Sconfinato Patella

4 Marzo 2025

Il caso di Luca Maria Patella è esemplare: la morte dell’autore libera l’opera dalle smanie, dalle fissazioni, dalle nevrosi, dal carattere, dai lamenti e rancori e accidenti e lagne dell’autore; l’allontanamento dell’autore “affranca” l’opera, che può finalmente  respirare e mostrarsi sempre più per quello che è, alleggerita, fuori dal soffocamento del suo autore, ossessionato tra l’altro, come ogni artista, dalla carriera dei colleghi, dall’ingiustizia dei poteri, dalla disattenzione delle istituzioni, dall’empietà del mondo, dalla sfortuna e dall’ingiustizia della sorte ecc. ecc..

Nel giro di pochissimo tempo riprendere in mano gli scritti di Patella, guardare i suoi lavori (fotografie, film, tele emulsionate, apparati e allestimenti, a iniziare dagli alberi parlanti,  selva incantata e filosofica e allegoria totale della respirazione verbale del mondo, passando per le folli lezioni proiettive in atto: false conferenze per destabilizzare il potere e le istituzioni del sapere, fino alle Sfere per amare o ai Comportamenti ecc.) produce la sorpresa del divertimento, della scoperta di un universo allegro e magico: direi la prima cifra è un infantilismo vertiginoso, il divertimento del sapere e del gioco dei saperi, tutto sorretto e puntellato da una scrittura e da una lingua sconnesse, frantumate, impazzite e indisciplinate, che inseguono continuamente se stesse, che sottraggono a se stesse il senso convenzionale per produrre altri sensi e sentimenti: parole scomposte, giochi combinatori: parole tutte insubordinate, con sillabe come acini di rosario o perle di una collana infranta per raggiungere ognuna e in diversa combinazione altro di sorprendente. Patella guarda con sospetto la fissazione del linguaggio, anzi rifiuta ogni fissità, e le parole portano in sé inconscio e incoscienza e rivelazioni inaspettate e prodigiose. Le parole gli si tradiscono in bocca e mostrano segreti ad ogni passo, la lingua parla e si risveglia, è furiosa e prolifica. Un pomeriggio che voleva parlarmi dell’”espressione” artistica in un attimo era finito a dirmi dell’es e della pressione che esercita sull’artista – e da quel momento l’”espressione” è ed  è rimasta “es - pressione”, pressione dell’es, e non c’era più nulla da fare, con un passo si era sprofondati e ci si ritrovava a parlare della lotta con l’ombra e l’oscurità: il problema artistico durante la notte, NO – TTE, «e chi allora?» si chiedeva «se non sono più io nel sonno?», e nel sonno, SO – NNO, “non so” , nessun più sapere, e così via: un continuo avere rivelazioni e scosse dalle parole, uno stare ad ascoltarle ed essere alla loro mercé . Questo franamento informava anche tutta l’oralità e irrimediabilmente ogni intervento pubblico. Gli interventi pubblici di Patella erano dei disastri, parlava amabilmente in preda agli scuotimenti dei prefissi, alle distrazioni delle sillabe, in balìa dei significanti, strattonato dai suoni, scivolando e inciampando in continuazione sulle parole. 

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Contro lo sfruttamento economico e psicologico ecc. Volantino 1975.

Poi ci sono le immagini proiettive e cioè ogni fotogramma di Patella rimanda ai sistemi del sogno, o meglio è un sogno in atto. Una donna è una donna ma anche la madonna, e la madre, e l’anima e dunque una parte dell’io ecc. tutto il mondo di Patella trema e trama allusioni e si moltiplica, come le sue parole: il disegno, e poi acquaforte, di una madre con la carrozzella che porta il figlio a spasso è allo stesso tempo un trasporto segreto e inquietante, a iniziare dall’autore stesso (il neonato piangente, cioè che “piange ‘n te”) portato a spasso dall’anima, inconsolabile e solo felice nello scorrazzamento. O ancora le scritture enantiodromiche dervisciche, il dialogo ininterrotto con Duchamp, con Diderot, con Dante, con il Dante della Vita nova, soprattutto, letta, insieme all’intera tradizione lirica d’amore, come pratica analitica (troppe camerette e letticcioli in quei canzonieri, aveva già avvertito Alberto Moravia) e raggiungimento di un riso per esprimere tutta l’infelicità d’amore. 

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Dedica di Ernst Bernhard a Luca Patella.

