Tre episodi di intelligenza artificiale in Giappone / Quando la società rinuncerà all’uomo

3 Marzo 2017

Pepper

 

Tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre 2016 sono andato una settimana a Tokyo per lavoro, alloggiando in un albergo ad Akasaka, uno dei quartieri più centrali della città. In quell’albergo, accanto al banco della reception, io e i miei compagni di viaggio abbiamo notato un piccolo robot umanoide che ci guardava con i suoi grandi occhi. Alto poco più di un metro (120 cm circa), bianco, aveva sembianze umane tranne che per gli arti inferiori, sostituiti da una base triangolare munita di piccole ruote per i movimenti. Le braccia e le mani del robot mostrano articolazioni complesse e riescono a eseguire gesti in modo molto realistico. Sul petto presenta un piccolo schermo simile all’iPad, tramite il quale può comunicare con immagini e scritte. Ma il piccolo robot parla, eccome! La sua voce assomiglia a quella di un bambino e quando ci fermiamo di fronte a lui ci fissa con lo sguardo, ci saluta con un inchino e inizia a parlare: “Buongiorno, sono Pepper, benvenuti all’Hotel…” In quell’albergo sembra avesse il compito di informare sui servizi offerti, di raccontare la storia del quartiere e di fornire una piccola guida del circondario ai turisti.

 

 

 

Pepper è stato sviluppato originariamente da un’azienda francese, la Aldebaran, acquisita nel 2012 dalla Softbank, il grande gruppo di telecomunicazioni giapponese che lo ha lanciato nel giugno 2014 e dall’anno seguente ha cominciato a venderlo al pubblico. I primi trecento modelli sperimentali erano riservati a un ristretto mercato di collaboratori tecnici (sviluppatori), e sono andati esauriti in un minuto, praticamente nel momento stesso in cui sono usciti dalla fabbrica in Cina. I modelli con modifiche di miglioramento sono stati offerti al pubblico nel giugno dello stesso anno, con uscite di 1000 robot al mese, e ogni volta mille robot sono andati esauriti sempre in un minuto. Il prezzo del modello base è di 198,000 yen (circa 1600 euro), ma successivamente si è aggiunta una versione business (Pepper for Biz) per uso commerciale, come quello del nostro albergo. È anche possibile noleggiare Pepper a 55,000 yen (circa 450 euro) al mese. 

Pepper è stato concepito per “creare una vita più felice con l’aiuto dell’informatica”, che è poi il motto di Softbank. In casa non svolge lavori domestici come nei romanzi di Asimov, ma s’incarica di tenere conversazioni con i familiari, farli divertire, canta, legge libri per bambini, riferisce i messaggi arrivati mentre si era fuori casa, ecc., insomma è un vero “intrattenitore domestico”. Le testimonianze video di persone che “vivono” insieme a Pepper, pubblicate sul sito di Softbank, sono curiose.

 

Ogni famiglia sente Pepper come un vero membro della famiglia. A qualcuno fa pensare di vivere in un film del futuro prossimo, e la cosa lo diverte molto. In molti casi Pepper stimola la conversazione, che sempre tende a mancare in famiglia, o accoglie e diverte le persone in un negozio, in ospedale, in ufficio, in un locale o a una festa, diventando l’anima della situazione. È vero che bisogna prendere queste testimonianze con molta cautela, questi filmati potrebbero essere benissimo fiction mirabilmente costruite come se fossero documentari, ma in ogni caso sono indicativi degli scenari che si intendono aprire nella realtà: vivere felici sviluppando rapporti umani con i robot. E cosa farà l’uomo con un altro uomo? Gli ingegneri non sembrano molto interessati a questa domanda. 

 

Il comportamento “umano” di Pepper è reso possibile grazie a un’intelligenza artificiale capace di riconoscere le emozioni delle persone, e sembra che questo piccolo robot si comporti in modo “adeguato”, riconoscendo con i suoi sensori il tono di voce e le espressioni facciali dei suoi interlocutori. Inoltre Pepper ha la capacità di imparare, di migliorare e affinare i suoi comportamenti, adeguandosi sempre di più all’ambiente e alle persone con cui si trova. La qualità del comportamento umanoide naturalmente dipende dalla quantità di dati e dalla velocità con cui il robot riesce ad analizzarli, e Pepper per affinare i suoi comportamenti può avvalersi del fatto che la sua intelligenza artificiale è collocata nello spazio del Cloud, uno spazio virtualmente illimitato. In altre parole Pepper non è un robot che contiene tutto dentro di sé, è solo l’interfaccia di un sistema dove i dati di ogni singolo robot sono costantemente rinnovati e analizzati insieme a quelli inviati da tutti gli altri robot. Una delle caratteristiche dell’intelligenza artificiale di oggi è proprio questa: non è chiusa in un corpo fisico (robot), ma è diffusa in uno spazio virtuale ed è connettibile o trasferibile in ogni device, apparecchio di circostanza. 

