Coltivare la vita / Un teatro con radici piantate nell’esistenza

7 Giugno 2019

Uno spettacolo da pazzi

 

Genova, Teatro delle Tosse, la sera del 16 marzo 2019. Va in scena l’ultima replica di Sintomatologia dell’esistenza, un DSM per medici e poeti. Non ci sono attori famosi nel cast né il regista è di fama internazionale, eppure la sala (capienza 500 posti) è strapiena. A recitare insieme alla protagonista-regista Anna Solaro e ai suoi collaboratori sono circa trenta pazienti psichiatrici, tra i quali solo due sono ex attori professionisti. Loro recitano se stessi, cioè sono i “pazienti” che arrivano uno dopo l’altro per la seduta con la “dottoressa” (Anna Solaro), alla quale parleranno dei loro “sintomi”, che in realtà sono storie molto poetiche. Al termine della seduta, prima di andare via, ciascun paziente fissa l’appuntamento successivo, per tutti invariabilmente mercoledì alle 10.30 (che in realtà è l’orario del laboratorio teatrale). Ogni scena ha qualcosa di sorprendente ed esilarante, è condita di tanti giochi di parole che ci fanno scappare allegre risate. Il pubblico non tarda a capire quanto questi “pazienti” siano più umani delle etichette (“sintomo” o “malattia”) con cui la società e la medicina spesso li identificano, e scoprono che se c’è qualcosa di assurdo è lo stesso sistema che vede queste persone solo come pazienti, se non come malattia. Così, in scena, risate e commozione destrutturano l’immaginario attorno alla psichiatria e ci conducono in “un altro mondo”, dove ogni sintomo fa parte della ricchezza dell’umanità.

 

 

Tutti i materiali che vediamo in scena sono frutto di un anno di laboratorio del Gruppo Stranità, un’esperienza di teatro sociale portata avanti dal Teatro dell’Ortica che, sin dal 1997, in collaborazione con il Centro di Salute Mentale dell’ASL 3 genovese, coinvolge numerosi pazienti psichiatrici. Ovviamente non si tratta di monologhi scritti dagli stessi pazienti. A partire dai loro materiali, le scene sono sapientemente costruite: sul palcoscenico i dialoghi tra la dottoressa e i singoli pazienti si alternano a scene corali che coinvolgono tutti con canti e balli. La qualità artistica è testimoniata dai numerosi applausi che esplodono a scena aperta, ma non è scopo di quest’articolo dire quanto bravi fossero gli attori o quanto belle fossero le scene. Perché qui non si tratta di un singolo spettacolo seppure meraviglioso, la questione va oltre: riguarda un modo di fare il teatro che oggi sta cambiando profondamente l’ontologia del teatro stesso.

 

Teatro sociale

 

Il teatro sociale è una pratica teatrale che, con varie metodologie, si prende cura di persone che vivono in forte disagio sociale, come pazienti psichiatrici, tossicodipendenti, carcerati o abitanti di zone problematiche (per povertà, per calamità, per criminalità, per guerra, ecc.). Funziona dunque come una terapia, una sorta di riabilitazione personale e sociale. In Italia la pratica del teatro sociale è abbastanza diffusa (in Giappone è invece un’assoluta rarità) e da circa vent’anni, forse anche per via del successo di alcuni gruppi teatrali in cui il confine tra teatro artistico e teatro sociale è molto sfumato, l’interesse verso questo tipo di teatro è decisamente cresciuto, tanto è vero che sempre più registi, anche molto competenti, si impegnano in questo campo. Soprattutto nell’ambito del teatro in carcere, alla ormai celeberrima Compagnia della Fortezza di Volterra si sono aggiunti negli ultimi anni numerosi gruppi di grande qualità, sostenuti nel vostro Paese addirittura da un Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, molto attivo, che tra le altre cose organizza ogni anno il suo festival Destini incrociati. Inoltre, grazie al film dei Fratelli Taviani Cesare deve morire (2012), anche il grande pubblico ha finalmente cominciato a conoscere questo genere di teatro e la sua qualità, non solo umana ma anche artistica di grande rilievo. 