L’intero mondo di Patella è un castello parlante e sonoro, numerosi gli scritti deliranti in una logica stringente e logicissima e così strapiena di senso da essere sempre in eccesso: dall’altra come amava ripetere, citando Salvador Dalì, «tra me e un pazzo non c’è nessunissima differenza se non che io non sono pazzo». E questo a cominciare dal nome (il nome va legato ad un destino) e dalla firma, la firma d’artista, che poteva essere Luca Maria Patella (con animus e anima, parte maschile e femminile e prevaricare del femminile per la patella, pàtera, scodella o recipiente o graal femminino); L. M. R. Patella ( con l’inserimento della iniziale R. di Rosa – Rosa Foschi anche la sposa e compagna – coscienza e anima incarnata, proveniente dalle regioni femminili); L. Patella per gli atti ufficiali e la piattezza burocratica; Lù capa tella (lui sceglie telline, sapendo, come spiegava Calvesi, che capando nelle telline prima o poi si trova una perla); e  Luca  (come “lucere”)  solo e nudo, per sottolineare tutto ciò che è luce e brillìo narciso e creativo, oppure, con riverbero dantesco: «dove non è che luca», a indicare invece lì dove non c’è neppure un punto che riluca, dove tutto è oscurità da indagare.

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Gazzetta Ufficiale n.4 1975.

In Patella la complessità è in primo luogo un divertimento, l’erudizione un lusso dell’infanzia (uno di quelli per cui si poteva trafficare con le stelle e costruire cosmoscopi, cupole, tondi celesti e sonde per misurare la profondità del pozzo dietro casa).

C’è una scultura-oggetto autoritratto del 1980 con cui Patella ha cercato di spiegare  e mostrare la sua produzione, s’intitola Cidrolin e consiste in una custodia di macchina da scrivere (nera, siglata a mano con titolo e firma e con l’ aggiunta di un grande adesivo – targa con stampate le indicazioni di Gazzetta Ufficiale – l’abbreviazione Uff. sta anche per “Che noia!” – e nome e indirizzo e numero telefonico dell’autore secondo una correttezza amministrativa e burocratica esemplare); all’interno sono raccolti, ammucchiati, compressi, stipati o accartocciati fogli, progetti, pro-memoria, segni, disegni, appunti, disappunti, cancellature, ritagli, scarti dell’ultimo mese: la custodia-valigia contiene e conserva alla rinfusa tutto, non  è buttato via nulla, fa dell’immondezzaio o di un cestino di rifiuti il raccoglitore fedele della vita mentale del vivente. Direi della vita onirica del vivente (una delle citazioni preferite di Patella recita: «Ciò che uno vede dormendo: è sogno. Ciò che si vede da svegli: è morte») perché il nome Cidrolin, titolo della scultura, rimanda direttamente al protagonista, a uno dei due protagonisti, dei Fiori blu di Queneau: quello che vive in un barcone e trascorre i giorni dormendo per sognare e bevendo in continuazione pernod per dormire («Dormo per sognare» è altra citazione frequente di Patella, tenendo presente, sempre su indicazione dei Fiori blu, il dormire non come un sonnecchiare ma come un mettersi a guardare lontano). I sogni di Cidrolin sono le avventure pazze e furiose in ogni direzione e tempo (la fascetta rossa leggendaria del libro di Queneau ne porta impresse le date 1264-1439-1614-1789- 1964) del Duca D’auge, con anche il legittimo sospetto che possa essere invece lo scatenato e irrequieto Duca D’Auge a sognare, quando si addormenta, Cidrolin e la sua vita sulla chiatta ormeggiata davanti alla Senna (arduo sapere chi sogna chi). Sta di fatto che Patella in Cidrolin (e nel Duca, che, non dimentichiamolo, ha il privilegio nobiliare di neologizzare e di fregiarsi senza pericoli di una scienza semantica che puzza gradevolissimamente di eresia) vede rappresentata alla perfezione la produzione del suo lavoro, a iniziare dalle case che ha abitato, da quella di via Panisperna («un’apparizione», un «Merzbau linguistico», in cui le parole e le cose  venivano di nuovo a coincidere, l’aveva definita Marco Meneguzzo durante una visita), fino all’ultima dimora in via Reggio Emilia: enormi scatole craniche con tutte le imprese, i progetti, i viaggi mentali, gli allagamenti dell’anima e le deiezioni dell’inconscio disseminati, alle pareti, in ogni stanza, fino al bagno. Per Patella l’arte è un oggetto che si può portare ovunque, anche al gabinetto: divenuti concreti sogni e tangibili in tavole e produzione e installazioni e in immagine: fotografare e filmare il proprio dormire e sognare, l’aver per tutta la vita fotografato e filmato e materializzato la propria produzione mentale è forse la migliore indicazione o una delle migliori definizioni che si possa dare dell’operare di Patella. 

