Datura. Il fiore del diavolo
La mia, in vaso, regala l’ultima lussuosa fioritura a novembre. Di sera, in portico al riparo dei primi freddi, le campanule rostrate della Datura profumano intensamente di vaniglia. È carica di lunghi boccioli pieghettati: si svolgeranno a ventaglio, aprendosi come girandole, e regaleranno altre notti d’incanto. In verità dovrei chiamarla Brugmansia, perché si tratta del genere arboreo e non erbaceo di una pianta delle solanacee, la famiglia delle patate per intenderci. I botanici le hanno ascritte a due generi diversi, ma da Linneo fino all’altro ieri erano entrambe classificate come Datura, di qui la possibile confusione nominale.
L’erbacea Datura Stramonium, annuale (ma molte le varietà perenni o dai doppi fiori), è un’americana dei tropici, naturalizzata in tutto l’emisfero boreale. La Brugmansia, esotica anch’essa, è arborea e perenne ma nel nord d’Italia da non arrischiare in piena terra. Numerose le differenze: nella Brugmansia il fusto legnoso alto alcuni metri, i grandi fiori penduli e di varie tinte (dal crema al giallo aranciato, dal rosa al rosso), le capsule lisce dei frutti che non si aprono spontaneamente, le ampie foglie lanceolate tomentose, grigioverdi o variegate, caduche o persistenti a seconda delle varietà e del clima. Nella Datura, invece, i fusti sono cilindrici, talora cavi, e superano di poco il metro, le campanule erette d’un bianco abbagliante, di rado violette, le capsule fruttifere dai molli aculei, mature mostrano le quattro logge dei semi, le foglie sono alternate e con margine frastagliato, scure nella pagina superiore, più chiare nel verso e sgradevoli all’olfatto.
Persino i nomi popolari le distinguono: “erba delle streghe” o “erba del diavolo” quelli della Datura, “trombe degli angeli” quello della Brugmansia. Se gli effetti allucinogeni e narcotici dei semi, e in misura minore di tutte le parti della pianta, mandino in Paradiso o all’Inferno è, con tutta evidenza, opinione personale. Belle e velenose, continuano ad alimentare un’antica tradizione di azteche sciamaniche leggende.
L’etimo del nome Datura è probabilmente da ricondurre a un’origine indiana della parola e al significato – riferito ai frutti – di mela spinosa. Ma a me piace di più il falso etimo latino dal participio futuro del verbo dare nella sua sfumatura di predestinazione: ciò che si darà, che è predestinato a dare. Questa proiezione verso l’avvenire è già una risposta a Patrizia Cavalli e alla poesia eponima della sua ultima raccolta, Datura (Einaudi 2013).
Chissà se quella di Patrizia Cavalli è davvero una Datura e non una Brugmansia come, nella sua invidiabile ékfrasis, farebbero pensare il colore e il triduo persistere del fiore. Ma a parte le ubbie da botanico autodidatta, sorprende l’esibita rivendicazione della clausola:
Un altro è il mio progetto, la mia ambizione
è accogliere la lingua che mi è data
e, oltre il dolore muto, oltre il loquace
suo significato, giocare alle parole
immaginando, senza un’identità,
una visione. Come di fronte a un fiore
di datura, a quel suo giallo
non propriamente giallo, crema piuttosto,
la stessa crema che ha la pesca bianca,
con brividi di verde trasparente,
ma delicati, piccoli,
il modo di morire al terzo giorno
o meglio, di seccarsi plissettandosi,
pelle di daino, straccetto, guanto,
ala di pipistrello acciaccato, riccioli, rostri,
questa bellezza propriamente sua,
che tutto ciò in se stesso non ci pensi
neppure alla lontana a poter essere
una soltanto di tutte queste cose,
che dipenda da me la sua apparenza,
che ne sia io la sola responsabile,
questa è la gioia fiera del mio compito,
qui è il valore. Io valgo più del fiore.
Amo molto la poesia di Patrizia Cavalli. Tuttavia questo sentimento d’autoaffermazione così sicuro, così orgoglioso, non mi è congeniale. Posso solo contrapporre un passo di Søren Kierkegaard tratto da un piccolo, mirabile discorso sull’insegnamento implicito nel versetto evangelico «Guardate gli uccelli nel cielo, osservate il giglio nei campi»:
Così stanno le cose quando il Vangelo dice sul serio che l’uccello e il giglio devono essere i maestri. Diversamente per il poeta, o per quell’uomo che, proprio perché manca di serietà, non diventa del tutto silenzioso nel silenzio del giglio e dell’uccello: ma diventa poeta. Certamente il parlare del poeta è il più possibile differente dal comune parlare umano, è così solenne che, comparato con il comune parlare, è quasi come silenzio, e tuttavia non è silenzio.[...]
Così il poeta non diventa silenzioso nel silenzio del giglio e dell’uccello. E perché no? Proprio perché rovescia il rapporto, fa di sé qualcosa di più essenziale del giglio e dell’uccello, immagina di avere perfino il merito – come si dice – di prestare la parola al giglio e all’uccello, mentre il suo compito era di imparare il silenzio dal giglio e dal’uccello (Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo. Discorsi 1849-1851, a cura di Ettore Rocca, Donzelli 1998, p. 43).