Oltre alla pratica, anche gli studi sul tema sono stati qui in Italia ben coltivati. Alcuni atenei italiani offrono dei corsi di studio dedicati al teatro sociale, nelle librerie si trovano numerosi volumi dedicati al tema, esistono riviste specializzate… Insomma, non si può negare che in Italia i critici, gli studiosi e anche i giornalisti si siano fin qui adoperati non poco sull’argomento. Eppure molti addetti ai lavori lamentano ancora oggi una forte solitudine, continuano a sentirsi trascurati, considerati un po’ come un teatro di serie B. E forse qualche ragione ce l’hanno, perché queste compagnie come le altre hanno un forte bisogno quotidiano del confronto. Vanno dunque seguite, incoraggiate, consigliate, se necessario anche criticate, ma non bisogna lasciarle sole, perché è proprio in questo laboratorio che secondo me si sta giocando il futuro del teatro. 

 

I Gentili coltivatori della vita e il restauro della creatività della Storia

 

L’attenzione verso le tematiche sociali rilevata nel mondo del teatro corrisponde in realtà a una tendenza osservata anche in molti altri campi professionali sin dalla fine del XX secolo. Da allora ci accorgiamo sempre più della presenza di nuove figure professionali che prima non esistevano, o per lo meno non apparivano. Allo stesso modo, alcune figure professionali tradizionali, come architetto, coreografo, editore, pedagogo, ma anche giardiniere o contadino, assumono oggi un ruolo un po’ diverso da quello cui eravamo abituati in passato. Quando, diversi anni fa, ho iniziato a studiare queste figure professionali sotto il comune denominatore dei Gentili coltivatori della vita, mi sono subito accorto che si assomigliavano tutte nonostante la diversità dei loro campi d’azione. Avevano curiosamente molti punti in comune: nell’atteggiamento, nella visione del mondo, persino nei loro metodi lavorativi. Inoltre, tutte lavoravano prevalentemente per sostenere i valori ecologici, i principi democratici e l’espressione artistica. 

 

Successivamente, grazie al libro Tre ecologie di Félix Guattari, ho compreso che questi tre campi (ecologia, democrazia, poesia) non sono altro che tre diverse dimensioni dell’ecologia. L’ecologia in senso stretto, ecologia tout court, è l’ecologia applicata all’ambiente naturale. La democrazia è invece l’ecologia applicata all’ambiente sociale, mentre la poesia (l’arte) è, al pari della psicoterapia o della filosofia, l’ecologia applicata all’ambiente mentale. Quindi era naturale che trovassi tanti punti in comune tra figure anche molto diverse: tutte ponevano la vita e la persona al centro, realizzando l’ecologia sulle sue diverse dimensioni socio-culturali. Alla base di tutti quei lavori apparentemente così distanti c’è dunque la filosofia dell’ecologia, o meglio, la tendenza a imparare dalla Natura come comportarsi.

 

Ma, soprattutto, ad accomunare quelle figure professionali era la volontà di contribuire (spesso inconsapevolmente) al “restauro” della creatività della Storia, oggi fortemente in crisi. La Storia è come un’enorme energia, se non una creatività collettiva dell’intero pianeta, e i suoi tre componenti principali sono la Natura, l’Uomo (mente e corpo) e la Tecnica. Diciamo che la Storia si svolge come un rondò danzato da questo trio. Tuttavia, dopo la rivoluzione industriale, la Tecnica è cresciuta smisuratamente nei confronti degli altri due componenti; di conseguenza la Natura è ora sfruttata senza limiti, e la mente e il corpo dell’uomo sono subdolamente addestrati e schiavizzati dalla logica della Tecnica. Ecco perché l’equilibrio è oggi così seriamente compromesso. Ed è proprio questo rondò così mal danzato a essere la principale causa di tutte le crisi ambientali, sociali e anche mentali che ci affliggono. A questo punto è chiaro che la missione più importante che abbiamo di fronte è proprio il restauro di quella creatività così poco armoniosa, ma il mondo purtroppo non sembra ancora ragionare in questa direzione. 

 

Albero della creatività

 

Si può raccontare tutto questo anche con un’immagine. Sia la creatività di ogni attività umana che quella di una civiltà intera sono rappresentabili con il disegno di un albero, che chiamo albero della creatività. In questo schema il suolo rappresenta la Natura, le radici e la parte inferiore del tronco rappresentano l’Uomo (corpo e mente) e le ampie fronde sono la Tecnica, con i gruppi di rami che raffigurano i vari campi professionali. 

