In bicicletta. Dal Carso al castello di Duino

21 Agosto 2022

Faccio fatica a dirlo, se penso a che cos’era questo luogo poco più di cent’anni fa, ma il Carso è un paradiso. È una terrazza sospesa tra montagna e mare, un groviglio di strade che inanellano villaggi e vigneti, boschi e uliveti. Si sente, ora lontana ora più vicina, l’aria dolce dell’Adriatico che fa da contrasto alla verde-grigia scabrosità delle rocce che qui sono identità geologica. 

Faccio fatica a pensarlo, ripeto, che qui, su queste strade, su queste pietre un secolo fa o poco più è andata al massacro la meglio gioventù di intere nazioni. Una vergogna che sanguina ancora, e ancora di più a leggere su cippi e monumenti la tronfia e stolida retorica patriottica che per anni ha punteggiato questi luoghi di insensata barbarie. Già, ma l’insensata barbarie non ci appartiene forse ancora in questi tempi, se ci siamo ormai assuefatti a osservare da lontano la guerra in Ucraina?

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Questa mattina mi sono svegliato alla locanda Devetak. A colazione Avgustin Devetak mi ha raccontato del cognome: devet, in sloveno, vuol dire nove. Forse il nono figlio di una famiglia prolifica, forse il nono miglio di distanza da qualcosa o qualcuno, forse un nome che viene da più in là, nei Balcani più profondi. Quello che proviene invece da vicino, da vicinissimo, è il bendidio che la tavola dei Devetak imbandisce, soprattutto a colazione: i formaggi carsolini – pecorini aromatici e vaccini di fossa – si sposano alla perfezione coi mieli che sanno di tiglio, castagno, ailanto e che, come le confetture, i succhi di frutta, le verdure sott’olio, arrivano dall’azienda di famiglia. 

Avgustin è fiero di come il suo gineceo – moglie e quattro figlie – mandi avanti con sapienza e passione la locanda, che è aperta da cinque generazioni: 1870, la prima pietra posata. Dietro al banco della reception, c’è una foto di Sandro Pertini, metà anni Settanta, ancora presidente del Senato, seduto a un tavolo della locanda.

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San Michele del Carso è un tormentato monte di pietra. In cima il Museo della guerra. Trincee, bunker, gallerie. Intorno monumenti e cannoni, per fortuna inermi, ma ancora puntati sulla valle dell’Isonzo: dodici battaglie, tra il giugno 1915 e il novembre 1917, e decine e decine di migliaia di morti. San Martino, Trincea delle Frasche, Bosco Cappuccio, e poi Podgora, Sabotino, Monte Nero… Uno non ci pensa più che le vie delle nostre città prendono il nome dai luoghi di questa tragedia, svuotati di dolore e messi lì, muti, su una targa stradale. Davvero sembra impossibile che questo paradiso di natura e colori possa ancora essere abitato dalla memoria del fango e del sangue, dei canti e delle bestemmie, del freddo e dell’odore della polvere da sparo della Grande guerra. 

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In questi casi, per porre argine all’inconcepibile, ricorro all’antidoto della dissacrante ironia: ho cercato su YouTube Il reduce. Cochi e Renato e il loro stralunato monologo antimilitarista in salsa Derby. Inteso come club:

C'eravamo attestati sull'avamposto picco delle tre croci,
strappato al nemico con indicibili sacrifici umani,
quando un giorno parto da detto picco
per portare un messaggio al comandante di brigata di stanza al campo base,
parto dal picco, vado giù per il vallone,
scendo nel ghiaione, attraverso il canalone
e mi metto al riparo di un masso,
sono lì dietro al masso,
faccio una roba dietro al masso,
metto fuori la testa dal masso, paamm!,
dall'altra parte mi sparavan giù le fucilate, il nemico maledetto.
Quando si sente nel petto il disprezzo della vita
e il coraggio di affrontare le... le... puttanaeva!

Il lago di Doberdò ce lo si deve immaginare. E la siccità di quest’estate c’entra solo fino a un certo punto. È un lago fatto così, che si nasconde timido, di una timidezza carsica. Oggi il sole picchia forte nell’ora meridiana e per fortuna che alla Grotta del Gigante trovo una pianta di àmoli, il prunus cerasifera. Ne raccolgo una manciata, ancora non del tutto maturi: ma l’acqua nella borraccia è finita e il gusto dolce-asprigno dei frutti è un bel ristoro.

Si plana verso la costa fino alle falesie di Prosecco: la montagna che scende a picco sul mare è una straordinaria palestra di roccia. A Prosecco-Contovello c’ero stato anni fa a trovare a casa sua Boris Pahor. Aveva già passato il traguardo dei cent’anni, ma il caffè me l’ha voluto fare lui, con la sua Moka da due. L’aroma del caffè si mischiava all’odore dei libri che ricoprivano le pareti, e i tavoli, e le sedie, e i tappeti. 

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Niente Moka, invece, all’osmizza di Dean Verginella: Malvasia o Terrano, nessun’altra alternativa (o quasi). La terrazza tra le vigne sembra la prua di una nave che sta per salpare, lì sotto, da Miramar. Siamo ripartiti verso Trieste, per fortuna non in bici.

La sera è stato gran finale. Castello di Duino, arrivandoci in barca, quasi fosse una privata Barcolana fuori stagione. E poi, nei giardini, sui terrazzi erbosi a sbalzo sulla scogliera, il ricevimento, l’aperitivo che io pensavo fosse già tutto lì, col San Daniele tagliato a velo, le seppiette al nero con polenta, il fritto di minuscoli gamberi e generoso Prosecco. Invece no. Era solo, letteralmente, l’antipasto. 

Nel cortile del castello dei Thurn und Taxis – che, solo per fare qualche nome, ha visto passare Franz Liszt al pianoforte, Sigmund Freud (forse) su qualche divanetto e, su tutti, Rainer Maria Rilke, appoggiato alla balaustra del terrazzo dei gelsomini a inventare le sue Elegie – una distesa di tavoli ci aspettava per l’ultima prova enogastronomica. Abbiamo fatto onore anche a quella. Le musiche si sono avvicendate tra i tavoli dei convitati di molteplici continenti – giornalisti, tour operator, marketing manager… –: dalle arie dell’Elisir d’amore si è finiti per cantare a squarciagola, tra un bavarese e un israeliano, Come è bello far l’amore da Trieste in giù, versione techno. 

A un certo punto mi è parso di vedere anche Rainer Maria ballare su un tavolino. Più che l’elegia poté la Raffa. 

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