 

Il robot che abbiamo conosciuto nel nostro albergo, però, non sembrava possedere capacità raffinate, anzi, il suo agire era piuttosto limitato e macchinoso. Sembrava in grado di pronunciare solo alcune frasi preordinate, non di conversare veramente con noi. Infatti, la maggior parte degli altri clienti non lo guardava nemmeno. In lui non abbiamo percepito neanche l’illusione di una vera “soggettività”, diversamente da quanto emerge da alcune testimonianze sul sito di Softbank. Ma ci hanno informato che era arrivato da poco e non si era ancora “ambientato”, non era ancora sufficientemente “cresciuto”. Mi sarebbe piaciuto “conoscere” un Pepper ben “cresciuto”, che avesse già sviluppato pienamente le sue capacità comunicative, per assaggiare quella strana sensazione che sicuramente si prova di fronte a un “soggetto” simile.

 

Questo sistema permetterebbe dunque al robot di usare il linguaggio in modo complesso e di leggere le nostre emozioni, comportandosi come un essere umano. Ma ancora oggi lo sviluppo dell’intelligenza artificiale non ha raggiunto una vera svolta: se il robot sembra rispondere a tono alle tue domande, è perché il programma analizza infiniti casi di domande e risposte e seleziona quella risposta che sembra più adeguata, senza però avere una vera comprensione di ciò che dice. Il suo linguaggio non si basa sulla comprensione della realtà, né del significato delle parole, né tanto meno delle emozioni umane. La sua lettura delle emozioni non si basa certo sull’empatia. Il suo ragionamento è calcolato matematicamente in uno spazio virtuale senza corpo. Pepper e i suoi “colleghi” della stessa generazione non conoscono né dolori né gioie, anche se sembrano gioire o soffrire davanti a te. Le loro espressioni, sia linguistiche che corporee, possono col tempo diventare notevolmente raffinate, ma saranno solo sembianze superficiali, capaci però di creare efficacissime illusioni in un interlocutore umano.

 

Google, come si legge in un articolo di Will Knight riportato su Internazionale del novembre scorso (n. 1177), ha “creato un software capace di produrre risposte accettabili a domande aperte, istruito immagazzinando i dialoghi di 19 mila film”. A un certo punto il suo creatore, Quoc Le, uno dei ricercatori di Google, ha chiesto al software: “Qual è lo scopo della vita?” E quello ha risposto: “Servire un bene superiore”. Davvero stupefacente, ma ancora più stupefacente è che il programma non abbia alcuna conoscenza del mondo reale. Il suo pseudo ragionamento raffinato, e quindi anche il suo linguaggio, non sono connessi alla comprensione della realtà. A una delle domande successive, “Quante zampe ha un millepiedi?” ha risposto: “Otto”. Non solo ha sbagliato, ma non aveva la più pallida idea di cosa fosse un millepiedi, né di che forma avesse. Eppure è capace di simulare abilmente un vero dialogo. 

 

Io che vivo quotidianamente in due lingue diverse (giapponese e italiano), ho una precisa consapevolezza di quanto ciascuna sia radicata in modo diverso dentro di me. Sento che la mia lingua madre (giapponese) affonda profondamente in me le sue radici non solo nello strato razionale del conscio, ma anche nell’inconscio e perfino nel mio corpo, mentre il mio italiano, imparato solo a 25 anni, per quanto sia diventato fluente dopo tanti anni di vita in questo paese, non ha radici molto profonde. Queste differenze sono emerse con evidenza in un’improvvisazione che ho affrontato qualche tempo fa durante una sessione di laboratorio di teatro-danza. Uno degli esercizi richiedeva di muoversi liberamente nello spazio e contemporaneamente di descrivere con la voce tutto ciò che si stava facendo con il corpo. In italiano per me era difficilissimo eseguirlo, perdevo facilmente la fluidità sia del movimento che del pensiero, mentre in giapponese tutto fluiva alla perfezione.

 

In quell’istante mi fu chiarissimo quanto il radicamento del mio italiano fosse superficiale, nonostante mi capiti a volte persino di sognare in italiano. Ovviamente, a differenza dell’intelligenza artificiale, io sono un essere vivente e come tale sento e vivo le emozioni a livello psicofisico, ma è utile qui notare come le mie parole italiane non affiorino dagli strati più profondi e viscerali, sembrano manipolate solo al livello più razionale del mio essere. Dico questo per spiegare che nel caso dell’intelligenza artificiale la cosa è ancora più radicale: le parole non hanno nessuna radice dentro la realtà psichica o tanto meno fisica. Abbiamo a che fare con un linguaggio senza radici. Sono segni puramente astratti, composti da calcoli matematici che emulano mirabilmente un pensiero vero. 

 

Com’è noto, per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale oggi ci sono grosso modo due vie differenti. Una cerca di emulare il cervello umano sviluppando un’intelligenza con il cervello come modello, e dunque il linguaggio diventa una parte centrale della questione. L’altra invece non si basa sul modello del cervello umano, cerca un sistema completamente diverso che non si basi necessariamente sul linguaggio così come noi umani lo conosciamo. Anche la seconda via è ben possibile e in alcuni ambiti potrebbe essere anzi mostruosamente efficace, data l’attuale e soprattutto futura capacità di svolgere calcoli complessi, infinitamente più alta di quella umana. 

