Il caso Expo
Per capire la costellazione di Expo 2015 non c’è nulla di meglio che cominciare dal Padiglione Expo alla Biennale di Architettura di Venezia. Qui, nel trionfo delle promesse, tra foto immense dei nuovi grattacieli, lo skyline di nuovi paesaggi urbani veri o presunti campeggiano cinque tavole richieste a cinque nuovi prestigiosi studi di architettura. E’ stato chiesto loro di disegnare cosa sarà o potrebbe essere il luogo dell’Expo tra 15 anni.
Diciamo che si tratta di una forma di utopia 2.0. Ricorda altre prospezioni in avanti tipiche dell’architettese: come quelle maquettes che Alber Speer costruiva per il suo capo Adolf delle ‘rovine tra mille anni’ degli edifici ancora da costruire del terzo Reich. Sembra che la retorica delle esposizioni universali ami saziarsi di rovine al futuro.
Nel caso dell’Expo milanese la cosa è ancor più paradossale, essendo lo stato attuale dell’impresa già molto franante, fatto ormai palese agli occhi dei più, specialmente dopo gli arresti di maggio.
Ma procediamo con calma e senza pregiudizi.
Le esposizioni nazionali, le olimpiadi, i grandi raduni potrebbero potenzialmente rappresentare – e talvolta lo hanno fatto – delle occasioni per le città di riflettere su se stesse, migliorarsi e rilanciarsi.
Il caso più recente è senza dubbio quello di Barcellona. Una generazione di generosi architetti, esiliati dal franchismo, fa ritorno a Barcellona e la ri-concepisce a partire dall’occasione offerta dalla possibilità di ospitare i giochi Olimpici del 1992. Una città a vocazione gotica, oscura nel suo centro storico, che voltava le spalle al mare e al porto, viene completamente trasformata. Si progettano un lungomare e una spiaggia, una riqualificazione del centro storico e soprattutto un miglioramento minuto degli spazi pubblici, marciapiedi, giardini, fontane, panchine, illuminazione.
La città deve essere anzitutto vivibilità e decoro – si noti bene, non parliamo di decorazione come mero abbellimento strategico che funga da mimetizzazione dei meccanismi di speculazione e mala progettazione – ed il resto verrà dopo. Si interra la strada che separava la città dal mare, si costruiscono parcheggi, si dà spazio al pedone e al flâneur e si concepisce una città che sia il simbolo della piacevolezza quotidiana . Barcellona diventa la capitale dei giovani: inconcepibile fino a dieci anni prima.
Il progetto per l’Expo milanese avrebbe potuto essere un’occasione simile, tantopiù considerato il potenziale di interesse del suo tema, la Nutrizione. Se solo alla base vi fosse stato qualcuno davvero in grado di svilupparlo.
Ma piuttosto che una riqualificazione generale della città – che ne avrebbe veramente bisogno – si è pensato che grattacieli, cubature di cemento verticale, vetrature altisonanti fossero gli ingredienti giusti. Come se la scala cui rapportarsi dovesse essere quella di una Dubai e non di una città italiana.
E ovviamente il tutto si dimostra ben presto impraticabile, il budget deve essere grossolanamente ridimensionato e i tanto agognati – e già dubitosi – grattacieli di City Life rimangono sottoterra. Eppure con molti meno sperperi di denaro si sarebbero potuti rifare i marciapiedi, che a Milano altro non sono che uno strato di puro bitume, riqualificare le strade, l’illuminazione, rivedere il rapporto tra spazi privati e spazi pubblici, quasi inesistente a discapito dei secondi. Milano sembra rappresentare il disastro dell’architettura contemporanea in chiave provinciale.
Quando la Bocconi costruisce la sua nuova sede pensa ad un bunker gigante, lasciando allo spazio pubblico un triangolino di lastre. Perché questo dispregio per la convivenza, perché l’ignoranza del più elementare decoro cittadino?
E’ la vittoria della retorica, delle astrazioni, dei megaprogetti che come nel caso delle Vie d’Acqua, cuore dell’intero progetto di Expo 2015, devono essere precipitosamente ridimensionati – in questo caso si parte dai 331 milioni di euro inizialmente previsti e ben presto divenuti 120, poi 90 ed infine non solo abbandonati, ma letteralmente rattoppati, come dimostra la più recente decisione di re-interrare anche i canali già scavati con un conseguente nuovo aumento della spesa a 160 milioni di euro. Oltre al danno, la beffa.