Una delle sue immagini poetiche più amate e ricordate (i Muri parlanti e gli Alberi parlanti ne sono un’evocazione) è la scena, che  si trova nel IV libro di Gargantua e Pantagruele, delle parole che divengono cristalli o come fiocchi di neve e che si possono toccare: al confine con il mare Glaciale le parole pronunciate dagli uomini ghiacciano e a primavera si sciolgono mutandosi in suoni  in sé lontani e non più riconducibili alla radice che le ha pronunciate, all’intenzione che le ha dettate, o alle brutture o agli orrori umani (come può essere per esempio quello di una guerra) che le ha prodotte: tutto diviene musica e soave insensatezza.  Parole che si possono toccare, tenere in mano. Parole separate da cose e persone, incomprensibili, associazioni sonore asemiche e inservibili, ma soprattutto inutilizzabili se non per percuotere l’aria e per giocare a tirarle, lanciarle, spezzarle, combinarle e farle rimbalzare (parole rapprese, simili a confetti perlati e multicolori – è detto nel testo – che al tepore delle mani, se raccolte, si sciolgono come neve o scoppiamo come castagne sulla brace): hin, ticche, torsc, lorgn, brefelin, bredelac, frr, bu, tracc trac trr on ouououououon goth magoth, quelle di una battaglia cruenta e dove l’unica igiene della guerra è quella d’essersi ridotta a canto e borbottio. Lo stesso nome Cidrolin nello sciogliersi rivela di quanta ebbrezza (sidro) dispone e la fortuna di indicare una natura idiota e buffa (sì drôle). In Cidrolin, nelle sue sieste, che gli piacciono ancora più dell’andare al cinema, Patella ovviamente misura e comprende anche tutta l’ombra e l’oscurità di tale dimorare pericoloso, il bisogno (avrebbe scritto bi-sogno) espressivo del risveglio. Ricordiamoci che Cidrolin passa i momenti di veglia a cancellare, dipingendoci sopra, scritte e accuse ingiuriosissime («un po’ di graffiti, letteratura, nient’altro», provano a minimizzare gli amici) che lo dicono “assassino”, fatte sulla staccionata da uno sconosciuto, un graffitomane, graffitografo e scarabocchiomane, che solo al termine del racconto scopriamo essere lui stesso, dettate dai suoi sensi di colpa.

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Luca Patella, Cidrolin, scultura, 1980.

Graffitomane, graffitografo e scarabocchiomane: sono anche le più appropriate definizioni che si possono trovare per la scrittura e l’attività scrittoria di Patella, e così il suo dipingere che poi consiste nel pitturare per cancellare il suo insultarsi da solo, le scritte infamanti che si scrive di nascosto da se stesso: è sempre preferibile darci sopra una mano di vernice, insegna Cidrolin: ricoprire le continue ingiurie con una accurata mano di pittura come sapevano fare i grandi maestri. Importante è continuare a dipingere.

Tutta la storia scrittoria di Patella va compresa alla luce di un po’ di giochi di parole e a fare tante parole per non dire niente (cosa fondamentale), e dunque all’essersi consacrato religiosamente alla linguistica. Altra cosa importante: sapere che qualcosa da non fare c’è sempre; si trova sempre il modo di non occuparsi di niente.

Bisogna arrivare alla fine dell’esistenza contando su una sola mano i giorni passati colpevolmente da sobri («Nell’attesa si beva!» ricorda ogni volta ai presenti Cidrolin). La camera oscura del sognatore permette di portare tutto il proprio stupore nella notte: e guardare le stelle non è mai peccato.

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Gioconda con la mosca.