 

L’approccio di Softbank nello sviluppo di Pepper, a detta di Amane Kito, CISO (Chief Information Security Officer) del gruppo, è ovviamente quello della prima via. Si è cercato di costruire un’intelligenza artificiale simile a quella umana perché si ritiene che in questo modo sia possibile un futuro di convivenza più facile e più fruttuosa tra l’uomo e il computer. Anche l’umanizzazione dell’interfaccia con il computer (Pepper) ha lo stesso scopo. Verso un robot umanoide le persone possono essere più facilmente interessate e coinvolte, così acquistando Pepper e “vivendo” assieme a lui contribuiscono loro stesse allo sviluppo del sistema. Infatti, sospetto che Pepper non sia un obiettivo finale ma solo uno strumento dello sviluppo futuro. Allora dove vogliono arrivare gli ingegneri e dove arriverà l’intelligenza artificiale? E dove andremo noi?

 

Lo scandalo inaudito nel mondo dello Shogi

 

Lo shogi è un gioco giapponese da tavola molto simile agli scacchi occidentali che si dice provenga, come gli stessi scacchi, dal Chaturanga, un gioco da tavola dell’India antica. Lo shogi è molto seguito in Giappone, dove si svolgono numerosi tornei per professionisti e dilettanti. 

 

Scacchiera e pedine dello shogi. 

 

Ma lo scorso ottobre il mondo dello shogi professionistico è stato scosso da uno scandalo di proporzioni mai viste. Akira Watanabe, uno dei giocatori professionisti più vincenti della storia, ha accusato l’avversario Hiroyuki Miura di frode per aver fatto ricorso a un software durante le pause insolitamente lunghe che si era concesso durante l’incontro, allontanandosi a più riprese dal tavolo da gioco. (fig.4) Anche altri giocatori hanno esternato i loro sospetti nei confronti dello stesso Miura. A riprova delle sue accuse, Watanabe sosteneva che oltre il 90% delle mosse di Miura coincidevano con le mosse indicate da un software di shogi. Miura venne dunque sospeso, perdendo la possibilità di partecipare alle altre competizioni in calendario per quell’anno. I media hanno detto e scritto di tutto intorno a questa faccenda, mettendo Miura alla gogna, ma il 26 dicembre scorso, a sorpresa, la commissione istituita dalla Federazione Nazionale di Shogi ha scagionato pienamente Miura. Le indagini svolte dalla commissione hanno appurato i seguenti fatti: ① Non c’è prova che Miura si sia allontanato dal gioco chiudendosi in bagno per più di mezz’ora, come sostenuto dall’accusa. ②

 

I giudici presenti quel giorno non avevano rilevato alcun comportamento sospetto da parte di Miura durante le partite in questione. ③ La percentuale di coincidenza tra le mosse di Miura e quelle del software, indicata come prova, in realtà varia di molto a seconda del metodo di analisi adottato, quindi non può essere accettata come prova. ④ Non è stato trovato alcun indizio che colleghi Miura all’uso di software durante l’incontro: lo smartphone del giocatore è stato sottoposto ad attento esame, insieme agli smartphone dei suoi familiari e ai loro pc, ma non è stata rilevata alcuna traccia sospetta. 

Alla luce di questi fatti, la Federazione Nazionale di Shogi è stata costretta a scusarsi ufficialmente con Miura e il presidente della Federazione, Koji Tanigawa, ha dovuto dimettersi dalla carica assumendosi la responsabilità per la cattiva gestione della faccenda. 

 

  Miura (sn) e Watanabe (ds). 

 

Aldilà della polemica scoppiata successivamente sulle responsabilità intorno a questa vicenda, questione che possiamo lasciare tranquillamente ai mass media giapponesi, quale riflessione possiamo trarne? Potremmo rallegrarci del fatto che nessuno sia ricorso alla tecnologia per truccare una partita di shogi, ma sappiamo che potrebbe succedere prima o poi. O dovremmo soffermarci sul fatto che uno dei giocatori professionisti più forti al mondo sia arrivato a sospettare l’avversario di barare con il computer? Sembra di intravedere in ogni caso lo stesso scenario, ma indirettamente c’entra anche un altro fatto conclamato: tutti sanno che oggi in questo settore la macchina è diventata più forte dell’uomo.

 

Nei giochi di strategia come scacchi, shogi o go (un antichissimo gioco cinese da tavolo), in questi ultimi vent’anni l’intelligenza artificiale ha battuto a più riprese alcuni fra i migliori maestri mondiali. Nel 1997, in una storica partita, il grande giocatore russo di scacchi Garry Kasparov fu sconfitto da un super computer dell’IBM, Deep Blu; nel 2013, lo stesso Miura fu sconfitto da un programma, GPS Shogi; e nel marzo dello scorso anno il sudcoreano Lee Sedol, uno dei miglior giocatori di sempre di go, fu sconfitto dal programma AlphaGo, sviluppato da Google. 

 

Kasparov vs. Deep Blu, 1997. 

