Le Coppe Davis tinte d’azzurro
Il 26 novembre, a Malaga, in Spagna, l’Italia di Jannik Sinner, Matteo Arnaldi, Lorenzo Sonego, Lorenzo Musetti e Simone Bolelli, guidata dal capitano-non giocatore Filippo Volandri, ha vinto la Coppa Davis, il torneo di tennis a squadre per nazioni più antico e prestigioso. La storia della competizione inizia nel lontano 1900, a Brookline, Massachussetts, con una sfida tra le rappresentative di Stati Uniti e Regno Unito. All’epoca si chiamava ancora International Lawn Tennis Challenge e divenne Coppa Davis solo dal 1945, con la scomparsa di Dwight Filley Davis. Davis era uno dei quattro ventenni tennisti, studenti della Harvard University, che “inventarono” il torneo. In seguito ebbe una brillante carriera politica, arrivando anche a ricoprire, negli anni Venti, la carica di segretario del Dipartimento di guerra degli Stati Uniti sotto la presidenza di Calvin Coolidge e quindi di governatore delle Filippine. Dei quattro tennisti-studenti Mr. Davis fu quello che, nel 1899, commissionò alla Shreve, Crump & Low, di Boston, una delle più antiche oreficerie d’America, pagandola 1000 dollari, la realizzazione di un trofeo, la famosa “insalatiera” d’argento. Negli anni, e per far spazio ai nomi incisi delle squadre vincitrici edizione per edizione, la coppa venne provvista di ben tre piedistalli concentrici e oggi assomiglia a una buffa torta-catafalco nuziale.
Dal 1900 a oggi – non venne disputata nel 1901, nel 1910 e negli anni delle due guerre mondiali – la Coppa Davis si è tinta di azzurro due sole volte. La vittoria di fine novembre scorso è arrivata dopo ben quarantasette anni da quel 19 dicembre 1976, il giorno in cui l’Italia di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, guidata dal “capitano non giocatore” Nicola Pietrangeli, compì la storica impresa vincendo la finale di Santiago del Cile. Erano altri tempi, ed era quasi un altro sport.
Erano altri tempi perché quella finale, nel cuore degli anni Settanta, arrivava a siglare una nuova era del tennis in Italia. Pratica aristocratica e alto borghese alle origini, e perlomeno fino al secondo dopoguerra, lo sport “dei gesti bianchi”, come lo aveva definito Gianni Clerici – che fu buon borghese, discreto giocatore negli anni Cinquanta e poi, dal decennio seguente e per mezzo secolo, scrivendo sui quotidiani, pubblicando libri fondamentali e commentando a voce le partite alla TV, il miglior narratore di tennis – grazie alle vittorie di Panatta e compagni era divenuto finalmente popolare o, quanto meno, un po’ più democratico. Per giocarlo, non era più strettamente necessario essere iscritti a circoli cittadini, più o meno esclusivi, ma si poteva affittare un campetto municipale, costruito per lo più in austero cemento. Ne spuntavano ormai come funghi anche in provincia.
Appartengo a quella generazione che ha imparato (male) a giocare a tennis passando ore e ore davanti alle dirette RAI dal Foro Italico, dal Roland Garros e al Centre Court di Wimbledon, al suono pieno di colpi di racchette incordate artigianalmente come pianoforti, e allevata dal commento essenziale ed elegante di Guido Oddo e, un po’ meno essenziale ed elegante, di Giampiero Galeazzi. Ma il mio unico maestro di campo non fu che il muro del portico dell’essicatoio della cascina della mia infanzia; il mio primo court l’aia di grandi lastre di cemento su cui disegnavo con la polvere rossa di mattoni scheggiati righe molto sbilenche; la rete che mi separava dagli amici-avversari una corda di rafia tenuta su da due manici di scopa ritti dentro a una coppia di fustini di Dixan zavorrati di sassi e di sabbia, e a cui appendevamo brandelli di sacchi di iuta. Una specie di Forest Hills contadino.
