20 luglio 2017 / Nobody can save him. Su Chester Bennington

23 Luglio 2017

“Your voice was joy and pain, anger and forgiveness, love and heartache all wrapped up into one". Questa frase è tratta dalla lettera che Chester Bennington ha dedicato a Chris Cornell, frontman dei Soundgarden, dopo aver avuto la notizia del suo suicidio. Ecco, ora è lui che ci ha lasciato, allo stesso modo del suo amico, e mai parole mi sono sembrate più adatte per descrivere la voce che ha accompagnato buona parte della mia vita.

 

I suoi acuti riuscivano a scarnificare il dolore che avevo in petto, facendolo volare via in forma di squame sottili, traslucide, restituendo alla mia anima una nuova pelle, liscia e pronta a ricevere nuove emozioni, positive o negative. Per me finisce un'era. Ho visto i Linkin Park esibirsi 4 volte, l'ultima il 17 giugno 2017 a Monza e Chester mi era sembrato strano, alcune espressioni del suo viso erano forzate e deformate dal dolore. L'energia era sempre tanta, ma diversa, non era lo stesso delle altre volte. Ho pensato che stava ancora metabolizzando la questione di Cornell, ma non avrei mai potuto immaginare questo triste epilogo. L'unica volta che ho parlato con Chester, il 16 novembre 2014 a Parigi, durante un Meet & Greet pre-concerto, gli ho detto quanto la sua musica riusciva ad aiutarmi nella vita quotidiana e a farmi superare i momenti difficili, e lui mi ha risposto sorridendomi dolcemente, ringraziandomi e stringendomi in un sincero abbraccio. In quei pochi istanti ho sentito la sua empatia. Chester Bennington era un grande, così come è incommensurabile il dolore di perdere il proprio cantante preferito.
Carriera, musica, famiglia, soldi non leniscono il dolore, forse lo acuiscono. Sono e continuo a essere molto critica sul suicidio perché a volte sembra che sia il modo più facile per fuggire, anche se ci vuole molto coraggio per prendere una corda, appenderla, fare un cappio, ficcarci la testa dentro e finirla così.

 

Bennington entra a tutti gli effetti negli immortali del rock, nel modo più cruento, lasciando schiere di fan orfane del loro gruppo preferito che non potrà più oggettivamente esistere senza di lui. Se Mike Shinoda è stato e rimane la mente del gruppo, Bennington ne incarnava la componente emotiva.
Chester attraverso la sua voce articolava una certa trasformazione dell'esistenza, un'esperienza, contraeva i muscoli facciali per dare ancora più potenza alle sue note, e spesso si accovacciava durante le parti più significative dei brani che eseguiva, come se avesse voluto convogliare dentro di sé l'energia della musica, stabilendo una connessione ancora più profonda col pubblico. Chiudeva gli occhi e trascendeva dal momento presente, raggiungendo una dimensione altra, sconosciuta, alla quale solo note e anime potevano accedere. Il ritmo armonico di Chester era denso, connotava aperture, vuoti, perdita di controllo, enfatizzava sostanze e contenuti, che l'altro componente dei Linkin Park, Mike Shinoda, equilibrava e provvedeva a fissare. Chester era pura energia cinetica, estrinsecante nel moto perpetuo sul palco, nella tensione dei suoi muscoli e nei gesti attraverso cui innescava pathos ed effetti di senso drammatici.


Chester era in grado di incarnare alla perfezione il tema portante di ogni canzone e gli stati emotivi di tensione e distensione provocati dalla musica, descrivendo il processo più ampio del fare e dell'essere nella musica, nella vita. Una delle prerogative dei brani dei Linkin Park è proprio il distinguere le varie fasi delle storie raccontate mediante l'opposizione tra melodia e rumore, tra parti "urlate" e cantate per restituire una visione completa delle passioni umane in modo da rendere la musica un discorso, un dialogo. Una canzone è indubbiamente una cosa vivente, una sorta di corpo, che Chester padroneggiava nel migliore dei modi possibili, perché era in grado di arrivare sotto la la pelle di questo corpo, esibendosi in un continuo climax psicologico e tensivo, lasciando sempre un'apertura verso l'Altro, il pubblico, di cui ho fatto parte anche io.