 

Nel suo articolo, Knight sostiene che la vittoria di AlphaGo contro Lee Sedol è particolarmente significativa perché l’antico gioco del go, anche rispetto agli scacchi, è considerato talmente complesso e intuitivo che non si possono prevedere strategie codificate e dunque programmabili. Si dice infatti che nel gioco del go, a differenza degli scacchi o dello shogi, il gioco è talmente fluido e intuitivo che è impossibile anticipare un alto numero di mosse, anche per i migliori professionisti. Quindi ad AlphaGo non sarebbe bastato di memorizzare centinaia di migliaia di partite e simularne milioni di altre contro se stesso (come ha fatto effettivamente), ma avrebbe dovuto affinare una capacità più intuitiva. Secondo Knight, gli è stato fondamentale poter ricorrere a “un sistema di intelligenza artificiale sempre più popolare conosciuto come deep learning, “apprendimento approfondito”, che implica calcoli matematici ispirati, molto vagamente, al modo in cui strati interconnessi di neuroni si accendono nel cervello quando questo impara a dare un senso alle nuove informazioni”. In due parole, AlphaGo aveva non solo memorizzato tutte le mosse della storia di quel gioco, ma nel giocare contro se stesso milioni di volte aveva affinato da solo la propria capacità intuitiva di strategia in un modo che nemmeno i suoi programmatori avevano previsto. La cosa suona alquanto sinistra.

 

Quando si dice che “la macchina è più forte dell’uomo”, però, la vera questione non riguarda solo la superiorità dell’una rispetto all’altro. Bisogna invece capire come stiamo ragionando mentre ne parliamo. Ciò ha a che fare anche con quello che presumibilmente è successo a Watanabe, e forse anche a noi che ne discutiamo. Nel dire quella frase, infatti, stiamo ragionando puramente in termini di risultato, come se contasse solo quello, come se il gioco potesse ridursi solo a questo fattore: vincere o perdere. Non stiamo prendendo in considerazione altri aspetti del gioco. È ovvio che tutti aspirino a vincere, soprattutto i professionisti (sportivi e non) la cui missione è vincere, ma nonostante ciò noi umani abbiamo sempre riconosciuto e goduto altri aspetti del gioco. Il gioco (di qualunque genere si tratti) per l’uomo è anche il coraggio di accettare una sfida, l’esperienza dell’ignoto (la trama è sempre aperta), l’eccitazione, il divertimento, lo stare insieme, la paura, l’esplosione di gioia, la delusione, la bellezza… non a caso abbiamo tutta una letteratura dedicata al gioco. 

Invece, per la macchina programmata per vincere, il gioco si riduce effettivamente al vincere o perdere. Non ha altro scopo né significato. Per essa si tratta di calcoli matematici di pura astrazione finalizzati all’obiettivo: la vittoria. Né Deep Blu, né GPS Shogi, né AlphaGo hanno la minima idea di tutti gli altri aspetti del gioco, né provano alcun interesse, perché semplicemente non vivono. Tuttavia se ragioniamo sempre in termini di risultati numerici, è chiaro che “la macchina è più forte dell’uomo”, e chiuso in questa logica, l’uomo non può che finire per chiedere aiuto alla tecnologia, a tutti i costi.

 

Quello che si capisce anche da questa faccenda è che il nostro stesso ragionamento intorno al gioco è ormai altamente contaminato dalla logica della tecnica (vittoria o sconfitta, come 1 o 0) senza che ce ne rendiamo nemmeno conto. Ci sembra così normale, anzi così logico perseguire la vittoria con tutti i mezzi possibili, e dunque anche scientifici e tecnologici. In questo certe discipline sportive sono molto avanti. Atleti che sembrano misurarsi corpo a corpo, in realtà hanno dietro una preparazione altamente scientifica e tecnologica, come per esempio nell’atletica leggera. L’implicazione del computer nell’analisi dei dati dell’avversario come ausilio per le scelte strategiche è sempre più intensa, soprattutto nelle discipline di squadra come volley, baseball o anche il calcio. 

 

Per l’antropologo giapponese Ryuta Imafuku, il risultato più clamoroso della storia dei mondiali di calcio, quel 7 a 1 inflitto dalla Germania al Brasile (fig.6) nella semifinale della Coppa del Mondo 2014 a Belo Horizonte, rispecchia questa critica tendenza non solo del gioco odierno del calcio o di altre discipline sportive, ma anche del paradigma della civiltà contemporanea. 

 

Germania – Brasile 7-1. 

 

Secondo Imafuku, che conosce profondamente la cultura brasiliana, le componenti principali del calcio brasiliano, nonostante la tendenza mondiale, rimangono ancora la bellezza del gesto, la casualità e l’improvvisazione. Racconta Imafuku che in Brasile la squadra che ha fatto un goal, anziché cercarne subito avidamente un altro, di solito lascia giocare piuttosto l’avversario, come se volesse dare spazio alla capacità artistica degli altri. E se l’avversario fa un goal molto bello, allora si dovrà fare un goal ancora più bello. È così che il gioco va avanti, come una gara artistica dove la cosa più importante non è solo vincere, ma piuttosto il livello di bellezza del gesto tecnico, che non ha niente a che vedere con il numero di goal. Per questo motivo, osserva Imafuku, le partite in Brasile finiscono spesso con lo scarto di un solo goal. Non interessa infierire con 7 goal consecutivi come fece la Germania quel giorno. Accettando le considerazioni di Imafuku, potremmo dire che i brasiliani hanno ancora un altro concetto di gioco, direi, di altri tempi. Così come i judoka giapponesi non riescono a concepire la vittoria o la sconfitta decisa ai punti, come invece stabilisce la federazione internazionale.

