La rete: il bene comune privato

16 Giugno 2011

Ovunque, sul web e sui giornali, si sta parlando del peso che la rete ha avuto nel successo di questo referendum. È un tema caldo, che viene fuori dopo anni di riflessioni.

Ne ha parlato spesso anche doppiozero, a proposito del Nord Africa, dell’informazione, della Moratti, delle elezioni e ne ha parlato Marco Belpoliti l'altro ieri in prima pagina sulla Stampa.

Il tema vero, a prescindere dai dati e dalle interpretazioni, è che questa forza è indiscutibile, palese, e ogni giorno più evidente agli occhi dei sistemi di comunicazione paludati.

 

La rete, che siano i blog, i social network o le chat sui telefonini, è il luogo in cui oggi si forma l’opinione pubblica, perché è lì che dimorano le idee, le informazioni e il sapere.

Non è un mezzo, è il luogo a cui abbiamo deciso di affidare tutto questo e lo abbiamo fatto, e lo facciamo ogni giorno, perché è un luogo libero. Davvero, nella prima volta nella storia dell’uomo, un posto veramente e incondizionatamente libero, in cui le decisioni e le scelte avvengono attraverso movimenti orizzontali, anziché verticali, e qualsiasi meccanismo gerarchico salta al cospetto di decisioni collettive.

E il web è libero, a sua volta, per un solo motivo: non c’è, da nessuna parte, lo stato. E vige un unico grande dio: il mercato. Gira e rigira, l’unico motivo per cui il web è libero è questo: non esiste altra regola che non sia la regola di mercato, non esiste nessuna legge che non sia la legge del più forte, e non esiste nessun “forte” che non sia stato voluto dal basso. Ogni giorno noi scegliamo le aziende migliori, i siti migliori, facciamo fallire giganti (Myspace) o arricchire ventenni (Facebook). Portiamo alla ribalta con i nostri like articoli di testate sconosciute (Il Post), e affondiamo colossi decennali dell’informazione (Il Foglio).

 

Lo facciamo con una certa serenità, ogni giorno, facendo virare il mondo della cultura verso un sistema di libero mercato molto spinto, e lo facciamo senza paura.

E paradossalmente, pensateci, questo sistema di informazioni iperliberista e anarcoide è quello che ci ha permesso di lottare contro la privatizzazione dell’acqua pubblica.

Sistemi di comunicazione e di informazione privati come Facebook, piattaforme di blogging (quotate persino in borsa) hanno lasciato la libertà di lottare contro i privati dell’acqua, libertà che invece, in quegli stessi giorni, veniva completamente svilita dai giornali e dalle televisioni pubbliche.

Ma se provassimo, per paura dei privati e del mercato, per paura del profitto, per paure delle imprese, a riproporre una più rasserenante mano pubblica nella grammatica del web (proposta avallata da molti) cosa succederebbe? Se per questo mondo che noi stiamo difendendo e osannando valessero le stesse logiche dell’acqua? Se questo famoso “bene comune” fosse gestito da un potere alto (lo stato) anziché dal comune volere collettivo (il mercato) cosa accadrebbe?

 

Una delle proposte che sento più spesso, internet gratuito e pubblico nelle città significherebbe (oltre che una banda lentissima) consegnare ai sindaci e alle forze dell’ordine dati, password, corrispondenze e informazioni di ogni tipo (per usi politici che non oso immaginare) e lasciargli ovviamente il diritto di censura.

Le email (come già sta senza vergogna succedendo) sarebbero gestite dal ministero, ponendo problemi di riservatezza la cui dimensione è imparagonabile ai sospetti che ci rendono invece iperfiscali con la privacy su Facebook.

I blog sarebbero preda della metafisica legge del panino (governo, opposizione, maggioranza) o dei più agghiaccianti editti bulgari.

Twitter avrebbe privilegiato l’hashtag #spiaggia al #referendum.

Facebook sarebbe il database gratuito di profili per Esselunga, Coop, Medusa, e i meccanismi di distribuzione dei consumi vicini allo stato (come è oggi in Russia). Distribuendo privilegi economici inimmaginabili.

Wikipedia sarebbe probabilmente gestita da rettorati, sovraintendenti, e dipartimenti universitari, con accessi privilegiati alle cattedre, a cui consegnare improbabili prebende.

I magazines sarebbero sovvenzionati dal parlamento (come i giornali) producendo la stessa paccottiglia mediatica partitica dei telegiornali e dei quotidiani.

E in ultimo, Google avrebbe risultati di ricerca scelti. Cercando “notizie” apparirebbe Libero. Cercando “sesso” apparirebbe il papa. E cercando “musica” apparirebbe Apicella.

 

Tutto questo non è una battuta, né un mondo lontano, né l’assurda previsione di un pessimista: è esattamente quello che è oggi il nostro paese, le tv, i telegiornali, i giornali, le università, la cultura, i musei e l’informazione.

Un mostruoso cortocircuito culturale governato dall’alto, a cui siamo assuefatti a tal punto da trovare il web, e la sua piatta superficie democratica, una contestabile stranezza.

Dobbiamo fare lo sforzo di pensare che il meccanismo (crudele, barbaro, folle) con cui oggi il web seleziona partendo dal basso (dai click, dai like, dai link) e con cui è sottoposto alle capitalistiche leggi di mercato è una dimensione naturale, e sana. Che la logica con cui privilegia decisioni collettive rispetto a decisioni dall’alto è stata in questi giorni ed è la nostra unica salvezza. La domanda a cui siamo chiamati a rispondere, l’unico antidoto all’immondizia che soffoca questo paese. È il nostro bene comune privato, da preservare con tutte le nostre forze, tutti insieme.

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