Friuli in bicicletta
Da bambino mi incantavo davanti alle carte geografiche, anche a quelle appese sul muro delle aule di scuola. Guardando in alto a destra la mappa della penisola, andavo spesso a cercare un angolo colorato di violetto o di verdino, non ricordo più, con quella curiosa propaggine sulla destra, in basso, che sembrava un codino pencolante, o forse un manico per impugnare meglio l’intera regione: era il Friuli-Venezia Giulia. Mi sembrava che quell’ultimo lembo d’Italia fosse un confine più confine di tutti gli altri. Lo era ancora di più per quella parte che toccava non tanto l’Austria, ma l’allora Jugoslavia.
Era l’estrema periferia della nazione e in un mondo, metà anni Settanta, in cui la memoria e la paura di una guerra non erano ancora del tutto confinate, e inibite, dentro alle pagine dei libri di storia, dire Friuli-Venezia Giulia era pensare ai fratelli maggiori mandati, apprendisti tenenti Drogo, a fare il servizio militare a guardia di un pericolo latente, quasi mai nominato, ma ben presente, in lontane caserme dai nomi che suonavano strani ed esotici sulle cartoline postali: l’Amadio di Cormons, la Zucchi di Chiusaforte, la Bertolotti di Pontebba, la Vescovo a Purgessimo.
Negli anni ho imparato che questa “periferia nazionale” era stato uno dei cardini geografici di quando l’Europa era meno Occidente e più Oriente. Passando per i bassi valichi delle Alpi Giulie, per secoli e secoli i popoli dell’Est e del Nord hanno bussato alle porte del Mediterraneo – anche senza aspettare che le aprissero –, un mare che raggiunge qui la sua latitudine più settentrionale e quindi più prossima al cuore del continente. Un cuore geografico, una “terra di mezzo” per quell’entità storica, sociale, culturale, ma anche immaginativa, che è stata la Mitteleuropa, coi suoi miti asburgici del buon vivere e della civile convivenza di popoli, lingue, religioni.
Friuli, dunque, e Venezia Giulia: due differenti realtà geografiche, un po’ forzosamente accorpate dalla storia, dopo i tragici esiti della Seconda guerra mondiale. Il Friuli, italiano fin dal 1866; e la Venezia Giulia, con Trieste e Gorizia, conquistate con la Grande Guerra e poi, dopo il 1945, “mutilate” del vasto entroterra, dell’Istria e della Dalmazia, nella spartizione geopolitica che diede forma alla Jugoslavia.
Bisogna dunque fare molta attenzione a non confondere friulani e giuliani, soprattutto se triestini; e a non tener conto che, tra Timavo e Isonzo, i bisiachi – da bis aghe, tra due corsi d’acqua – sono altra cosa ancora. Del resto è molto più facile capire quello che distingue un carnico da un gradese, un falegname della Valcellina da un commerciante di caffè del Borgo Teresiano di Trieste, che non quello che li accomuna.
Se per Ippolito Nievo soltanto il Friuli era «un piccolo compendio dell’universo, alpestre piano e lagunoso in sessanta miglia da tramontana a mezzodì», come scrive in Le confessioni di un italiano, Guido Piovene, poco meno di un secolo dopo, nel suo Viaggio in Italia, scriveva di questa terra come di «universo nella sua varietà». Allora si può davvero affermare che è la forma composita di tante diversità a rendere unico questo viaggio “in alto a destra” sulla carta geografica e a trasformarlo in un’esperienza che stimola il “viaggiatore sottile” a riconoscere differenze e affinità, passaggi e sfumate transizioni nei paesaggi e nella vita materiale, come nei segni dell’arte e della storia.
L’8 aprile 1953, poco prima di sera, il primo canale radiofonico della Rai trasmetteva un radio documentario sul Friuli. In sottofondo un fischio di un treno a vapore e un rumore di stantuffi subito sfumato lasciavano campo a una voce: «Chi parte da Venezia, dopo un viaggio di due ore (se prende l’accelerato, magari quello del sabato sera, pieno di studenti e di operai) giunge al limite del Veneto e, per dissolvenza, entra nel Friuli. Il paesaggio non sembra mutare, ma se il viaggiatore è sottile, qualcosa annusa nell’aria. È cessata sulla Livenza la campagna dipinta da Palma il Vecchio e da Cima.
Le montagne si sono scostate, a nord, e appiattite a colorare il cielo di un viola secco, con vene di ghiaioni e nero di boschi appena percettibile contro il gran velame; e il primo Friuli è tutto pianura e cielo. Poi si infittiscono le rogge, le file dei gelsi, i boschetti di sambuchi, di saggine, lungo le prodaie. I casolari si fanno meno rosei, sui cortili spazzati come una festa, coi fienili tra le cui colonne il fieno si gonfia duro e immoto. Ma è specialmente l’odore a essere diverso. Odore di terra romanza, di area marginale. Sulla dolcezza dell’Italia moderna c’è come il rigido, fresco riflesso di un’Italia alpestre dal sapore neolatino ancora stupendamente recente». Le parole si perdono ancora tra i rumori di treni a vapore e di voci varie che sfumano.
Ho viaggiato più di una volta per le terre del Friuli e della Venezia Giulia avendo in testa queste parole che sono di Pier Paolo Pasolini, come quelle di altre voci: Biagio Marin e la luce, peculiare, della sua Grado; Virgilio Giotti e Umberto Saba per le vie di Trieste. E tutte le volte mi sono detto che ormai sarebbe stato impossibile, ai giorni nostri, ritrovare in quelle terre la luce, i colori, gli odori di un mondo che, necessariamente, non è più quello di cinquanta, settanta, cento anni fa. Ma tutte le volte, nonostante le trasformazioni della modernità – meno casolari e più infrastrutture, scomparsi i fienili e spuntati come funghi i centri commerciali – mi sono quasi sempre sorpreso di riuscirne a cogliere ancora una profonda, quasi metafisica sopravvivenza.