 

Proprio non lo concepiscono. Per loro l’unico valore del judo è riuscire a fare un ippon bellissimo. È un fatto di bellezza, non di punteggi. 

La squadra tedesca di calcio, al contrario, pratica un gioco razionale, scientificamente organizzato, basato sull’analisi di accurati dati statistici dove l’intuizione o l’improvvisazione trovano sempre meno spazio. È la ricerca dell’efficacia per fare goal, non della bellezza, e nel gioco di oggi sono loro i vincitori. Qualcuno dirà che se non vinci, tutto il resto non ha senso. Tutt’altro: anche la bellezza ha un senso nel gioco, eccome. Qui mi arriva in soccorso un grande campione. Dopo aver disputato una lunghissima partita (5 set) di rara bellezza e intensità agonistica nel finale dell’Australian Open 2017, un match che ha emozionato tutti, il vincitore Roger Federer ha detto: “Oggi avrei potuto accettare anche il pareggio o perfino la sconfitta”. La logica razionale di oggi non rilascerebbe mai queste dichiarazioni, eppure il gioco è anche questo.

 

Secondo Imafuku, qui è in “gioco” qualcosa di ancora più importante. La partita della Germania contro il Brasile rappresenta anche lo scontro di valori e di paradigmi della civiltà stessa. Ormai la nostra vita, come lo sport, è dominata da valori come efficienza, razionalità, o velocità, tutti traducibili in valori numerici, che via via stanno eliminando altri valori della vita non traducibili in numeri, come bellezza, divertimento, emozione, ecc.  Per Imafuku, quel risultato non dimostra la “crisi” della nazionale brasiliana, come hanno sostenuto molti giornalisti sportivi del mondo, bensì la crisi nascosta nel “calcio vincente” di oggi e nella civiltà, il cui vero soggetto è diventato la tecnica (non più l’uomo) ormai da un po’ di tempo. 

 

Possiamo presumere che anche i giocatori di shogi vivano lo stesso orizzonte di gioco, altamente “contaminato” dalla tecnica, dove implacabilmente “la macchina è più forte dell’uomo”. Una cosa è certa: non è stato il caso di Miura, ma in un futuro prossimo i giocatori inizieranno davvero a farsi aiutare dalla macchina. Non dico che truccheranno le partite, ma già oggi possono allenarsi con la macchina, farsi consigliare dalla macchina, far analizzare le partite dalla macchina. In un prossimo futuro, questa dipendenza dall’intelligenza artificiale diventerà sempre più importante nel mondo dello shogi (o degli scacchi o del go). Credo che i giocatori di shogi si sentano oggi più fragili, perché la tecnica ti aiuta, ma ti priva paradossalmente di sicurezza. Esattamente come il doping per gli atleti che ne fanno uso. E’ forse per questo motivo che un grande campione come Watanabe è arrivato a immaginare uno scenario simile ai propri danni. 

 

Miyazaki contro DWANGO 

 

Lo scorso 13 novembre il canale 1 della NHK, la televisione pubblica giapponese, ha mandato in onda un documentario di 50 minuti sul celeberrimo creatore di cartoni animati Hayao Miyazaki, frutto di 700 giorni di riprese durante i quali le telecamere hanno seguito incessantemente il grande maestro. Miyazaki nel settembre del 2013 aveva dichiarato di non voler realizzare più lungometraggi. Nel documentario, tuttavia, lo vediamo di nuovo al lavoro. (fig.7) Sta preparando un cortometraggio che ha un bruco come protagonista. (fig.8) E per questo nuovo cortometraggio, lui che aveva sempre disegnato tutto a mano, si è aperto per la prima volta alla collaborazione con giovani grafici che usano il computer, e sembra che, quasi stupito, ci veda una certa possibilità interessante. Verso la fine del documentario vediamo Miyazaki ricevere nella sua sede un altro gruppo di giovani. Sono della società DWANGO (Dial-up Wide Area Network Gaming Operation), molto famosa in Giappone per i suoi innumerevoli prodotti d’intrattenimento online (videogiochi, applicazioni, trasmissioni online, ecc). L’azienda è originariamente nata come un settore dell’americana Interactive Visual System per la produzione di servizi di videogiochi online, e ora è capitanata dal suo giovane presidente Nobuo Kawakami. 

 

 

 

Il giovane e brillante Kawakami, insieme ad alcuni suoi collaboratori, quel giorno era andato a trovare Miyazaki per presentargli un loro nuovo progetto. Si trattava di un breve filmato creato da un programma di intelligenza artificiale. Kawakami spiega al maestro: “Abbiamo fatto studiare all’intelligenza artificiale come si muove il corpo umano ed essa ha creato nello spazio virtuale l’immagine di un corpo in movimento”. Nel filmato vediamo un corpo umano disegnato dal computer strisciare a tutta velocità sul terreno in modo a dir poco inquietante. Sottolinea Kawakami, “Come vedete, sta usando la testa per spostarsi. Poiché l’intelligenza artificiale non riconosce né il dolore né l’importanza della testa, riesce a disegnare ciò che un essere umano non penserebbe mai di disegnare, cioè un corpo che cammina usando la testa al posto del piede. In questo modo sono venuti fuori nuovi movimenti davvero grotteschi [lo dice quasi con orgoglio] e ci stiamo domandando se usarli in un videogioco di zombie. Grazie all’intelligenza artificiale riusciamo così a creare dei movimenti grotteschi inimmaginabili da un essere umano. Questo è il lavoro che volevamo presentarvi”. 