Della trama di canali promessi resterà dunque solo la Darsena, mentre le tanto decantate Vie d’Acqua non diventeranno altro se non grandi tubazioni che permetteranno all’acqua presente nel sito espositivo centrale di scorrere via.
L’altro tema, quello centrale, che ha scelto di ridurre il discorso sulla nutrizione a quello del cibo buono o del cibo come arte, mostra già le smandrappature. A Germano Celant viene chiesto di pensare ad una mostra su “Cibo ed arte” con un budget di 750mila euro (il curatore della biennale di Venezia ne prende 150 mila e deve lavorare tutto un anno). E tali cifre compaiono in misteriosi excel legati al sito dell’Expo e poi scompaiono in un balletto che fa invidia al bolero di Ravel. Tralasciamo poi i soldi spariti per corruttele varie. Qui quello che conta è la visione. Che è più prosopopea che altro.
Come si fa ad issare la bandiera dell’Italia bio e gusto e non capire che non si tratta di proporre un manifesto, uno spettacolo da circo, ma che è Milano nella sua specificità a dover diventare una città bio e del gusto. E questo obiettivo non lo si raggiunge arricchendo i balconi di in grattacielo di piante ad alto fusto, ma piuttosto con provvedimenti che inducano l’intera popolazione a prendersi cura della città, a partire da soglie, marciapiedi e strade.
E’ un ridisegno della “proprietà” che ci vuole, se si vuole un ripensamento della città come “uso civico”, come bene comune, molto poco nel senso negriano e molto più nel senso delle comunanze che l’Italia ha conosciuto fin quando un rozzo statalismo le ha soppresse. L’Expo ovviamente deve anche mettere in mostra la città e ospitare in essa le vetrine di presenza di altre culture.
A che punto siamo con questo? Se è l’area della Fiera quella più direttamente interessata è anche vero che il cosmopolitismo che dovrebbe caratterizzare un simile evento potrebbe partire dal carattere già internazionale della città con le sue comunità storiche di immigrati, con la presenza latina o araba o del subcontinente indiano. Gli immigrati sono un polo fondamentale del rilancio turistico di una città. Sono proprio gli emigrati dal Bangla Desh che hanno realmente sostenuto sulle loro spalle la trasformazione del centro di Barcellona in luogo per il turismo e per il giovani.
Si può ancora fare qualcosa di buono, con i soldi che rimangono? Forse sì, o forse è troppo tardi. Potremmo sostenere le spese di una rinuncia tardiva ad ospitare l’evento, magari facendo appello all’Unità di Crisi? O possiamo ancora sperare di trarre in definitiva qualcosa, se non proprio di buono, almeno che ci aiuti ad affrontare le problematiche che la cattiva gestione del progetto Expo ha aggiunto alla città di Milano? Il dibattito è aperto.
Quello che sicuramente e soprattutto si potrebbe fare sarebbe finalmente aprire l’Expo alla città, non soltanto in termini di sfruttamento del volontariato per giustificare la disattesa promessa di garantire 20.000 nuovi posti di lavoro (i dati attuali contano 300 contratti a tempo determinato, 195 stagisti cui viene garantito un rimborso spese di 516 euro mensili più buono pasto, e 18.500 volontari reclutati principalmente in scuole e università).
Aprirla piuttosto alle sue risorse vere fatte di popolazione, negozi, commerci, ristorazione, creatività e soprattutto buon vivere, buon passeggiare, buon godersi la città di Milano. Quello che manca nel trambusto del provincialismo degli appalti e delle mazzette è una visione del futuro della convivenza in questa città. Non ci vuole molto, se non la rinuncia alla protervia della logica Grandi Eventi e Grandi Emergenze.
Ormai sono passati trent’anni da quando Baudrillard scrisse un magnifico opuscolo sulla deviazione mentale costituita per Parigi dalla ossessione dei “Grand Travaux”. Sembra che l’Italia sia rimasta tutta Pompiduiana senza nemmeno l’intelligenza che però comunque Pompidou aveva. Permangono invece il fascino dei grandi numeri, il pallottoliere dei grandi architetti ed il vuoto pneumatico delle idee.