Un Natale di metà anni Settanta mi arrivò in regalo una racchetta di legno, una Donnay. Aveva un manico lunghissimo tanto che colpire di rovescio bimane era una necessità, e non un vezzo alla Björn Borg. Per “essere Borg” mi bastava però una maglietta Fila, bianca, con il colletto blu e blu anche le sottili righe verticali. Erano gli anni in cui non avevo dubbi che Baglioni, quando cantava «Quella sua maglietta… Fila», pensasse a nessun altro che al grande silenzioso campione svedese. Ma ecco che dopo la vittoria della Davis del 1976 anche quel paesino della Bassa padana ebbe finalmente il suo campo da tennis, che il Comune fece costruire di fianco all’edificio delle Scuole medie. Degli spogliatoi e delle docce si poteva anche fare a meno. Ragazzini come me, giovani adulti e distinti uomini di mezza età dalle incipienti pinguedini e calvizie – che all’epoca mi sembravano disdicevolmente anziani ma che adesso sarebbero un quarto di secolo più giovani di me – arrivavano già vestiti per la bisogna. E sfoggiavamo tutti, con malcelato orgoglio, magliette, appunto, «tanto strette al punto che…» e colorate fascette e polsiere antisudore stile Guillermo Vilas o alla Ragionier Fantozzi, a seconda. Anche il negozio Caccia & Pesca del paese aveva dovuto adeguarsi rapidamente al mercato delle nuove mode sportive. Ma di giocare su un campo rosso in terra battuta, neanche a parlarne. Ci ho messo piede solo un po’ di anni dopo, invitato a casa da un amico ricco, e mi sembrava di essere finito in una scena del Giardino dei Finzi Contini.
Ho giocato regolarmente a tennis per dieci, dodici anni, fino alla fine degli anni Ottanta. Un tennis rurale, un po’ anarchico, un po’ punk. Gesti bianchi inzaccherati da frequenti e variegate imprecazioni, qualche volta blasfeme. L’ultimo campo che ho calpestato era la terra rossa, ma assai poco aristocratica, di un circolo del Dopolavoro ferroviario. Ho continuato a seguire regolarmente il tennis fino a quando è progressivamente scomparso dai canali in chiaro. Ma ricordo che in epoca pre-Internet consultavo il Televideo per vedere come si comportavano i poco vincenti epigoni della “generazione Panatta” che oggi ricordo forse più per le loro singolarità onomastiche che per i risultati ottenuti: Gianni Ocleppo, Francesco Cancellotti, Stefano Pistolesi, Paolo Canè – detto “NeuroCanè” da Gianni Clerici per le sue intemperanze sul campo –, Diego Nargiso, Omar Camporese, Stefano Pescosolido, Vincenzo Santopadre, Davide Sanguinetti… Da appassionato ho conservato una buona memoria sportiva del grande tennis internazionale fino alla generazione di Pete Sampras e André Agassi e confesso di aver consumato molto meno tennis negli ultimi vent’anni, perdendomi molto delle gesta del divino Federer, dell’eroico Nadal e del robotico Djokovic, che, piaccia o meno – nel neo-manicheismo dell’opinione pubblica contemporanea Nole è figura quanto mai divisiva – è a oggi il tennista più vincente della storia, considerando le prove di singolare maschile del Grande Slam, con 24 titoli tra Australian Open (10), Wimbledon(7), US Open (4) e Roland Garros (3) su 36 finali disputate.
Ma Djokovic è anche, proprio in quanto “robotico”, il modello di come si è evoluto il tennis negli ultimi decenni. Capita a tutte le discipline sportive che si caratterizzano per una più spiccata componente di tecnologia strumentale di altre. Penso ad esempio a quanto sia cambiato lo sci alpino nell’arco di 40-50 anni, a quanto le modifiche strutturali dei “ferri del mestiere” abbiano imposto un radicale cambio di tecnica di conduzione degli sci. Un cambiamento che, sempre per fare un esempio, forse invece non ha inciso così tanto nel ciclismo, sebbene siano cambiate le biciclette che oggi sembrano lame leggerissime rispetto alle macchine d’acciaio che spingevano ancora Gimondi, Merckx e Hinault. A guardarlo oggi, rispetto alla danza sincopata che si alternava, come in uno spartito multiforme, grazia e potenza, violenza e leggiadria, nei colpi di Ashe e Connors, di Borg e McEnroe, di Lendl e Noah, di Edberg e Becker, di Agassi e Sampras, la sensazione è quella di essere entrati in una nuova dimensione in cui l’eccellenza è fatta da iper-prestazioni atletiche e mentali, da reattività neuro-muscolari portate all’estremo, da gesti eseguiti alla velocità supersoniche. C’è chi sostiene che, a vederlo dal vivo, il tennis contemporaneo sia diventato un problema, tanto veloce viaggia la pallina gialla al punto che l’occhio umano fa fatica a seguirne le traiettorie.