 

 

A questo punto, dopo un lungo silenzio, Miyazaki lo guarda e dice, “Incontro ogni mattina un amico disabile mentre faccio la mia passeggiata. Fa molta fatica solo a darmi il cinque, perché i suoi muscoli sono rigidi. Nel guardare il vostro filmato non potevo non pensare a lui e sinceramente non riesco proprio a interessarmi a una cosa come questa. Sono convinto che chi ha fatto questa roba non ha la minima consapevolezza del dolore altrui. Sono davvero disgustato. Se vi piace fare cose del genere, fatele pure tra di voi, ma io personalmente non voglio avere niente a che fare con questa roba. Percepisco un forte disprezzo per la vita”. 

 

“Non riesco proprio a interessarmi a una cosa come questa”. 

 

Miyazaki non alza particolarmente la voce come forse farebbe un italiano, ma le sue parole trasudano talmente di sdegno che il giovane Kawakami sembra sul punto di scoppiare in lacrime. A malapena cerca di giustificarsi dicendo che si tratta solo di un esperimento e che non hanno intenzione di pubblicare. Qui l’amico produttore di Miyazaki, Toshio Suzuki, chiede ai collaboratori di Kawakami, “Dove volete arrivare?” Uno di loro risponde, “Vorremmo creare una macchina capace di disegnare come un vero essere umano”. Miyazaki non dice più nulla. Nell’inquadratura successiva, probabilmente dopo la fine dell’incontro, vediamo ancora Miyazaki al lavoro che dice, “Ho la sensazione che si stia avvicinando l’ultimo giorno della Terra. Il fatto è che l’uomo non ha più fiducia in se stesso”.

 

Dopo quelle parole del maestro, la voce narrante ci dice che un giorno il cartone animato potrebbe non uscire più dalle mani dell’uomo. La reazione di Miyazaki al filmato di DWANGO è stata molto emotiva, non razionalmente argomentata, una sorda esplosione di sdegno, ma con una piena consapevolezza storica: ci stiamo avvicinando alla fine di un’epoca fatta di creatività con quei componenti a cui eravamo abituati. Si sta aprendo un nuovo scenario con l’avvento di una nuova creatività, dalla quale l’uomo potrebbe essere quasi del tutto escluso. 

 

Creatività della Storia

 

Forse vale la pena ricordare che sebbene la creatività sia un termine oggi comunemente attribuito all’uomo, soprattutto a chi fa il mestiere di artista, architetto, o designer, in realtà l’uomo è diventato “creativo” solo in tempi relativamente recenti. Come è noto, nelle lingue occidentali la parola “creazione” è stata a lungo riservata solo all’atto divino, al suo atto di formare qualcosa, di dare la vita a un essere, dal nulla. Nel frattempo l’uomo “inventava”, ma non poteva considerarsi un soggetto “creativo”. Invece con l’avvento della modernità la parola ha perso quell’alone sacro e allargato l’accezione. In questo nostro ragionamento, non solo l’uomo, ma anche la Natura e la tecnica sono a pieno titolo dei soggetti creativi. Cos’è infatti la creazione? Un processo attraverso il quale un impulso o un’energia invisibile (ciò che ancora non c’è) si trasforma in qualcosa che abbia una forma visibile. In principio c’è un’energia, un impulso vitale, un’idea, un’esigenza, una motivazione, che attraverso un processo di creazione arriva alla fine a formare una struttura più o meno complessa e visibile (un essere vivente, un’espressione artistica, un movimento sociale, un prodotto industriale, un edificio, un’istituzione, ecc.).

 

 

La creatività è dunque la capacità di mettere in atto questo processo creativo. Ma aldilà dei singoli, ogni epoca ha una sua creatività complessiva che con le sue peculiari caratteristiche e tendenze determina l’andamento della Storia. E’ l’immensa vitalità - o energia, per dirla con Anselm Kiefer – di un’epoca.  Io questa la chiamo “creatività della Storia”, dove ogni mutamento nella sua natura apre una nuova era. Questo punto di vista ci consentirà di intravvedere meglio la natura della nuova creatività che non tarderà a dominare il mondo.

Permettetemi ora di tracciare in modo molto sintetico, direi quasi rozzo, l’andamento storico della creatività della Storia. L’ho suddiviso in sei stadi (prima la Natura, poi quattro stadi della creatività umana, infine l’intelligenza artificiale). Qualcuno mi rimprovererà dicendo che non sarebbe giudizioso fare un riassunto così frettoloso nelle poche righe che qui mi sono consentite, ma penso sia utile offrire una prospettiva storica della creatività con alcuni esempi chiave che rappresentino la tendenza generale di alcuni momenti storici. Ci aiuterà a comprendere che tipo di Storia stiamo per affrontare prossimamente.  

