A Milano il libro dell'incontro
Possibile che tu voglia davvero scrivere di un libro che non hai ancora letto? Sai bene che non si può fare: hai presente quelli che parlano per sentito dire di film mai visti? Una cosa disdicevole. Vero, ma se mi limitassi a raccontare quello che è successo alla presentazione di quel libro? Non so, in questo caso forse è diverso, ci puoi provare.
Sabato 24 ottobre, al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano era prevista la presentazione del Libro dell’incontro: l’evento era previsto per le 19.00 ma erano i giorni di Bookcity e alla stessa ora sarebbero iniziate almeno venti altre manifestazioni. L’Auditorium del Museo di via San vittore è in grado di accogliere più di duecento persone: insomma, mi sono detto, c’erano buone speranze di trovare un posto. Ci tenevo parecchio: del libro mi aveva parlato un paio di mesi prima Manlio Milani, da molti anni presidente della Casa della Memoria di Brescia, sapevo che per la prima volta usciva in Italia un libro frutto delle discussioni fra parenti delle vittime e responsabili dei fatti di sangue legati alla furibonda lotta politica degli anni settanta, di cui nel mio piccolo sono stato testimone, e quindi non mi volevo perdere l’occasione. Insisto con mia moglie per arrivare in anticipo, stai tranquillo, mi fa. E infatti.
Uno degli incontri in una foto scattata da Gerald Bruneau
Alle 18.30 la piazza antistante il Museo è già per metà occupata da una lunga fila di gente in attesa, ci mettiamo in coda, avremo avuto davanti non più di centocinquanta persone, dai che ce la facciamo, la sala è grande. Nel giro di mezz’ora il serpentone si allunga a dismisura, ormai occupa tutta la piazza più un bel tratto del marciapiede verso Sant’Ambrogio. C’è un po’ di nervosismo, sono in parecchi a saltare la coda e a imbucarsi alla spicciolata, con nonchalance. Mastico amaro. La lunga fila però finalmente ha preso a muoversi, a strappi, ma si muove. Poi si blocca ancora e poco dopo le 19.00 scende in piazza Claudia Mazzucato, curatrice insieme a Guido Bertagna e Adolfo Ceretto del libro: ci passa accanto, è sinceramente dispiaciuta, ma ci deve comunicare che la sala è piena e che tutti, autori e testimoni, sono disponibili a un altro incontro, prima possibile. Un ruggito sale dalla folla, qualcuno sfonda il debole cordone dei volontari di Bookcity, si irrompe nel cortile, ci si accalca presso la vetrata dell’ingresso. Lì si resta bloccati, qualcuno alza la voce. Esce Gad Lerner, che avrebbe guidato la presentazione, alto, elegante, bella barba: si affaccia sul cortile, ci ripete quanto già promesso dalla Mazzucato, ma aggiunge che in caso di sfondamento l’incontro sarebbe stato sospeso. Sfondamento? Sospeso l’incontro per il Libro dell’Incontro? Non ci posso credere, è da quegli anni che non mi succedeva niente di simile, mi vergogno un po’, di me così nervoso, di tutti. Poi il colpo di genio di Claudia Mazzucato, che propone a tutti quelli rimasti fuori di restare in cortile: avrebbe provato lei in compagnia di alcuni testimoni a raccontarci l’esperienza, là fuori, affacciata dalla cima delle scale. In molti se ne vanno, ma in più di cento restiamo. Accanto alla fata buona di questa storia, nel frattempo, si è materializzato Gherardo Colombo, poi a fatica si fa strada sugli scalini Luigi Manconi. E l’incontro inizia davvero.