La giovane Lalice, nel racconto di Queneau, insiste fino allo sfinimento con Cidrolin perché non racconti i suoi sogni: non bisogna raccontarli, gli ripete, non è buona educazione, anzi è una sudiceria. Scoprono tutto quel che c’è sotto. E non solo i sogni, ma anche le storie inventate non vanno raccontate, perché sono la stessa cosa, tali e quali ai sogni. Ancora di più: non solo i sogni e le storie inventate ma anche quelle vere non vanno raccontate, niente va raccontato: tutte le storie rivelano la cosa che c’è sotto (sa e te parla al culo – che è pure l’anagramma di Luca e Rosa Patella – è scritto ai piedi di una delle versioni-omaggio di Patella alla Gioconda, Gioconda in fronte del 1985, con una scritta in risposta all’L.H.O.O.Q., Elle a chaud au cul, ella ha caldo al culo, di sotto, ha il calore che sale da sotto, di Duchamp: in Jacques le fataliste di Diderot è ricordato che la Pizia, a Delfi, gonna rimboccata, seduta a culo nudo sul tripode, riceveva la sua ispirazione dal basso all’alto). Qui rintracciamo e tocchiamo con mano uno dei princìpi fondativi di Luca Patella: leggere l’intera realtà, tutto il reale, in maniera proiettiva. Al Duca D’Auge che chiede «Dove credete che siamo arrivati?», «Nelle tenebre» viene risposto, e alla sua precisazione «E cosa vedremo?», «Poco o niente» confermato, a meno di non scendere ancora, e di toccare la cosa (ça, id, es spiega Patella) che c’è sotto.

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Fotografia di Luca Patella, 1973.

«Anche questo l’ho in quel posto» è l’espressione più idiomatica e ricorrente riguardo l’esperienza della vita e il vivere che troviamo in Patella. Rendersi conto che ogni cosa ce la ritroviamo in quel posto, come si desume dai testi di Diderot, Duchamp, Queneau, o, ancor prima, dalle insostituibili disquisizioni escrementizie di Rabelais, ad esempio intorno all’ invenzione da parte di Gargantua dei forbiculi ideali, che annoverano,  dopo i guanti della madre, tra i migliori strumenti per nettarsi il sedere, la valenza di un papero o di oca di copiosa pennutità (mai utilizzare la carta, come sa ogni artista: «chi con la carta il cul deterge, sui coglioni la merda asperge» si è, infatti, avvertiti: da qui l’uso della grafica, e di oggetti trovati e corretti, e le sculture-oggetto e le installazioni). Da questi autori Patella ha imparato a capovolgere le cose, a considerare dell’ingiù l’insù, dell’alto il basso, del di dietro il davanti e viceversa: alletapacul è il suo nome capovolto con finale coprologico e sodomita, e “rifletti in due sensi” è l’indicazione che viene data per stare davanti ad uno specchio a leggerlo e raddrizzarlo in veste di narciso disamorato. «Vedete» – arriva a capire il Duca – «niente è normale».

Nella mostra dei Muri parlanti del 1971 alla Galleria Apollinaire di Milano, l’invito recitava: «Muri parlanti di/per (lo sviluppo di) tutte le cose vere (azioni e trasformazioni umane: scientifiche-(psicologico! - socio- ) e fantastica-mente. Del resto: che altro lavoro ci può essere?».

Contemporaneamente, al Club Nuovo Teatro, si teneva una finta conferenza di Analisi di Psico-vita, con proiezioni di fatti, luoghi e persone, in dissolvenze musicali, e Giorgio Celli, Fernanda Pivano e Pierre Restany come finti conferenzieri: i temi discussi tutti solo apparentemente folli e bizzarri, ad esempio: l’allevamento al potere nel paese di Sgurgola verso il grande centro urbano (aggressività; politicanti intrallazzoni, ecc.); oppure: la presenza del potere in sala tra i partecipanti e gli uditori, il loro assenso al potere e la loro infamia. L’appello era, per chi voleva intervenire, di controllare la formulazione dei dati e intervenire nella dimensione “ironico-seria” del dibattito, facendo in modo che non fosse più possibile distinguere tra pianto e riso.

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Mostra Luca Maria Patella. Animare al complesso di Santa Marta e Esposizione dei “Quaderni dei sogni” alla Biblioteca Arturo Frinzi: inaugurazioni 5 e 6 marzo 2025. In occasione della donazione da parte del collezionista Giuseppe Garrera dei 26 "Quaderni dei sogni" di Luca Maria Patella scritti dal 1982 al 2021, l’Università di Verona, “Contemporanea” e il “Centro studi Tiresia” organizzano una giornata di studi dedicata all’artista il 6 marzo dalle 9.00 alle 18.00 al Polo Santa Marta (Verona).

In copertina, Mare firmato, 1965.

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