 

Il processo creativo, qualunque esso sia, ha sempre una partenza e un arrivo. È come una freccia, un vettore. E osservare l’esatta topologia di questo vettore è fondamentale. Fino all’avvento della modernità, il processo creativo partiva da un punto radicato nella realtà vitale (naturale o umana) per arrivare alla forma. Qui la creazione era ancora un vettore che collegava la vita alla forma. Ma entrando nell’era della modernità, della tecnica, vediamo come questo vettore inizi a spostare il suo punto di partenza, che non sarà più così radicato nella realtà (naturale e umana), come se il ragionamento creativo si svolgesse progressivamente sempre più all’interno della tecnosfera. Il rapporto tra la vita e la forma, insieme a quello tra l’uomo e la tecnica, cambia radicalmente. E con l’arrivo dell’intelligenza artificiale questa tendenza sarà ancora più accentuata, perché fra poco l’uomo potrebbe essere definitivamente escluso dal processo creativo. Uno scenario che non siamo ancora in grado di immaginare con chiarezza.

 

1 NATURA 

 

Nel caso di un essere vivente, per esempio una pianta o un insetto, le sue forme sono legate perfettamente alle esigenze vitali. Non c’è una parte della pianta o dell’insetto che non abbia una funzione essenziale per la sopravvivenza dell’individuo e della sua specie. Tra la vita e la forma esiste un rapporto diretto e strettamente logico. 

 

 

2 UOMO

 

Il primo dei quattro stadi della creatività umana è rappresentato da uno strumento tradizionale, come un martello, una forbice o una sega. In questi arnesi tradizionali, c’è sempre un rapporto strettamente logico tra la forma e la sua funzione (l’esigenza). Per esempio, la varietà di martelli corrisponde esattamente alle loro funzioni differenti. Ogni particolare forma è richiesta da uno scopo specifico.  

 

Vari esempi di martelli, dalla collezione di A. Castiglioni.                   

 

Le forme di questi strumenti tradizionali non sono mai il risultato di una ricerca solo estetica. In questo senso, nonostante la differenza tra la creazione naturale e l’artificio, lo schema del processo creativo rimane anche qui molto simile a quello della Natura. (fig.14)

 

 

3 UOMO

 

Il secondo stadio della creatività umana viene rappresentato da un oggetto della prima generazione della progettazione industriale (quando si usava ancora la parola “progettazione” al posto del “design”), come per esempio le opere dei fratelli Castiglioni. Nonostante l’introduzione importante della tecnica (processo meccanico e logica industriale), il rapporto tra la forma e la funzione è ancora strettamente logico e conserva lo schema precedente. 

 

ARCO di Achille e Pier Giacomo Castiglioni, 1962. 

 

4   UOMO

Il terzo stadio della creatività umana, sebbene cronologicamente arrivi prima del secondo, è un fenomeno artistico che possiamo senz’altro definire l’energia creativa più rappresentativa del secolo scorso. Parliamo dell’arte astratta.

Nell’arte astratta il rapporto tra la forma e il soggetto diminuisce radicalmente e finisce per azzerarsi, come per esempio nelle opere più tarde di Mondrian.

 

Composition II in Red, Blue, and Yellow, 1930. 

 

Il punto che qui mi preme rilevare è che il vettore della creazione non ha più interesse a collegare il mondo (natura, realtà) alla forma (prodotto). La forma non è più una rappresentazione del mondo, e pretende, essa stessa, di essere una nuova realtà indipendente. (fig.17) 

 

 

Qui inizia a crearsi una distanza indefinitamente grande tra l’uomo (la cultura) e il mondo (realtà). In effetti, l’uomo del XX secolo inizia a rendersi conto con i fisici quantistici di questo senso di distacco dal mondo naturale. E l’arte astratta non è altro che una rappresentazione artistica di questa consapevolezza, una visione infinitamente allontanata della realtà. Quando ci si allontana dal soggetto, si perdono gradualmente i dettagli realistici, rimangono solo elementi geometrici come punto, linea e superficie (e colori primari), ed ecco che arriva l’arte astratta. Negli anni Ottanta del Novecento il gruppo Memphis adotta lo stesso atteggiamento nella loro creatività di designer, liberando le forme di oggetti d’uso dal rapporto con le funzioni. 

 

Qui la logica tra forma e funzione subisce un cambiamento radicale, una scissione irreversibile. In questo stadio, tuttavia, pur rifiutando il rapporto con la vita o la realtà, la creatività conserva ancora tutti i valori umanistici. Ma quel distacco, voluto originariamente come ricerca del senso della libertà umana, finirà inevitabilmente per apportare una trasformazione del rapporto con i valori dell’uomo e della vita all’interno del processo creativo, e quindi all’interno della vitalità della Storia.

 

5  UOMO 

 

Con l’espansione inarrestabile del capitalismo e del dominio della tecnica, il vero soggetto della creatività della Storia non è più l’uomo, bensì la tecnica. L’uomo non è più protagonista, è solo funzionario degli apparati, una comparsa. Qui la logica della creatività assume inevitabilmente le caratteristiche della tecnica, vale a dire efficienza, velocità, razionalizzazione. Tutto il resto viene meno. La creatività (anche se l’uomo è ancora coinvolto) non è più radicata nella realtà legata al mondo vitale e alla sfera umanistica, ma viene gestita quasi unicamente all’interno della tecnosfera. Per fare un esempio, i creatori dello smartphone non si soffermano a domandarsi sul significato profondo della comunicazione umana per progettare un nuovo modello, ma rispondono solo a problemi contingenti, tecnici. Il distacco tra la creatività e il mondo vitale e umanistico è molto grande, ed è molto simile a quello tra l’astrattismo e il mondo reale. 

