasi tutti i romanzi di Chiara si sovrappone un poco alla figura biografica dell’autore. È una commedia, nel senso aristotelico del termine: un giovane impiegato dell’amministrazione giudiziaria dell’Italia degli anni Trenta, alle prese con peripezie degne di un Decameron novecentesco. Quel minuetto di innamoramenti e sventure è tra quei libri che riprendo in mano quando voglio alleggerirmi il cuore, e quando mi illudo che un poco di quella fabulatoria leggiadria mi rimanga attaccata nei pensieri e nelle parole. Ma non c’erano né la maestosa Olga, figlia dell’oste del Rinoceronte; né l’accogliente Anna, dolce maestrina di San Pietro al Natisone; e neppure la fatale Ilde, sensuale e inaccessibile commessa del Caffè Longobardo. E allora, via, di nuovo in sella.
Poco fuori Cividale, lungo la sponda sinistra del Natisone, all’altezza di un antico guado, arriviamo all’ex monastero di San Giorgio in Vado, che è, appunto, il “guado” sul fiume. Il complesso, di origine duecentesca, è una delle più antiche testimonianze artistico e architettoniche del Friuli. Un tempo convento femminile dell’ordine agostiniano, quindi passato ai francescani, dalla seconda metà del Settecento divenne proprietà privata e fulcro di attività agricole. Si conserva bene la chiesa, con vari palinsesti di affreschi, che vanno dal XIII al XVII secolo: tra gli altri, un’uccisione di Tommaso Becket, vescovo di Canterbury e altri interessanti lacerti di figure trecentesche.
Ma quello che strabilia è che cosa sia diventato oggi questo luogo, il Giardino del Chiostro: una fattoria didattica dove si coltivano biologicamente erbe aromatiche, ortaggi e frutti con i principi della permacultura e con l’avanguardia tecnologica della robotica, applicata all’orto sinergico. Il luogo, delimitato da una lunga muraglia del convento trecentesco e dalla forra sul Natisone, è anche un luogo di meditazione e riposo: una singolare installazione naturale e plastica, riproduce il percorso delle tre cantiche dantesche della Divina Commedia. L’azienda agricola ha anche una funzione di inserimento sociale di soggetti portatori di disabilità mentale. Il Giardino del Chiostro organizza visite guidate per scuole, workshop, residenze estive. Un luogo dove una storia millenaria s’intreccia con un’intensa attività sociale e didattica, all’insegna di un felice e virtuoso esempio di sostenibilità ambientale.
Accompagnati dalla mole rassicurante del Matajur, la grande montagna delle Prealpi Giulie, ci inoltriamo in quel giardino incantato che sono i vigneti dei Colli Orientali, pettinati come un velluto, che ci accompagnano all’abbazia di Rosazzo, altro strepitoso belvedere sulla valle dell’Isonzo fino al mare. La calura di fine giugno è mitigata dall’ombra del bosco della Plessiva che ci introduce alla zona umida del Preval, ormai in vista del Collio goriziano, a poche centinaia di metri dal confine sloveno.
Nel tardo pomeriggio, si arriva sulle prime pendici del Carso goriziano, a San Michele. L’antica locanda Devetak è la nostra meta per la cena e per la notte. Qua sopra l’aria si rinfresca e si raffina. Come i piatti e i vini della cucina dell’antica gostilna: su tutti, un mineralissimo Riesling 2018 “Sv. Mihael Selektion Devetak” – solo 600 bottiglie l’anno – e una delicatissima zuff, una zuppetta di semolino con ricotta di capra alle erbe e pepe rosa. Al finire della giornata, come i sassi dell’Isonzo sono levigato di appagata stanchezza. E, docile fibra dell’universo, vado a dormire guardando quieto il passaggio delle nuvole sulla luna. Sognerò Ungaretti?