Quella sera a Milano credo che sia successo qualcosa di importante. Giorgio Bazzega, figlio di Sergio, poliziotto ucciso da Walter Alasia nel 1976, ci ha raccontato dell’odio che lo ha divorato per anni, e intanto teneva un braccio sulle spalle di Mario Ferrandi, ex di Prima Linea, condannato per concorso nell’omicidio di un altro poliziotto nel 1977. Entrambi sono tornati sui sette anni che ci sono voluti per mettere insieme il libro e sul dolore che quegli incontri hanno rimesso in circolo e sull’amicizia, hanno usato quella parola, inaspettata e miracolosa nata fra di loro. Poi finalmente è arrivato un microfono (ma tanto nessuno si sarebbe più staccato da quella scalinata) e ha preso la parola Giovanni Ricci, figlio dell’autista di Moro, che per anni era stato ossessionato dall’immagine televisiva del volto del padre crivellato di proiettili e che adesso insieme ad altri parenti delle vittime si preoccupa dei figli, cui si deve risparmiare il dolore dei padri. E intanto, dentro la sala, sappiamo che delle stesse cose stanno parlando Agnese Moro e Adriana Faranda, mentre Manlio Milani che ha visto morire fra le sue braccia la moglie Livia in Piazza della Loggia rivela che un percorso simile sta iniziando anche con i reduci della violenza neofascista, che nel libro però sono assenti (ma questo io lo sapevo in anticipo, mentre fuori, nel cortile, qualcuno chiedeva come mai solo i rossi di allora avessero trovato il coraggio di incontrare i parenti delle loro vittime…). E tutti, testimoni e curatori, ripetevano quanto fosse stato duro quel cammino e quanti non se la siano sentita o abbiano reagito con orrore alla semplice ipotesi del confronto. Perché la strada della giustizia riparativa è difficile ma va percorsa, dato che la pena non assicura alcuna riconciliazione e, soprattutto, avendo imparato di persona che “il male non si risarcisce col male”.
Adriana Faranda, Manlio Milani, Agnese Moro il 24 ottobre alla presentazione del libro
Siamo rimasti lì un’ora e mezza. Davanti ai nostri occhi si riproduceva quell’incontro lungo sette anni che poi è diventato un libro e che quella sera aveva fatto incontrare tutti noi, in buona parte coi capelli grigi, ognuno con la propria personale memoria di quegli anni. Un fatto importante, dicevo, il segnale di un autoriconoscimento civile che mi ha colpito.
Ma quella sera m’è venuto in mente altro, altri libri, stavolta letti e annotati, così che mi sono convinto della portata anche politico-culturale di quanto accaduto in quel cortile. Mi è tornato in mente il più bel romanzo sulla guerra civile italiana pubblicato da decenni a questa parte, L’eco di uno sparo di Massimo Zamboni, che nelle pagine conclusive, a proposito dei tanti cadaveri scomparsi e rimasti insepolti nel Reggiano subito prima e subito dopo la fine della guerra, scrive: “Occorre una nuova inumazione entro terre consacrate, interne al recinto della comunità. Occorre concludere il cerchio del dolore – ancora una volta: di là da ragioni o torti – per rinsaldare il vivere collettivo”. E soprattutto mi sono ricordato di Javier Cercas che ne L’impostore ironizza sulla vuota retorica dei Giorni della Memoria, demolisce il feticcio della Memoria Storica e svela una volta per tutte il kitsch prodotto dall’Industria della Memoria ovvero “una prostituzione, un abbassamento e un surrogato della storia, perché in tempi di memoria quest’ultima occupa gran parte del posto della storia”.
Insomma, nell’ostinata volontà (individuale) di rimanere in quel cortile e di proseguire quell’incontro (collettivo) attorno al Libro dell’Incontro, m’è sembrato di poter leggere un passo importante nella direzione giusta: la storia sia lasciata agli storici, smettiamola col blaterare di “storia condivisa” e che ognuno faccia i conti con il proprio passato e con le proprie memorie. Cercate di capire: da anni assisto nelle scuole italiane alla farsa delle celebrazioni dei Giorni della Memoria affidate agli insegnanti di religione, ai rituali comandati in nome delle vittime di shoah foibe e terrorismo. Quella sera a Milano in quel cortile, grazie a un libro che ancora non ho letto e in fondo al pozzo delle memorie di noi tutti, ho forse intravisto il barlume di una piccola verità. E queste son cose che fanno bene.