 

Mi sono chiesta perché provo tanto dolore per la morte di un cantante, una persona che non fa parte delle mie frequentazioni abituali, e ammetto di essermi sentita molto infantile mentre le lacrime scorrevano copiose sul mio viso. Il fatto è che quando muore una persona a noi vicina sappiamo di poter far qualcosa, di poter dimostrare ai famigliari il nostro cordoglio con una parola, una stretta di mano, un abbraccio. Un fan non può stringere la mano a nessuno, ha notizie di terza mano, può solo vivere il lutto come meglio crede. Un cantante non è una persona che si incontra abitualmente, ma a conti fatti il tempo che abbiamo passato con lui è di gran lunga superiore a quello trascorso con la maggior parte della gente che conosciamo.

 

Insomma, la musica è una parte importante della nostra vita, che accompagna qualsiasi tipo di vissuto, in cui spesso ci rifugiamo per cercare di dipanare i grovigli della mente, proprio quella che a Chester ha fatto un brutto scherzo. L’ultimo album, alla luce della sua morte, racchiude tutto, addirittura i tentativi di Mike Shinoda e degli altri componenti della band di farlo rialzare “da terra”, ma nelle canzoni in cui i due cantanti portano avanti una sorta di dialogo, come Good Goodbye o Sorry for now, i cui titoli mi sembrano da soli estremamente significativi, Chester sembra essersi arreso ai suoi demoni, citati anche in Nobody can save me, e più volte sottolinea che sta per andare via e scomparire, mentre il mondo sta per svegliarsi. Ora mi spiego anche le diverse manifestazioni di stizza di Bennington dinanzi le reazioni negative dei fan all’ultimo lavoro della band: l’artista si era messo a nudo, aveva disseminato indizi, ma tutti si sono fermati alle sonorità pop, stranamente commerciali, non in linea con il genere dei Linkin Park. Qui vedo la mano di Shinoda, che da esperto compositore ha voluto mascherare contenuti troppo oscuri con melodie ammiccanti, atte a simulare un bell’arrivederci, non troppo triste, un commiato da quei demoni, esorcizzati purtroppo nel peggiore dei modi.


Quando a Monza Chester ha cantato, quasi in lacrime, One more light, chinato sul pubblico, osservavo Shinoda, la cui espressione era a metà tra la solidarietà e lo sconforto. Non sappiamo cosa accadesse dietro le quinte, oltre le foto e le storie di Instagram della band, ma evidentemente tutti erano a conoscenza che qualcosa dentro Chester si era inevitabilmente incrinato. Nel video di Good Goodbye, a parte i riferimenti videoludici e la presenza dei due rapper Pusha T e Stormzy, viene inscenata una partita a basket al cospetto di un’entità molto simile alla morte. Nella scena conclusiva fa il suo ingresso una bambina, il cui canestro distrugge Chester e la cupa figura del mietitore. Hanno vinto la partita i demoni dell’infanzia difficile del cantante, violentato da piccolo?


E poi c'è il primo singolo dell’album One more light, Heavy, dove Chester canta di quanto non gli piaccia com'è la sua mente adesso, di non riuscire più a tollerare i suoi stati d’animo, perché tutto è “troppo pesante”. Nel video tratto dalla canzone combatte con se stesso, partecipa a gruppi di aiuto, mette sul tavolo le sue dipendenze del passato e le osserva, cercando di fare un bilancio della sua vita. In alcune scene compare la cantante Kiiara, che interpreta il controcanto e, probabilmente, sua moglie, che cerca di aiutarlo a fare ordine nei suoi pensieri, ma ormai il panico è diventato una parte del suo essere, in cui trova addirittura conforto. Nel ritornello Chester ammette di essere arrivato a pensare che solo lasciando andare tutto si può ottenere la libertà, e il 20 luglio 2017 lo ha fatto, nel giorno del compleanno di Chris Cornell.

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