C’è da chiedersi alla lunga che effetto può provocare sui “normali” praticanti questa esasperazione prestazionale del tennis d’eccellenza. Se, in altre parole, lo stimolo di emulazione che porta a voler provare a riprodurre gesti, movenze, colpi dei grandi campioni – che penso stia ancora alla base della nascita di un movimento sportivo – non possa creare un effetto boomerang, dal momento che è davvero difficile imitare quel modo di giocare, risultato di una preparazione professionalizzante portata agli estremi e per questo difficilmente replicabile anche solamente in versione amatoriale. E chissà che, al netto delle mode, non sia proprio questa la spiegazione della sempre più popolare diffusione del padel, che sta al tennis come il giardinaggio all’urbanistica degli spazi verdi.
Ma se il tennis di Sinner e soci, novelli conquistatori di Coppa Davis, è inevitabilmente un tennis cambiato rispetto a quello giocato negli anni Settanta del secolo scorso, sono diverse anche le storie dei protagonisti, come pure la Storia che le contiene.
Partiamo allora dalla storia con la S maiuscola. La finale del 1976 fu al centro di un accesissimo dibattito pubblico perché non era una questione di solo sport. L’Italia, che in semifinale aveva eliminato l’Australia, avrebbe dovuto incontrare il Cile a Santiago. Ma quello era il Cile della sanguinaria dittatura militare instaurata tre anni prima dal generale Augusto Pinochet. In semifinale l’Unione Sovietica si era rifiutata di giocarci contro e aveva spalancato le porte della finale ai sudamericani. Due anni prima, nel 1974, l’India per protestare contro l’apartheid aveva rinunciato a disputare la finale contro il Sudafrica, che si era aggiudicato per la prima (e unica) volta il trofeo. In Italia in quegli anni avevano trovato asilo politico molti oppositori del regime di Pinochet e il fronte della rinuncia, sostenuto dai partiti e dall’opinione pubblica di sinistra, spingeva per una presa di posizione di condanna della dittatura militare e per rinunciare alla trasferta di Santiago. Altri sostenevano che, al contrario, affrontare il Cile e, possibilmente batterlo, sarebbe stato un gesto oltre che sportivo anche politico, che avrebbe contribuito alla causa di chi si batteva per riportare la democrazia in quel Paese. Il governo italiano, e ancora di più il governo sportivo attraverso il CONI, optò per una scelta pilatesca, lasciando la responsabilità alla Federazione Italiana Tennis. Alla fine partirono e, giocando con un’inconsueta maglietta rossa, Panatta e compagni ebbero la meglio sui cileni. L’Italia portò a casa la sua prima Coppa Davis e su quell’impresa, ricostruita perlopiù sulla diretta testimonianza dei protagonisti – pochi i resoconti filmati di quelle partite, molto attutiti i reportage degli inviati forse per ragioni di “opportunità”, o pavida accondiscendenza, politica – a distanza di decenni si sono scritti un bel libro, quello di Dario Cresto-Dina, Sei chiodi storti. Santiago 1976, la Davis italiana, (66thand2nd, 2016), e un accattivante docu-serie TV, Una squadra di Domenico Procacci (2022), poi a sua volta diventato un libro (Fandango, 2023), che racconta anche gli anni a seguire l’impresa cilena, fino alle due seguenti finali perse dall’Italia con USA (1979) e Cecoslovacchia (1980). In compenso, la dittatura durò tragicamente fino al 1990.
Quanto alle storie “private” dei quattro tennisti e del loro capitano-non giocatore, sono vicende di persone nate nel secondo dopoguerra – a eccezione di quella, già di per sé un romanzo, di Nicola Pietrangeli, nato a Tunisi nel 1933, e figlio di un imprenditore italiano, costretto a ritornare in patria dopo aver perso tutto con la Seconda guerra mondiale, e di una madre mezza danese e mezza russa – e di un’Italia piccolo-borghese che trova nella generazione dei figli un’ascesa sociale attraverso lo sport. Adriano Panatta (1950) è romano, figlio del custode del circolo Tennis Club Parioli; Paolo Bertolucci (1951) è di Forte dei Marmi, in Versilia, capoluogo di un turismo d’elite che ha nel tennis uno dei suoi principali svaghi; Corrado Barazzutti (1953) è nato a Udine ma cresce ad Alessandria e viene avviato al tennis da Giuseppe Cornara, ex calciatore, il talent scout che dieci anni prima aveva “scoperto” Gianni Rivera (un dato significativo di come la settorializzazione dello sport, negli anni Cinquanta, fosse ancora un’idea lontana); romano è anche Tonino Zugarelli (1950), di estrazione più popolare degli altri – cresce in una borgata a sud di Monte Mario –; e di fatto romanissimo è anche il capitano-non giocatore, Pietrangeli, gran campione anni 50-60 che due finali di Davis le aveva già disputate, e perdute, contro l’Australia nel 1960 e nel 1961; come pure romano è Mario Berardinelli (1919), il responsabile tecnico del Centro federale di Formia, il regista di quella vincente Italia del tennis anni ’70.
