Alla moda non si comanda

27 Giugno 2024

Le mode vanno e vengono: sono «un’opera diabolica, congegnata da manager interessati a vendere alla gente prodotti del tutto inutili», un fenomeno che guizza via come un fuoco fatuo, luccicante, ambiguo, pieno di dissimulazione. Per non parlare della sua maledetta “dimensione industriale”, assoggettata agli interessi finanziari, che di volta in volta impone immagini iconiche e tendenze dell’ultima ora servendosi degli idoli del momento: ci sono cose più urgenti e necessarie per la vita, più utili, più proficue «di quanto non lo sia l’abito conforme ai dettami della moda, che difficilmente può essere indossato per un’estate intera».

Di fronte a tutto questo moralismo noi avvertiamo un bisbiglio che sussurra dalle pagine di questo libro: evitiamo – vi prego – evitiamo di cadere in rimostranze infondate e sconsiderate. È la voce di Eugen Fink. Si rivolge direttamente a noi: non ricorriamo alle solite categorie. Guardateli, sembra di vederli quegli ingenui, sicuri di sé, che hanno diviso la natura distinguendo tra cose utili e inutili, dividendo il mondo in erbe ed erbacce. «Ma chi – scrive Fink – ha l’autorità necessaria a decidere ciò di cui l’essere umano ha bisogno» (E. Fink, Moda. Un gioco seduttivo, a cura di G. Matteucci, Einaudi, Torino 2024, p. 85).

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Ripartiamo, per così dire, “da zero”, dall’inizio epocale, mitico, della foglia di fico nel paradiso terrestre. Come non vedere già in quel racconto il gioco seduttivo dell’abito, la sua funzione assoluta: mostrare e nascondere allo stesso tempo. Diciamo di più: «la moda esagera e nasconde, esagera nascondendo e nasconde mettendo in evidenza, vistosamente, rivela coprendo, cela mentre accentua quel che è nascosto» (ivi, p. 41).

L’abito è un linguaggio, è un sintomo culturale: è il rifiuto non tanto della nudità, quanto dell’immediatezza, della cosiddetta “naturalità”. «L’animo umano è un labirinto di impulsi, di desideri luminosi e oscuri, che stanno in agguato e attendono gli stimoli capaci di scatenarli» (ivi, pp. 50-51): un groviglio inestricabile di pulsioni, moti di attrazione, desideri e avversioni, scintille dell’interesse che spesso rimangono sotto la soglia della coscienza, da cui si genera una fitta rete di simpatie e antipatie. Simili impulsi si manifestano nel corpo vivente tramite espressioni, gesti e movenze già cariche di un’intrinseca doppiezza: pensiamo a un sorriso di circostanza, all’arrossarsi delle guance per la vergogna, o al bacio con cui viene tradito il Figlio dell’Uomo.  La rielaborazione e l’affinamento di questo immane campo di tensioni prende il nome di cultura. L’abito è un fattore di attrazione capace di spezzare l’immediatezza dell’impulso, di trattenerlo, di sublimarlo: ne traduce l’immediato valore espressivo in un linguaggio simbolico, quasi criptato. «L’abito interrompe la diretta immediatezza dell’impulso e ne inverte la direzione, facendolo tornare in se stesso. L’abito permette di mediare i desideri, li rende più duraturi e spiritualizza la nostra sensibilità» (ivi, p. 43).

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In tal senso l’abito è un linguaggio e «la moda plasma questa terra di mezzo, un terreno di mediazione delle relazioni di attrazione tra esseri umani» (ivi, p. 58). Lo svelamento che vela rafforza un impulso proprio mediante il suo mascheramento: un animato scambio di contraddizioni che nella sua dialettica genera una “trasfigurazione della carne”, sicché l’abito si presenta quasi come un secondo corpo vivente.