   

 

In quest’albero scorrono in due direzioni (su e giù), come la linfa, energie e materiali. Il vettore ascensionale è quello del progresso, la spinta ad andare avanti, a produrre; il vettore discendente è quello della regressione (o riflessione), il bisogno di tornare indietro, o meglio, di scendere verso le radici. Se il primo è l’acceleratore della Storia, il secondo ne è il freno, anche in senso positivo. Da questo schema arboreo possiamo dedurre che la creatività della Storia agisca sempre come sintesi di questi due vettori. Tuttavia, nell’era moderna, soprattutto dopo la rivoluzione industriale, sono stati rafforzati esclusivamente e senza limiti i vettori ascensionali. Come conseguenza, dell’albero sono cresciute solo le fronde, sulle punte delle quali si concentrano tutte le professioni più specializzate e più qualificate. È facile vedere però che questi apici di eccellenza si trovano ben lontani dalle radici e dal suolo, mai sufficientemente alimentati dalla Storia. Quest’albero, con la testa enormemente cresciuta e le radici quasi atrofizzate, rischia un imminente e clamoroso crollo, ed è una rappresentazione visiva purtroppo assai realistica della crisi odierna.

 

 

 

Il disegno così deforme dimostra che siamo troppo ed esclusivamente interessati alla punta dei rami (professioni specializzate) se non al frutto, il prodotto finale, dimenticando il resto dell’albero. Non è un caso che il Design nel corso dei decenni abbia cambiato così drasticamente la sua natura, spostando l’attenzione sul make up finale dell’oggetto. Per sostenere la salute della civiltà, invece, bisogna piuttosto rivalutare l’importanza e la coerenza dell’intero processo produttivo. Da qui, l’invito per tutti i professionisti a scendere dalla punta del proprio ramo verso le radici per recuperare la consapevolezza e il controllo della sostenibilità dell’intero processo creativo, esattamente come bisogna chiedere oggi la provenienza e indagare sul processo produttivo di ciascun ingrediente di un piatto. Un master chef giudicherebbe esclusivamente il sapore e la presentazione, che sono, alla pari del design esteriore, solo l’esito finale del processo. Ma lo slowfood ci chiederebbe di considerare anche la provenienza di ogni singolo ingrediente, la qualità del suo processo produttivo e il suo valore ecologico. I teatranti-gentili coltivatori della vita considerano il teatro nel medesimo modo. Anche il lavoro teatrale non dovrebbe più essere giudicato unicamente per il risultato estetico della rappresentazione, tempo e luogo tradizionale del teatro. O meglio, l’esito artistico sul palcoscenico è sempre fondamentale, ma andrebbe allargato lo sguardo includendo nel giudizio anche la considerazione di tutti gli altri aspetti (sociali, etici, storici, medicali, psicologici, ecc.) del processo creativo, la sostenibilità dell’intera genesi di uno spettacolo. Dovremmo imparare ad apprezzare anche la bellezza di un processo giusto e corretto. Perché solo con queste attenzioni integrali l’operato potrà contribuire al recupero della salute della creatività della nostra civiltà. 

 

Un teatro con radici piantate nelle persone reali

 

E dove sarebbero le vere radici del teatro o della recitazione? Nel testo? Nello stile? Certamente no. Sono nell’esistenza delle persone reali, che siano attori o spettatori, ma qui vogliamo parlare soprattutto degli interpreti. E quando poniamo al centro l’esistenza personale di chi va in scena, è inevitabile che cambi il modo di fare il teatro, anche radicalmente. Questa, secondo me, sarà la vera frontiera del teatro del XXI secolo.