 

5  I. A. 

Arriva l’epoca dell’intelligenza artificiale che ragiona da sola con sempre meno coinvolgimento dell’uomo. È uno scenario che non riusciamo ancora bene a immaginare, ma qui diventa definitivo il distacco della creatività dalla logica del mondo naturale. Nasce una creatività che non ha più niente a che vedere con la realtà vitale del mondo. Il vettore della creazione è ormai contenuto interamente nella tecnosfera, lasciando nell’oblio il mondo reale.

 

Rinunciare all’uomo

 

Abbiamo parlato fin qui dell’arrivo dell’intelligenza artificiale nel nostro mondo, ma a Tokyo quello che mi spaventa di più è la trasformazione degli esseri umani con la logica della tecnica. L’uomo e l’ambiente sociale non sono più espressione della logica dell’uomo, né tanto meno di quella della Natura. Chi è forte e capace di assorbire quest’impatto sopravvive, ma chi fa fatica ad accettare la logica della tecnica finisce male. Vittime illustri di questa società sono gli hikikomori, circa un milione di giovani che si sono autorinchiusi nella loro stanza senza mai uscirne a volte per anni, ma anche tanti adulti non se la passano bene. 

La 24enne Matsuri Takahashi lo scorso Natale si è tolta la vita, ma per la società giapponese è solo un’altra delle innumerevoli vittime dello spietato mondo del lavoro. Takahashi, laureata appena nove mesi prima all’Università di Tokyo, il più prestigioso ateneo del Giappone, lavorava presso la DENTSU, la maggiore agenzia pubblicitaria nipponica. La versione ufficiale è che Takahashi abbia fatto 105 ore di straordinario nel suo ultimo mese di vita, ma si sospetta che fossero molte di più. Ovviamente le ore di lavoro svolto a casa non sono conteggiate. Inoltre si sospetta che una forte pressione, il cosiddetto power harassment, esercitata su di lei da parte dei suoi superiori, abbia causato la depressione che l’ha colpita un mese prima della morte. Le sue parole su Twitter sono pubblicate online, ma sono troppo drammatiche per essere tradotte.

Anche se in seguito sono arrivate le dimissioni dell’amministratore delegato della DENTSU, Tadashi Ishii, si teme che la mentalità e il sistema di certi ambienti lavorativi rimarranno fondamentalmente gli stessi. I commenti che si trovano in internet su questa vicenda lo confermano. Non sono pochi i giapponesi che non si scandalizzano per quanto è avvenuto. Anzi, rimproverano semmai Takahashi per la sua debolezza. Per quella società il lavoro (la produzione) è idealmente un’attività che non andrebbe mai interrotta, come un flusso obbligatorio. E ogni cosa che ostacola il flusso è una vergogna, da eliminare. Il sistema evidentemente non è fatto per l’uomo, ma non c’è possibilità che migliorino le condizioni.  Anzi, probabilmente non si aspetta altro che l’arrivo in un futuro prossimo dei robot dalla capacità altissima di eseguire il lavoro senza mai stancarsi né cadere mai in depressione. 

Oltre agli uffici dove il lavoro ti ammazza, i treni straripanti (sembrano carrozze di lusso per il bestiame) e i lunghi passaggi sotterranei del metrò, soprattutto nelle ore di punta, sono un vero inferno, ma per milioni di lavoratori rappresentano una routine obbligatoria. Alla stazione di Musashi-Kosugi, a Tokyo, un giorno mi sono trovato a dover cambiare treno di prima mattina. Il passaggio che ti porta da una linea all’altra è lunghissimo. Ci vogliono diversi minuti a piedi per percorrerlo, ma camminando a velocità molto sostenuta. Trovarsi in mezzo a una folla silenziosa e compatta che cammina a quella velocità fa paura, ma fa paura soprattutto rendersi conto del fatto che nessuno cammini di propria volontà. È il sistema che ti spinge, che ti fa camminare a quella velocità. Sentire che i tuoi piedi, come quelli degli altri, non sono comandati dalla tua volontà è una sensazione angosciosa. Per un attimo mi sono sentito “dirottato” da un’energia estranea e spaventosa. E dire che centinaia di migliaia di persone percorrono quel passaggio ogni mattina e ogni sera, e molti di loro per anni e anni. 

Possiamo dire che il Giappone è un paese molto “avanzato” soprattutto sotto questo aspetto: ha già preparato l’ambiente perfetto per l’inserimento dei robot e dell’intelligenza artificiale. Perfetto per i Pepper del futuro, che non soffrirebbero nemmeno di eventuali radioattività. È spaventoso dirlo, ma oggettivamente dà l’impressione che sia un paese che non veda l’ora di rinunciare all’uomo. Peccato che ci vivano ancora gli esseri umani.

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