La moda dunque «dà forma e profondità agli stimoli» (ivi, p. 60): come modulazione e sovrapposizione mutevole rispetto alla mera “utilità” dell’abito «la moda è mezzo espressivo che dà forma al campo di attrazione tra esseri umani» (ivi, p. 64). Trapela potentissima in queste righe l’incidenza di Simmel, uno dei capostipiti – assieme al Carlyle di Sartor resartus – della riflessione sociologica sulla moda: la vita si presenta sempre e solo “in forma di forme”. Nella moda possiamo toccare con mano l’incompiutezza e il permanente stato di tensione in cui versa quell’animale non stabilizzato che per semplicità chiamiamo uomo: sempre alla ricerca di una forma, di una figura, «gli è stato “assegnato” il compito di auto-forgiarsi» (ivi, p. 12). In tal senso la moda procura una sfera di mediazione, anzi «un intero ambito di senso in cui è in gioco l’attrattiva e la seduzione, ma dove le forze elementari delle pulsioni animali sono moderate e temperate» (ivi, p. 57).

Sotto questo profilo l’alternativa utile-inutile si rivela del tutto inservibile. Paragoniamo l’abito a una casa: sarebbe riduttivo derubricarla a un semplice manufatto, rispettoso delle leggi della statica, che impiega i “giusti” materiali per proteggere dalle intemperie. Come suggerisce Fink, la casa si affaccia poi sull’esterno, interagendo con lo spazio circostante: dialoga col territorio, s’inserisce in un paesaggio, si colloca entro una struttura urbanistica. Nel rispetto di alcune norme edilizie, la disposizione dei volumi porrà in risalto una concezione architettonica peculiare: le convenzioni e i vincoli tipici di un certo contesto storico e geografico, e persino di una precisa tradizione nazionale, alimentano in realtà quello “stile” su cui può sempre innestarsi un’autonoma libertà espressiva – quasi lo spicco di un gusto personale sullo sfondo di usi e consuetudini consolidatisi nel tempo.

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Anche alla luce di una simile analogia, immaginiamo la moda come «un campo di segni in parte palesi, in parte nascosti, che si rivolge a rappresentazioni archetipiche primordiali, sepolte nelle profondità inconsce dell’anima, mettendo in contatto l’uomo contemporaneo con quello dell’età della pietra» (ivi, p. 57). Anzi, si potrebbe dire che «il “consumatore ideale” di moda è continuamente alimentato da una dieta di segni e di simboli che non è tenuto a comprendere nella sua totalità» (ivi, p. 40). Tramite l’ambiguità dei suoi simboli, certe forze elementari e certi istinti atavici, sopiti e sepolti negli abissi del tempo, vengono riformulati e configurati sempre di nuovo: evocati, sollecitati e riaccesi all’improvviso, al punto tale che nel vasto “campo della moda” si potrebbe ravvisare «una mappa dell’intera storia culturale dell’essere umano, la documentazione di una sublimazione dei suoi impulsi» (ivi, p. 57).

La moda si configura come una sorta di «pratica “ostetrica” per riuscire a dar voce, per mezzo dell’abito, alle nostre pulsioni più oscure e sommese» (ivi, p. 82). Quasi rievocando un profilo socratico Fink arriva a chiedersi se il compito della moda non sia assimilabile addirittura «a un tipo di educazione che porta gli studenti a conoscere se stessi» (ivi, p. 83). Nell’abito finiscono per rispecchiarsi i nostri desideri più profondi e impetuosi, persino quelli più occulti e ferini: tuttavia attraverso la mediazione procurata dal taglio, da certe fogge, dalle fatture più ingegnose e fantasiose la natura selvaggia viene portata a espressione e dunque rimodulata all’insegna della cultura più raffinata.