 

Nel XX secolo, la corrente principale della creazione teatrale si basava sul testo e la recitazione era l’atto di dar vita ai personaggi precedentemente descritti nel copione attraverso la mimesi. Non ci si era allontanati di molto da ciò che auspicava Diderot più di due secoli fa: gli attori erano chiamati a realizzare fisicamente un’imitazione credibile per avvicinarsi il più possibile ai personaggi. Con Diderot, il concetto di recitazione si è visto dividere tra la “forma” e il “contenuto” o, come dice Peter Brook, tra la forma e la vita. Fondamentalmente il teatro del secolo scorso ha lavorato molto sulla ricerca delle forme, cercando di far trasparire la vita attraverso di esse. Solo che quando si è troppo concentrati sulle forme, esse opprimono la vita. Esattamente quanto è accaduto nelle forme tradizionali giapponesi come il teatro o il Kyogen, o nel balletto classico occidentale. Quando la quota della tecnica prevale troppo sulla vita, la persona dell’interprete è oppressa e si verifica una profonda scissione tra l’identità performativa e quella personale dell’interprete. È come se la forma teatrale stessa soffrisse di schizofrenia. 

 

Al contrario, la pratica del teatro sociale tende ad attingere materiali direttamente dalla vita degli stessi interpreti piuttosto che scegliere opere esistenti e poi cercare di adattare gli attori ai loro personaggi. Perché lo scopo primario del teatro sociale è di far stare bene le persone, e le persone che vivono situazioni critiche hanno bisogno per guarire di parlare, di raccontare le proprie storie. Il teatro può allora diventare un vero strumento di guarigione. Spesso gli interpreti diventano fonti di materiali dello spettacolo, in questo modo l’identità performativa dell’attore è strettamente connessa a quella personale. Qui la forma è sempre alimentata dalla vita, con le radici profondamente piantate in essa. 

 

     

A questo punto, però, è chiaro che i registi o i conduttori del laboratorio di teatro sociale debbono avere alcuni requisiti particolari: oltre a essere tecnicamente bravi, devono saper essere molto attenti, accoglienti e protettivi nei confronti delle persone, che sono spesso soggetti molto fragili. Il lavoro dev’essere sempre riadattato su misura dei partecipanti. Le stesse discipline sceniche (ritmo, precisione, energia, ecc.) sono sempre di grande aiuto, ma vanno adoperate con grande attenzione. In un certo senso, i registi-conduttori devono essere un po’ le “mamme” della situazione. E per aiutare i partecipanti a far nascere le loro storie, bisogna essere anche brave “ostetriche di storie”. Insomma, qui servono una qualità e una creatività al femminile, e difatti sono molte le registe donne impegnate in questo settore. E non è un caso che i gentili coltivatori della vita in generale siano portatori di questo tipo di creatività.

 

Per fare teatro sociale è necessario possedere anche buone qualità da drammaturgo. Perché per fare in modo che lo spettacolo nasca dai partecipanti, i testi esistenti non sempre sono adatti e allora bisogna saper creare un nuovo contenitore narrativo che contenga efficacemente il materiale umano raccolto. Molti registi del settore che ho conosciuto possiedono infatti anche questa capacità. Qui il laboratorio, la scrittura e la messa in scena sono fasi distinte ma anche molto organicamente connesse, condotte dalla stessa persona, il regista-conduttore-drammaturgo, che coltiva pazientemente tutto il processo come un bravo giardiniere: raccoglie i semi da ogni persona, li fa germogliare nel laboratorio, li fa crescere in una drammaturgia che poi fa fiorire nella messa in scena. 

 


Funzioni recuperate del teatro 

 

In un laboratorio teatrale come quello che ha prodotto Sintomatologia dell’esistenza, la creazione teatrale e la cura del paziente sono inscindibili. Le prove non sono solo momenti di esercizio per imparare bene la parte, ma hanno valore anche terapeutico. E difatti, dopo circa un anno di attività teatrale continua, sembra che molti attori-pazienti di Sintomatologia dell’esistenza abbiano fatto progressi del tutto insperati persino per gli stessi medici curanti. 

 

Cosa significa questo? Significa che il Gruppo Stranità ha recuperato una parte delle funzioni originali del teatro che erano andate sensibilmente perdute con l’avvento dell’era moderna, da quando cioè il teatro ha scelto di diventare “arte”. Originariamente il teatro era anche in grado di dialogare con il sacro o con la Natura e aveva persino la capacità di guarire. Oggi alcune di quelle funzioni non vengono nemmeno più riconosciute come teatro, ma una volta erano tutt’uno con l’arte teatrale. Anche alcuni autori della tragedia greca erano vicini alla figura del medico ippocratico. Abbiamo saputo di queste caratteristiche antiche del teatro da qualche libro di antropologia che ci racconta del passato, ma difficilmente incontrate nell’ambito del teatro contemporaneo. Oggi, tuttavia, alcune pratiche del teatro sociale, come l’esperienza del Gruppo Stranità, con le radici saldamente piantate nella vita delle persone reali, stanno recuperando una parte di quelle funzioni da tempo dimenticate. 