Quasi cinquant’anni dopo, la “Nuova Italia” della Coppa Davis è geograficamente più composita, che forse è il frutto dell’onda lunga di quella “decentralizzazione provinciale” anni ‘70. Il capitano-non giocatore, Filippo Volandri (1981), ex tennista (nel 2007 ha raggiunto il 25° posto del ranking ATP, suo miglior risultato), è livornese. Lorenzo Sonego (1995) è di Torino, Lorenzo Musetti (2002) di Carrara, Matteo Arnaldi (2001) è sanremese, Simone Bolelli (1985) bolognese (tutti oggi, a eccezione di Bolelli, nei primi 100 del ranking mondiale). Il leader del gruppo, il fenomeno per il quale i media hanno scomodato paragoni con eroi nazional-popolari dello sport, come Alberto Tomba o Valentino Rossi, Jannik Sinner, classe 2001, è altoatesino di San Candido. Nella sua ancora breve carriera ha già raggiunto Adriano Panatta quanto meno come posizione nel ranking mondiale (è 4°, come lo era stato Adriano nel 1976) e come numero di tornei ATP vinti (10), anche se, per il momento ancora nessun Grande Slam (Panatta, in quel magico 1976, conquistò al Roland Garros gli Internazionali di Francia). Jannik è figlio di una regione che aveva prodotto finora grandi campioni negli sport invernali: da Gustav Thoeni da Trafoi, che vinceva nello sci alpino Coppe del Mondo e Olimpiadi più o meno negli stessi anni in cui Panatta e compagni vincevano la prima Davis, al meranese Armin Zöggeler, per vent’anni dominatore nello slittino, tanto da aver collezionato dal 1995 al 2014, sei titoli mondiali, quattro europei, dieci Coppe del Mondo e sei medaglie (due d’oro, due d’argento e due di bronzo) in sei edizioni consecutive di Olimpiadi.
Ma che sia figlio del suo tempo, Sinner lo dimostra il fatto che il suo italiano non ha quasi per nulla il marcato accento tedesco dei suoi corregionali, abituato com’è piuttosto a parlare inglese come lingua internazionale fin dalla sua adolescenza in giro per il mondo dei tornei ATP. Sinner è anche un campione del suo tempo, di quel tennis programmato e super-performante di cui abbiamo parlato prima, ma però come se fosse ingentilito dal suo essere discreto e misurato nelle espressioni agonistiche e relazionali. La sua faccia da ragazzo lentigginoso e dai riccioli rossi, combinata con la sua eccezionale velocità sul campo da gioco, gli hanno procurato facilmente il nickname di Rosso volante che, guarda caso, lo accomuna a un altro campione altoatesino del passato, il cortinese Eugenio Monti, campione di sci e poi olimpionico di bob a due e a quattro (6 medaglie, due ori, due argenti e due bronzi, tra Cortina 1956 e Grenoble 1968) e grande esempio di sportività: alle Olimpiadi di Innsbruck del 1964 prestò un bullone del suo bob alla coppia britannica che lo aveva rotto, favorendone così il successo.
Per finire, se nel 1976 la cornice della Coppa Davis era costretta ad allargare il suo orizzonte sulla politica e le dittature di quegli anni, oggi non si è trovato di meglio che polemizzare sulla sostanziale italianità di Sinner, sudtirolese: nel settembre scorso il maggior quotidiano sportivo italiano aveva innescato la bomba a mero scopo scandalistico quando Jannik aveva declinato la convocazione in Nazionale per disputare la prima fase eliminatoria. Pazienza. Sinner ha dimostrato una certa eleganza nel non voler tornare sull’argomento. Resta da chiedersi se il ritorno alla vittoria in Davis dell’Italia del tennis dopo 47 anni – più o meno la stessa distanza “storica” tra il Mondiale di calcio vinto dagli azzurri di Bearzot nel 1982 dopo quello conquistato dall’Italia nel 1938 o tra la vittoria di Pantani al Tour de France del 1998 dopo quella di Felice Gimondi 33 anni prima – possa essere raccontata con la chiave se non dell’epica, quantomeno con quella del romanzo, come è stato per i Quattro moschettieri del tennis azzurro (seppure vestiti di rosso) a Santiago del Cile, in un contesto storico e in una realtà ancora così poco sovraesposta all’erosione ipermediatica che caratterizza oggi il prodotto-evento sportivo.