Mediante l’analogia con la casa abbiamo già accennato al paradosso dello stile: se l’abito è «il contesto incessantemente cangiante in cui il corpo vivente si esprime» (ivi, p. 38), l’orizzonte della moda parrebbe limitarsi all’effimero, all’irrequietezza vorticosa testimoniata dalle sue incessanti trasformazioni, all’evanescenza della novità che si consumano nell’istante. Se invece guardassimo a questa perenne metamorfosi come “sapienza della caducità” che all’immobilità della roccia preferisce una danza col tempo, allora potremmo scorgere «la moda con i suoi sottilissimi oggetti color arcobaleno, che danzano come schiuma scintillante sulle onde pesanti e oscure della corrente della nostra vita» (ivi, p. 76). All’interno di questo immane “gioco di società”, «il teatro della moda mette in scena i propri spettacoli, ha le sue serie di grido e a volte anche i suoi insuccessi» (ivi, p. 75): organizzando il tempo libero delle masse, l’industria della moda conquista – agli occhi di Fink – «un substrato quasi “eterno”» (ivi, p. 80), potendo vantare una stabilità paragonabile a quella delle strutture sociali più solide e durature.

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Ci troviamo immersi all’interno di uno sterminato campo magnetico dove tutte le cose sono insieme forze e prodotti, una “nuvola” di attrazioni reciproche: «un incalcolabile numero di modi in cui siamo continuamente richiamati, colpiti, preoccupati, disturbati» (ivi, p. 52), soggetti a continue mutazioni, dovute alla molteplicità dei fattori da cui siamo attraversati e a cui siamo interessati. Si tratta di un fenomeno incredibilmente stratificato e complesso: «Le relazioni tra la categoria degli acquirenti e quella dei produttori, nel campo della moda, non è assolutamente una manipolazione, né, tantomeno, una costrizione o una “dittatura” dove gli uni possono “scegliere” solo ciò che gli altri prescrivono» (ivi, p. 34). Fink rifiuta ogni parallelismo col gergo politico: nessun diktat, non ci sono governanti e dittatori, né certamente una tendenza potrà essere imposta da qualche potere occulto che agisce dietro le quinte. «Per fungere da guida, l’industria della moda, non dovrà sembrare invadente» (ivi, p. 81). Guidare, a questo livello, è un processo che si sforza di tenere insieme gli elementi controllabili e anche quelli che non lo sono: le aspirazioni personali, le tendenze collettive, il gioco creativo dell’immaginazione, passando dalle inclinazioni più intime di ciascuno, fino alla spontaneità dell’inconscio.

In un simile contesto, lo stilista dovrà mantenere il proprio occhio allenato a «decifrare le “atmosfere” della società, munirsi di un’“antenna” in grado di captare le continue “trasmissioni” della rete di stimoli sociali» (ivi, p. 53). Costui progetta e produce per la società sdoppiandosi, per così dire, tra la sfera del fascino e quella degli stimoli, tra prodotto di consumo e processo di produzione: «L’industria della moda è in grado di guidare, ovvero di prendere l’iniziativa e plasmare il proprio mercato, sviluppando sperimentalmente le possibilità simboliche dell’abbigliamento umano» (ivi, p. 89).

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Il cliente deve (per lo meno sentire di) essere il re: nessuno può comandarlo o costringerlo direttamente. Certamente la moda mette in atto tutte le proprie strategie e diavolerie per esercitare il proprio fascino seduttivo, colpendo l’immaginazione, penetrando sotto la soglia della consapevolezza. Fink parla esplicitamente della strategia del cavallo di Troia e persino della promozione pubblicitaria come preparazione del terreno al lancio del Blitzkrieg, ma il pubblico viene indotto a fare una scelta che dovrà essere vissuta come esito del proprio “libero arbitrio”, o per lo meno del libero consenso al nuovo ideale.

In tal senso «coloro che guidano non sono forse gli amministratori di una tendenza di vita più ampia e più vasta?» (ivi, p. 83). Se da un lato le “roccaforti del fashion” non possono dirsi estranee agli interessi industriali, dall’altro risulta riduttivo appiattire tutto sulla logica della merce: fattori culturali, impulsi imitativi, usi e tradizioni giocano tra loro. Di fronte a questo “potere anonimo”, alimentato da fantasie collettive, da «immagini di desiderio che “sono nell’aria”» (ivi, p. 34), è ancora plausibile immaginarsi una qualche forma di autorità in grado di decidere sulla sua “correttezza” o anche soltanto sulla sua legittimità?

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