Attenzione però, perché questo non riguarda solo il teatro sociale ma è una tendenza condivisa anche da altri gentili coltivatori della vita. Pensate a Patch Adams e agli ormai innumerevoli clown doctor nel mondo. Molti buffoni e sciamani dell’era pre-moderna erano medici e comici allo stesso tempo, ma quelle figure miste non erano più compatibili con l’era della ragione e della scienza. Si erano per secoli rifugiate esclusivamente nel mondo della finzione (teatro, letteratura, circo e cinema), eppure in questi ultimi anni sono tornate con grande energia al mondo reale in ospedali e reparti oncologici, orfanotrofi, campi profughi, zone di guerra. Non inseguono chimere di guarigioni impossibili ma ci riportano alla qualità di ogni singolo giorno di vita. È un cambiamento storico (di regressione) sorprendente e davvero degno di nota.

 

Catarsi

 

Quando il teatro recupera le sue radici, tornano anche le esperienze catartiche, come testimoniano le reazioni del pubblico del Teatro delle Tosse a fine spettacolo. Quella sera ho assistito a una vera catarsi. Eppure, la catarsi è ormai un’esperienza quasi scomparsa dai teatri odierni. Non ci pensiamo mai, ma la catarsi sarebbe un giusto criterio per capire se un lavoro teatrale ha toccato veramente l’inconscio non solo dell’individuo, ma della collettività che vive in una società in un determinato momento storico. Quando il teatro ha radici piantate nella vita delle persone reali (sia sul palcoscenico che nel pubblico), la catarsi arriva anche da opere inaspettate: è questo il caso di Aspettando Godot di Samuel Beckett, da sempre considerato il capolavoro del teatro dell’assurdo, dunque decisamente roba da intellettuali. Eppure l’opera più famosa di Beckett ha sempre suscitato fortissime catarsi quando rappresentata nelle prigioni. I carcerati paradossalmente furono i primi a comprendere quell’opera già negli anni Cinquanta, e tra l’altro senza alcuna difficoltà. Sentivano che Godot parlava proprio di loro, della loro condizione di prigionieri. Perché “l’attesa”, il tema dell’opera, è uno stato di passività per antonomasia: quando aspetti qualcuno o qualcosa, in realtà ti stanno facendo aspettare, sei in balìa di decisioni altrui. È una privazione di possibilità soggettiva. E la vita di ogni giorno dei detenuti è scandita dall’attesa: per i pasti, per i colloqui, per l’ora d’aria, per l’uscita definitiva quando c’è. Non è difficile immaginare perché quegli uomini vissero una forte catarsi di fronte a Godot.

Esperienze catartiche simili si sono ripetute ancora dopo la morte di Beckett dagli anni Novanta in poi, quando Godot fu messo in scena in situazioni di disagio estremo, come nel 1993 a Sarajevo nella città ancora assediata dai cecchini serbi, o nel 2007 a New Orleans dopo il disastro lasciato dall’uragano Katrina. Anche in quelle situazioni, non solo lo spettacolo risultava perfettamente comprensibile come in carcere, ma funzionava come una potente terapia rivolta alle persone che sopravvivevano tra le macerie della Storia, esattamente come una vera pratica di teatro sociale, suscitando puntualmente una fortissima catarsi. 

 

Personalmente ho avuto la fortuna in questi ultimi anni di assistere ad alcune esperienze catartiche, quasi sempre con spettacoli di cosiddetto teatro sociale. Significa che questo modo di fare il teatro, se fatto bene, con le radici ben piantate nella vita delle persone reali, è davvero capace di toccare l’inconscio collettivo, l’inconscio della Storia. E sta cercando di guarire la sua creatività gravemente in crisi, esattamente come tenta di fare con i pazienti psichiatrici. 

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